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Due livelli di dono: la metafisica e l’antropologia

Nel complicato intreccio delle posizioni esposte sin qui, il dono sembra quindi disporsi simultaneamente su due livelli differenti, operando tuttavia in ciascuno di essi secondo un medesimo genere di movimento: quello della différance.

1) Un primo livello, di natura fenomenologico-trascendentale o ontologica, riguarda la struttura su cui poggia l’esistenza: il tempo, il mondo, l’altro, l’intersoggettività si danno al soggetto di coscienza (Io, Dasein, Adonné) come le sue irrevocabili condizioni di possibilità. Si tratta dell’orizzonte della Gegebenheit (datità/donazione), o dello es gibt (die Zeit, das Sien): comunque lo si chiami, esso si offre alla coscienza del soggetto nella forma di un dono di cui questi si sente destinatario. Poiché ogni dato (donné), come sostiene Marion, nasconde fra le proprie pieghe la struttura di donazione attraverso cui esso può darsi e si dà, ne risulta che la donazione è ciò che apre in noi la possibilità stessa della ricezione, ossia la possibilità del dono tout court. Il paradosso consiste però nel fatto che la stessa Gegebenheit, in quanto si fenomenalizza al pensiero come struttura che rende possibile il darsi di ogni fenomeno, sembra partecipare a suo modo del medesimo orizzonte. La Gegebenheit, ovvero ciò (che) dà (es gibt), si offre essa stessa alla coscienza nella forma di un dato/donato attraverso l’orizzonte della donazione.

2) Questo livello trascendentale del dono, in quanto è condizione di possibilità di una soggettività che sorge solo nel contesto della intersoggettività (il Dasein non sarebbe tale senza Mitsein), risulta (essere) anche condizione di apertura del secondo livello di dono, che chiamiamo etico-soggettivo: solo in virtù della ricezione del dato trascendentale primo (il divenire-nella-forma-del- tempo) il Dasein diviene capace, in quanto Mitsein, di comprendere e fare propria la struttura circolare del dono; capace di circolare con

esso entro il circolo del tempo, dell’esistenza e delle relazioni, donando a sua volta il (proprio) tempo e tutto ciò che si dà secondo la sua forma.

Presentata in quest’ordine, la questione aderisce pienamente alla logica dell’ontologia, ma contraddice alla crono-logica che fonda ogni antropologia, aprendosi quindi a una deriva onto-teologica e metafisica che costringe il pensiero filosofico al silenzio: esito cui Essere e tempo non ha infatti potuto sottrarsi. Da un punto di vista scientifico ed evoluzionistico è decisamente più plausibile ipotizzare che solo a partire dall’effettività del dono/scambio mondano, storico, intersoggettivo sia divenuto possibile per l’homo sapiens (il Dasein della scienza) comprendere il dono come tale, e dunque riconoscerne a posteriori la struttura metafisico-trascendentale nelle pieghe dei dati che si danno alla coscienza. Scrive Jacques Derrida, a proposito di Heidegger: «Questo passaggio dal dono transitivo, per così dire, al dono di ciò che si dona, che dona se stesso in quanto poter-donare, che dona il dono [...] è evidentemente decisivo»196. La différance (il

movimento di dilazione e differimento spazio-temporale della coscienza), in quanto condizione trascendentale della soggettività è ciò che permette l’apertura del dono mondano, io quale non può darsi che all’interno di un tempo che si scarta infinitamente e indefinitamente dall’indifferenziato del presente assoluto, dal qui ed ora dell’immanenza stigmatica e puntuale che contraddistingue la vita dell’animale privo di lògos: il dono, così come il tempo, ça dure.

