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La risposta che un’etica della promessa e della responsabilità offre alla violenza urlante ed urtante di quella «parola che schiaccia l’altro» la si dovrebbe cercare dunque nel silenzio di una distanza incolmabile: «un silenzio deciso dall’altro che è in me»41.

Una simile affermazione ci proietta entro l’orizzonte del pensiero di Emmanuel Lévinas: nella relazione con la riflessione di questi e nel rapporto estremamente conflittuale e silenzioso con la propria appartenenza ebraica42, incancellabile poiché marcata per

sottrazione attraverso la circoncisione, si individua infatti l’altro dei due grandi solchi concettuali lungo i quali è possibile, forse inevitabile, svolgere un’esposizione coerente e, per quanto concesso, sistematica della nozione di dono/debito nella prospettiva di quel jewgreek che è Jacques Derrida. Se infatti, per un verso, è impensabile che nel confronto con la metafisica Derrida potesse evitare di fare i conti anche con l’etica, è d’altro canto interessante notare come tutti i nuclei etico-politici che egli si impegna a decostruire si trovino in qualche complesso ma esemplare rapporto con la tradizione giudaica, prima ancora che greca43.

cit.; tr. it. Violenza e metafisica – Saggio sul pensiero di Emmauel Lévinas, in La scrittura e la

differenza., cit., p. 197. Il saggio, peraltro, è una delle testimonianze più lampanti di

come le implicazioni etiche di problematiche non immediatamente tali fossero da sempre ben presenti allo spirito del nostro autore.

41 J. Derrida, Abramo, l’altro, cit., p. 43.

42 Verso di essa Derrida si è sempre definito un «marrano», ma pure, nonostante ciò, «più ebreo dell’ebreo».

43 Dunque il dono come ciò che interviene a spezzare il circolo economico entro una società che si è edificata sul commercio; il perdono che, inteso come perdono (dell’)impossibile, mina alle fondamenta un sistema giudiziario fondato sulla legge del taglione in quanto giustizia economica e re-distributiva; il radicale ripensamento delle leggi dell’ospitalità in relazione alle usanze di un popolo errante sulla eterna via del ritorno ad una presunta casa/terra originaria; il tentativo di sottoporre a decostruzione l’idea stessa di comunità (ebraica e non) a partire da un nuovo concetto di amicizia non più intesa nel senso di fratellanza e prossimità (tema che peraltro già affiorava sul finire degli anni cinquanta nel saggio Edmond Jabès e la interrogazione del libro, contenuto in La

scrittura e la differenza); per non parlare, appunto, della questione della scrittura, da

Da una parte, ogni volta che ho dovuto trattare in modo serio, in un altro modo, nella storia della filosofia o dell’onto-teologia, per esempio in Nietzsche, Heidegger o Lévinas, ma anche in tanti altri, questo tema di una colpevolizzazione o di una responsabilità (Schuldigsein, come i tedeschi hanno la fortuna di poter dire usando una sola parola), il tema di un debito, di un indebitamento [...], ogni volta che mi addentravo in questa grande problematica filosofica, vedevo ritornare, dal fondo senza fondo della memoria, questa esperienza dell’assegnazione asimmetrica dell’essere ebreo, la vedevo andare avanti di pari passo con quel che è diventato per me una risorsa immensa [...]. Qui, l’esemplarismo consisterebbe nel riconoscere o nel pretendere di identificare, in quel che viene chiamato l’Ebreo, la figura esemplare di una struttura del vivente umano, ovvero questo essere originariamente indebitato, responsabile, colpevole44.

Eccoci catapultati nel malfermo territorio semantico e concettuale in cui il debito, la colpa, il grazie, la grazia ed il dono non sono più separabili con certezza. Il terreno della genesi di un intero popolo, l’Eden di tutta una razionalità. Potremmo dire, forse, il terreno di un Genesi, ossia di un libro sacro che segna l’inizio della nostra storia culturale proprio attraverso la narrazione di un dono del tutto anomalo, un dono finito male su cui si abbatté una condanna capitale, e che dalla notte dei tempi ci marchia e macchia di una colpa originaria.

È però doveroso ricordare come Derrida, a differenza di altri, non permette mai che il proprio discorso si lasci incasellare nel binario di un’unica tradizione filosofica, linguistica, religiosa; nondimeno il rapporto di marrano/parricida nei confronti della propria filiazione ebraico/greca rimane sempre individuabile fra le righe, come una traccia che percorre tutta l’opera lungo il margine, poiché tale è la sua tradizione: l’unica che egli possa impegnarsi a decostruire dall’interno o meglio, come si è già tante volte ripetuto, dai margini.

potrebbe dire su di un’etica della scrittura, senza dover necessariamente entrare nel dettaglio dei pur espliciti riferimenti di Derrida ad essa in quanto pratica massimamente ebraica).

Anche questa circostanza risulta capitale in un discorso sul dono come quello che stiamo cercando di impostare, di impostare altrimenti – ammettiamolo una volta per tutte – rispetto alla mole dei discorsi sul dono che negli ultimi anni hanno invaso le accademie di tutto il mondo, finendo così riassorbiti entro quella logica che speravano di mettere in questione.

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, a questa traccia ebraica fa da sfondo più o meno visibile, ma pur sempre presente, quel “greco tragico” che per primo aveva denunciato come perversa e masochista la morale ebraico-cristiana ed ellenistica dominante l’Occidente. Prima di entrare nel vivo del complicato rapporto con Lévinas, pertanto, seguiamo questa prima traccia, forse più originaria, poiché è proprio attorno ad essa che la decostruzione dei valori etici proposta da Jacques Derrida sembra prendere forma.