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Ai margini della fenomenologia: la legge del dono

L’estensione potenziale della nozione di dono, laddove la si accolga nei termini esposti, appare dunque in tutta la sua portata. Già presso Heidegger la semantica della donazione informa in maniera esplicita la struttura del nostro essere-nel-mondo in quanto soggetti di conoscenza: il Dasein, gettato com’è nel (-la datità del) mondo, non può che constatare che tutto ciò che lo circonda si “presenta” (si dà) nella forma di un dono – es gibt. Espressioni idiomatiche come «si dà il caso», in italiano, o «es begab sich», in tedesco, sembrano render conto, in qualche modo, di un’analoga consapevolezza propria del senso comune177.

creatore, va da sé che il dono della donazione, dunque la donazione stessa, verrebbe a configurarsi come un’esclusiva dell’uomo, un privilegio antropocentrico, poiché il

Dasein/adonné (ossia l’ànthrôpos) resta il solo a poterla riconoscere come data/donata a sua

volta. La donazione resterebbe cioè, in quanto dono, comprensibile e quindi fruibile al solo essere umano, unico fra tutti gli altri esseri a potersi riconoscere come “depositario” della donazione stessa. Il Dasein, l’adonné, l’essere razionale, per dirla con il Kant della

Fondazione della metafisica dei costumi, resta infatti l’unico ente che di fatto può parlare di

“donazione”.

177 È interessante registrare, almeno di sfuggita, che la citata espressione tedesca, costruita sul verbo begaben (dare, dotare, munire), compare in un passaggio chiave dell’Antico Testamento, quello che narra il fratricidio di Abele per mano di Caino: questi non poteva tollerare il fatto che il YHWH avesse ignorato il suo dono sacrificale (della frutta) in favore di quello, ben più ricco, del fratello, che aveva invece sacrificato

Se quindi si acconsente che la Gegebenheit (come datità o come donazione, la sostanza non cambia molto) sia presente tanto nel sistema di Husserl quanto in quello Heidegger come struttura trascendentale dell’essere-nel-mondo del soggetto (premessa che, in una maniera problematica, anima Donare il tempo), non si stenterà a capire in che termini il tema del dono si sia letteralmente «imposto», anzitempo, alla riflessione di Jacques Derrida. Solo alla luce di simili presupposti risulta possibile assumere tutte quelle questioni collaterali che il centro gravitazionale del dono permette di, o piuttosto costringe a prendere in considerazione. Come abbiamo avuto modo di sperimentare sin qui, infatti, il nucleo concettuale del dono non cessa per un solo istante di scindersi sotto gli occhi del suo osservatore, e proprio da ciò deriva l’enorme difficoltà di render conto in maniera più o meno sistematica di tutte le sue implicazioni: anzi, il pensiero del dono resta forse uno dei più difficili da articolare entro una qualche pur precaria tassonomia, proprio perché esso è come tale, nella prospettiva di Derrida, un (non-)concetto disarticolante e disarticolato. Esso non resiste che all’infinito, senza «i primogeniti del proprio gregge» (cfr. Genesi 4:3, Es begab sich nach etlicher Zeit, daß

Kain dem HERRN Opfer brachte von den Früchten des Feldes). Della traduzione tedesca della

Torah siamo debitori a Martin Lutero, il quale fu responsabile dell’estensione del concetto di gratia intesa come salvezza elargita da Dio agli uomini senza alcuna possibilità di previsione: salvezza, dunque, intesa nei termini di dono fatale, predestinato, iperbolico e assolutamente non ripagabile (Sola gratia jusitifcat – questo il terzo precetto che ispira la riforma protestante). Eppure, il destino di Caino sembra essere stato deciso proprio da un dono poco gratificante: un dono che non meritava in

cambio alcuna particolare considerazione, e che non poteva ingraziarsi in alcun modo il

favore del Signore (tutti questi significati, “gratificazione”, “(r-)ingraziamento”, “scambio” sono implicati nel termine greco kharìsma, cui corrisponde la traduzione latina gratia). Caino uccise suo fratello Abele per invidia, non potendo sopportare il fatto che il dono offerto a Dio da suo fratello fosse risultato, al Supremo, molto più gradito del proprio. Ci si potrebbe chiedere se la preferenza divina potesse aveva qualcosa a che fare con il fatto che Caino, agricoltore, avesse dovuto fare dei calcoli precisi (attinenti proprio alla strumentalizzazione della terra) per avere qualcosa da sacrificare a Dio, laddove suo fratello non aveva fatto che immolare un agnello nato spontaneamente e senza che egli avesse a calcolarne. Sia come sia. Ma per quale assurda e incomprensibile trama divina Caino dovette essere scacciato in un paese a nord di Eden il cui nome rappresenta proprio l’esatto opposto del dono (Nod), ciò non è dato sapere (Cfr. Genesi 4:16).