Non seguiremo Marion nel ritenere che «tutto ciò che è sia solo in quanto donato»: pur con tutte le cautele possibili, una simile formulazione resta interamente ermeneutica, psicologista, intrisa di

196 J. Derrida, La main de Heidegger (Geschlecht II), conferenza pronunciata nel marzo del 1985 a Chicago in occasione di un convegno i cui atti sono stati pubblicati nel volume Deconstruction in Philosophy, University of Chicago Press, 1987; ora in Psyché, cit., pp. 415-452; tr. it. La mano di Heidegger, in La mano di Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1991, pp.31-79, cit. p. 51.

metafisica; faremo invece nostra una prospettiva decostruita, anti-metafisica e, per quanto si può, saldamente ancorata alle molteplici determinazioni storiche di quell’unica concettualità che prende forma, fra le altre cose, nel dono (il che non significa tuttavia voler sposare una posizione empirista o positivista): il dono in se stesso, ossia la capacità materiale di dare/donare, dà forma nell’essere umano a tutta una concettualità (la concettualità stessa, per la precisione) la quale dà forma e contenuto a sua volta, – d’una maniera circolare – al concetto di dono così come noi lo conosciamo. Si tratta di conseguenze cruciali per il nostro discorso, quindi è opportuno insistervi: in assenza di différance, in assenza di quella ragione che consente di astrarre, di differirsi rispetto alla datità concreta del Presente Vivente, non si darebbe alcun dono. Nondimeno, in assenza di dono, in assenza cioè della facoltà concreta di prendere/dare con mano, non si sarebbe mai data, come tale, una coscienza temporale, dunque una ragione. Dono e ragione, dono ed economia, dono e logica risultano quindi implicate, quanto alla loro origine, fin nel più remoto ed ancestrale dei passati preistorici – ma arrestiamoci ancora una volta sulla soglia di un discorso che cercheremo di esaurire nel prossimo capitolo, alla luce di ulteriori argomentazioni.

Riassumendo: se è vero che il dono/scambio mette in moto una circolazione odisseica del soggetto nel tempo (nella misura in cui esso dona “fuori di sé”, all’altro, attendendo il futuro rientro di ciò che aliena), è altrettanto evidente che senza la previa ricezione del dato del tempo non vi sarebbe soggetto, non vi sarebbe pensiero, non vi sarebbero parola, ragione, logica ed economia: quindi non vi sarebbe dono, né nella forma dello scambio economico, né nella forma di una gratuità che vuole oltrepassare la logica del rientro, la spirale dell’eterno ritorno.

Che in questa faccenda di dono si scelga o meno di schierarsi con Derrida, quel che conta è sottolineare che in ogni caso è la legge dell’altro (colui che accoglie il dono) a fondare quella del soggetto (che ne è accolto). Ciò vale nel caso di Husserl come in quello di Heidegger. Vale nel caso di Lévinas come in quello di Derrida. E vale nel caso di Jacques Lacan:

Il soggetto, articolando la catena significante, porta alla luce la mancanza ad essere, insieme alla invocazione a riceverne il completamento dall’altro, posto che l’Altro, luogo della parola, è anche il luogo di questa mancanza197.

Sembra di leggere Lévinas, quando scrive che «riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere altri significa donare»198.

Nel commentare questo passo, Beatrice Bonato consente alla prossimità di questo incontro di farsi ancora più chiaramente visibile:

Il linguaggio appare dunque come la condizione di un riconoscimento, che è sostanzialmente riconoscimento di una mancanza, di una povertà rivelata dall’Altro nell’epifania del volto; la proposta dell’uomo si propone allora come dono199.

Solo per ricordare poi, poche righe più avanti, come secondo Lacan è «nel dono della parola che risiede tutta la realtà dei suoi effetti, giacché è attraverso la via di questo dono che ogni realtà è venuta all’uomo [...]»200.

In tutti questi casi sembra farsi presente un analogo rischio: quello della ricaduta nell’onto-teologia (seppure negativa, ribaltata, “alterata”) quanto alle nozioni di tempo, di dono e di Altro. Derrida 197 J. Lacan, Écrits, Seuil, Paris 1966; tr. it. Scritti, Einaudi, Torino 2002 (1974), vol. 2, p. 623.

