In effetti dono, perdono, amicizia, ospitalità e responsabilità esibiscono la medesima struttura paradossale e aporetica. Cioè a dire, ciascuna di esse sembra realizzarsi soltanto nell’esperienza della propria intrinseca impossibilità:
• Il dono, in questo senso, è tale soltanto se dona ciò di cui non
dispone. Dono sarebbe allora quello del tempo, quello della morte, scrive emblematicamente Derrida, in quanto entrambe figure di ciò che non c’è, che non è presente, che anzi non è tout court, né mai sarà. Il solo dono che ha dinanzi a sé un avvenire sarebbe il dono che non ha e che non è (un) presente, ma che semplicemente, vedremo in che senso, si dà.
• Analogamente, si darebbe perdono soltanto ove ci si facesse
carico del dovere di perdonare l’imperdonabile, non essendovi alcun perdono laddove si assolva l’altro in ciò che facilmente si è disposti a lasciar correre.
• Lo stesso genere di struttura paradossale investe poi la legge
dell’ospitalità, la cui concezione è tutta giocata sulle ambiguità della catena semantica hospes-hostis-host-guest-geist-ghost, per cui l’ospite/host dovrebbe comprendere come concreta ed ineluttabile la possibilità di vedersi assediato, ossessionato (entrambi i verbi derivano dal latino obsidère), preso in ostaggio in casa propria dallo ospite/guest, straniero dalle sembianze nemiche e spettrali (hostis, ghost).
• Il tutto nel quadro di una responsabilità che è urgenza per il
soggetto, sempre necessariamente in-relazione, di offrire risposta a quella richiesta d’ascolto che dall’altro, da ogni altro gli arriva. Richiesta che è già una promessa e una resa, la quale non rende nulla ma piuttosto si arrende e abbandona alla necessità vitale e inaggirabile della relazione stessa. Urgenza capitale, ché in essa ne va della sopravvivenza stessa dell’umano, di far rotta in direzione di quell’altra riva, di quell’altra sponda che, con un azzardo etimologico, è già in gioco in ogni promessa come in ogni risposta27.
Urgenza etica e politica, vale a dire, di concepire – proprio attraverso la strada della fenomenologia ma oltre i suoi limiti e le sue chiusure – un nuovo modo di rapportarsi all’alterità, aprendosi all’evento concreto ed urtante dell’altro, e disponendosi all’accoglienza (forse utopica, forse impossibile, ma proprio per questo da ricercare) nel modo di un’apertura che, in linea di principio, si oppone non tanto alla logica come tale quanto ai suoi presupposti egocentrici.
È la logica, la logica stessa, che qui non voglio criticare. Sarei anzi pronto a sottoscriverla: ma con una mano sola, l’altra la riservo per scrivere o 27 L’azzardo, evidentemente, consiste nell’aver connesso, attraverso un legame di semplice assonanza, di mera apparenza acustica – quello sussistente in latino fra l’etimo di sponda ed il verbo spondeo (spondere significa “promettere”, mentre respondere “impegnarsi a propria volta”) – le differenti maglie della catena semantica composta dalle parole riva, sponda, risposta; nonostante l’arbitrarietà di un gesto simile, tuttavia, è giusto ricordare che esse intrattengono tutte, in un modo o nell’altro, un effettivo e stretto rapporto con l’idea d’alterità.
cercare qualcos’altro. Non solo per cercare, al modo della ricerca, dell’analisi, del sapere e della filosofia [...] ma per non tracciare anticipatamente una frontiera davanti all’a-venire dell’avvenimento, a ciò che viene, a ciò che può darsi e che può darsi venga da tutt’altra sponda [...]. Certo è difficile. È persino impossibile concepire una responsabilità che consista nel rispondere di due leggi o a due ingiunzioni contraddittorie. Certo. Ma non c’è responsabilità che non sia esperienza dell’impossibile28.