articolazione né articolo possibili: il donare. Nondimeno si comprende adesso cosa Derrida intenda quando afferma di non aver mai smesso di trattare del dono, seppur attraverso i motivi criptati della speculazione, della destinazione o della promessa, del sacrificio, del “sì”, o dell’affermazione originaria, dell’evento, dell’invenzione, della venuta o del “vieni”:

Ciò che avevo tentato di articolare a proposito della chiamata, come del “vieni”, del “sì”, e soprattutto a proposito della loro irriducibile iterabilità, della “destinerranza” di un invio determinato a partire dalla risposta, come

del “dono” in generale, mi indurrebbe senza dubbio a sottoscrivere la “logica”

e la “necessità” di questa analisi [quella di Marion. Corsivi miei, P.M.]178.

Come si è già detto, infatti, lo stesso Jean-Luc Marion non fa che trarre le estreme conseguenze dei sentieri interrotti di Husserl e Heidegger: che dunque Derrida sia disposto a «sottoscriverne», almeno inizialmente, la “logica” non desta particolare sorpresa. Se quel che si chiama “datità” o “donazione” trascende la costituzione della coscienza soggettiva, rendendola possibile e definendone il contesto di apparizione, la Gegebenheit deve necessariamente offrirsi alla coscienza del Dasein – in quanto però già dotato degli strumenti socio-linguistici per interpretarla – come la struttura in cui esso stesso viene “accolto”. A questo punto, l’analisi dei temi dell’accoglienza e della chiamata risulta per Derrida non soltanto opportuna, ma consequenziale e inevitabile.

Solo attraverso l’adesione incondizionata ad una legge già data l’essere umano può infatti corrispondere a quella vocazione originaria che sembra accoglierlo nel mondo in quanto soggetto: si spiega in tal modo l’emergere, in Jacques Derrida, delle tematiche della destinazione, della promessa e del “sì”. Un «sì» che ogni individuo pronuncia al cospetto della legge dell’essere, legge dell’evento, legge dell’altro che si dà in quanto dono: l’ultimo 178 J. Derrida, Donare il tempo. La falsa moneta, cit., p. 176.

Husserl, Heidegger, Lacan, Lévinas e Derrida si incontrano qui senza che più alcuno scontro ne abbia a prodursi.

Lasciar essere la cosa nella sua singolarità prima di ogni oggettività (quindi prima di ogni dialettica di soggetto e oggetto) implica che in un certo senso si dica “sì” alla legge della cosa. Ci si sottometta ad essa, ci si inchini dinanzi ad essa. Dal punto di vista della sua alterità, la cosa, l’altro, detta una legge che viene ricevuta passivamente – passibilmente – e che si colloca al di qua della distinzione attivo/passivo. Ma a parlare di legge troppo presto si rischia di condurre ad un fraintendimento, dal momento che questa legge non è altro che un dono [corsivi miei, P.M.]179.

La legge, in quanto proveniente dall’altro, in quanto legge dell’altro, precede sempre la comparsa al mondo del soggetto. Tale legge, ricevuta “in dono” (così come quelle del tempo e del linguaggio), è quanto di più proprio ognuno conservi, eppure, paradossalmente, essa «non appartiene a nessuno in quanto tale»180:

tutto ciò a cui più strenuamente ogni soggetto si aggrappa, il “proprio” tempo, la “propria” lingua, il “proprio” sé, non rientra nel dominio di ciò che si dice soggetto alla proprietà. Ne va, evidentemente, del rapporto fra il soggetto e la propria identità; ne va della costituzione stessa delle strutture fondanti l’io: «non ho che una lingua, ma essa non è mia, non mi appartiene», ripete infatti, insistentemente, Jacques Derrida in un saggio di recente pubblicazione181.

179 G. Bennington, Derridabase, in G. Bennington e J. Derrida, Jacques Derrida, Seuil, Paris 1991; tr. ing., Jacques Derrida, The University of Chicago Press, Chicago and London 1993, p. 188 [traduzione mia, P.M.].

180 J. Derrida, Donare il tempo. La falsa moneta, cit., p. 4.

181 J. Derrida, Le monolinguisme de l’autre, Galilée, Paris 1996; tr. it. Il monolinguismo