198 E. Lévinas, Totalité et Infini. Essai sur l’exteriorité, Nijhoff, La Haye 1961; tr. it.

Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1982, p. 73.

199 B. Bonato, Tra il desiderio e il dono. Note su Lacan e Lévinas, cit., p. 243, nota 18. 200 J. Lacan, Scritti, cit., vol. 1, p. 312.

non è cieco di fronte al pericolo di una simile deriva, da cui neppure il suo discorso può preservarsi mai fino in fondo, nonostante essa costituisca il bersaglio di ogni decostruzione, prima fra tutte quella operata in Violenza e metafisica rispetto all’opera di Lévinas: non si può riequilibrare lo squilibrato e violento impianto di una metafisica ego-centrata limitandosi a ribaltare il dato della soggettività originaria entro quello di una alterità assoluta, trascendente e maiuscola. Eppure, anche in questa ‘A’ maiuscola, inscritta nell’Altro come suo principio, non sembra nascondersi un fattore di rischio reale: tale Altro, infatti, pur trascendendo il soggetto individuale, resta pienamente immanente, come condizione di possibilità storicamente determinata del costituirsi della soggettività. Esso, inoltre, non è semplicemente èteros/alter, ovvero altri dallo stesso in una relazione oppositiva a due termini201. Piuttosto, come fa notare

Bruno Romano, «l’Altro, così designato, è l’Altro-Terzo, medio di ogni relazione tra i soggetti che esercitano la parola piena, la parola evocante, situata, per la metonimicità del significante, nella “mancanza d’essere”»202. Si tratta qui della funzione poetica del

linguaggio, della sua capacità metaforica, che apre il piano simbolico. Lo stesso vale, quindi, per quel sýmbolon par excellence che abbiamo detto essere il dono, la cui condizione di possibilità è, analogamente, un altro che è sì trascendente, ma non ab-solutus: è l’altro con cui si è già sempre in relazione (Mitsein). L’altro che inaugura la legge del dono è dunque altri, ossia l’altro tanto simile quanto differente, tanto prossimo quanto distante: altri è l’altro soggetto di coscienza, un èteros fra tutti gli àlloi che costituiscono 201 Si veda in merito Paul Gilbert: «Con èteros, [...] si parla dell’“uno dell’altro”, o “l’altro dell’uno”, senso binario che passa nell’alter latino [...]. L’èteros è alter, altri dello stesso; l’àllos è piuttosto uno tra altri, alii. [...] L’àllos si ritrova in un insieme generico con gli altri ‘stessi’. [...] L’alius o l’àllos rinvia a una matrice comune, di cui gli uni e gli altri sono variazioni secondarie» [Id. , Donare, cit., pp. 16-17].

202 B. Romano, Per una filosofia del diritto nella prospettiva di Lacan, Lezioni A.a. 1990-91, Bulzoni, Roma 1991, p. 63.

l’orizzonte della intersoggettività. Entro un simile orizzonte, per scongiurare il rischio della violenza è tuttavia necessario ricordare che tout autre est tout autre, che ognuno è altro all’altro e per l’altro. Diremo allora, più precisamente, che è la legge dell’accoglienza, la quale è sempre accoglienza dell’altro in quanto altro (nel doppio senso del genitivo), a fondare la legge del soggetto, trascendendolo: solo nella misura in cui gli esseri umani si riconoscono ed accolgono reciprocamente, infatti, può fiorire la soggettività attraverso la intersoggettività. Il Dasein attraverso il Mitsein. L’essere (o meglio il divenire) attraverso l’“inter-essere”.

L’intersoggettività è la relazione tra soggetti, quella relazione ove ciascuno riconosce l’altro, muovendo dall’altro; l’intrasoggettività è quel rapporto ove gli uomini si riferiscono l’uno all’altro, muovendo dal presunto darsi-già di ogni soggetto, senza l’essenziale incidere dell’altro nel costituirsi, sempre ricostituentesi, della sua soggettività203.