Quella tratteggiata da Jacques Derrida si configura quindi come un’etica dell’impossibile o, più semplicemente, una apor-etica, in quanto essa chiama ogni singolo individuo, in ogni ambito di relazione e dunque in ogni ambito dell’esistenza, a fare i conti con l’impossibile: perdonare l’imperdonabile, donare oltre i propri beni (diciamo pure al di là del concetto stesso di bene, di ricchezza e di proprietà), aprire la propria dimora allo straniero, riconoscendolo come simile al di là dei vincoli di sangue e fratellanza29. Impossibile
è, da questo punto di vista, tutto quanto sia concesso fare, poiché ciò che è invece necessario, dovuto e calcolabile, in quanto già dato, risulta già sempre sottratto alla sfera di ciò che resta invece ancora a venire, ancora da darsi.
Il dato (in quanto fenomeno già avvenuto, debito, possibile e certificabile) ed il dono (in quanto evento impossibile, ancora preso nella sfera di ciò che resta a venire) si fronteggiano qui come i due estremi di un contrasto che, se pure apparente, comunque si installa alle fondamenta di tutta la nostra metafisica: il contrasto, cioè, fra Ipse e alter, fra lo Stesso e l’altro, fra il principio identitario e la sua antitesi la quale, più che riflesso speculare, ne è la condizione di possibilità o, se si preferisce, la chance trascendentale. Un contrasto, 28 J. Derrida, Oggi l’Europa, cit., pp. 47, 33.
29 In tutto ciò, evidentemente, il primo passo doveva essere – e fu effettivamente – quello del ripensamento del concetto stesso di ‘proprio’, di proprium e di proprietà in quanto caratteristiche fondanti il soggetto tradizionale, al cui ripensamento Derrida si era dedicato sin dal principio del proprio percorso, facendosi a suo modo promotore di quello stesso spirito che animava pensatori del calibro di Michel Foucault e Gilles Deleuze.
dicevamo, che probabilmente non c’è, di certo non è né esiste ma, appunto, ugualmente si dà a pensare come il frutto più ancestrale del nostro intelletto: quella logica che organizza i dati fenomenici su base binaria.
Come si può pretendere, allora, di separare il campo dell’etica da quello dell’ontologia e dell’epistemologia, se l’altro, ogni altro, in quanto evento che libera la questione (dell’) etica, fa la sua comparsa per la via di un gesto linguistico/intellettuale che opera con violenza fragorosa e categorizzante sul tessuto di una realtà in cui tutto è, invece, necessariamente co-implicato30?
Questa esperienza ha affinato la mia ponderata diffidenza nei confronti delle frontiere e delle distinzioni opposizionali (concettuali o meno) e mi ha dunque spinto a elaborare una decostruzione, ma anche un’etica della decisione o della responsabilità esposta alla resistenza dell’indecidibile, alla legge della mia decisione come decisione dell’altro in me, votata all’aporia, al non-potere o al non-dovere fidarsi di una frontiera opposizionale tra due, per esempio tra due concetti all’apparenza dissociabili [ultimo corsivo mio, P.M.] 31.
Tutta la posta grava su questa apparentemente innocua e innocente parola «apparenza» che in italiano resta la traduzione più letterale del termine tedesco Erscheinung, “fenomeno”. Mettiamo tuttavia tale questione fra parentesi per un istante: vi ritorneremo nel prossimo capitolo, quando il terreno della questione fenomenologica sarà pronto per essere dissodato.
30 L’evento, che in quanto evento dell’altro sempre coinvolge tanto la sfera dell’etica che quella dell’epistemologia, è di per sé qualcosa di inatteso ed incalcolabile: è «ogni volta unico e irripetibile», alla stregua della morte (esperienza dell’impossibile per eccellenza, ogni volta unica, irripetibile e mai propria né appropriabile). Per questo motivo la legge e il diritto positivo non saranno mai capaci di rispondere efficacemente alle esigenze di una simile, singolare etica. Essi dovranno, al contrario, lasciarsi costantemente ispirare da ciò che Derrida chiama con il nome di «giustizia»: quella sorta di ragionevole inclinazione ad una rettitudine “superiore” che sola può veicolare le esigenze di un’etica dell’impossibile all’interno delle leggi positive del diritto.
31 J. Derrida, Abraham, l’autre, Galilée, Paris 2003; tr. it. Abramo, l’altro, Cronopio, Napoli 2005, pp. 59-60.