Il rischio della deriva metafisica, lo si comprende bene, può mettere in crisi un intero impianto di pensiero: ma è proprio su questo pericoloso margine che si annida tutta la difficoltà e la aporeticità di un pensiero – quello di Derrida, quello di Lévinas, quello di Lacan – che intende mantenere un contenuto pratico e vitale. Proprio su questo margine dovrà pertanto indirizzarsi la decostruzione, la quale lavora anzitutto contro di sé, contro il sé e contro gli auto-inganni di una coscienza che ama pretendersi autoreferenziale giacché, seppur attraverso altri, essa sorge in prima istanza nello spazio privato del proprium. Se il dono pure si presta benissimo ad essere trattato entro un orizzonte apparentemente astratto come quello dell’ontologia, si comprende nondimeno come esso ponga, fin dal principio, centrali questioni di carattere etico. E se il fattore etico e antropologico resta praticamente assente, per scelta, dall’orizzonte del rinnovato progetto fenomenologico di 203 Ivi, p. 28.

Marion, così non è nel caso di Jacques Derrida che, forse anche sulla spinta del confronto con Lévinas, non tarda a declinare la questione in tal senso. Bisogna dunque chiedersi, adesso, con Derrida: al di là dell’orizzonte puramente fenomenologico-metafisico, di cui forse non si potrà dire mai nulla di certo e definitivo (poiché «una teoria del dono è, per essenza, impotente a pensare il dono»204), che ne è

dell’etica, che ne è del dono come momento concreto, peculiare e decisivo della relazione fra soggetti differenti? Che ne è del dono come impensato, come “concetto” che mette in crisi le possibilità stesse del pensiero? E che ne è dell’altro, di ogni altro e di tutti gli altri, in questo impossibile pensiero del dono?

Se è vero che non può esservi dono senza il tempo, è infatti altrettanto vero che non vi sarebbe dono se non vi fosse un altro cui il dono possa indirizzarsi nella forma di una supplica, di un’invocazione che è già un «sì», che è già una risposta: «l’Altro parla, il volto è espressione – sguardo e parola –, ma la parola è già una risposta, un ascolto, una corresponsione, in ultima analisi un dono»205. Per “sopra-vivere” l’io deve presupporre l’esistenza

dell’altro, proiettarsi oltre gli angusti confini del proprio sé con un movimento che è proprio quello del dono. Se dunque si dona sempre altro, nel tempo, ad altri; e se queste stesse sono definite da Derrida come le «condizioni di possibilità del dono», altrettanto sorprendenti suoneranno le sue parole, laddove scrive:

Ecco che l’impossibile sembra qui darsi a pensare. Queste condizioni di possibilità del dono (che qualc-“uno” doni qualche “cosa” a qualc-“un altro”) designano infatti simultaneamente le condizioni dell’impossibilità del dono [...]. Queste condizioni di possibilità definiscono o producono l’annullamento, l’annichilazione, la distruzione del dono206.

204 J. Derrida, Donare il tempo. La falsa moneta, cit., p. 32.

205 B. Bonato, Tra il desiderio e il dono. Note su Lacan e Lévinas, cit., p. 243. 206 J. Derrida, Donare il tempo. La falsa moneta, cit., p. 14.

Perché compare ancora una volta, proprio qui, in relazione all’altro, dunque lontano dagli astratti orizzonti della fenomenologia e dell’ontologia, un simile spettro d’impossibilità?

La “posizione” di Derrida a riguardo è piuttosto nota, forse perché esposta, in tutto il suo paradossale rigore logico, fin dalle primissime pagine di Donare il tempo: il dono, come tale, è l’impossibile stesso, l’impossibile che si mostra nella sua forma più (im-)propria.