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Dono, interesse e riconoscimento

In questa prospettiva è del tutto plausibile che il gruppo del MAUSS, in quanto accoglie nella sua interezza il lavoro di Marcel Mauss, non faccia del disinteresse una condizione necessaria perché il dono possa dirsi realmente tale. Andando oltre, ma su di una stessa linea, Alain Caillé e Jacques Godbout definiscono infatti ‘dono’ «ogni prestazione 230 Ivi, p. 131.

231 Ivi, p. 133. 232 Ibidem. 233 Ivi, p. 20.

di beni o servizi effettuata, senza garanzia di sostituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone». In questo senso, però, l’interesse non si presenta come un effetto collaterale del dono, incapace tuttavia di inficiarne l’essenza: esso se ne rivela, piuttosto, la condizione fondamentale. Se è vero che il dono ha (è) questo interesse a ricreare il legame sociale, non si comprende chiaramente perché gli autori del MAUSS non abbiano fatto della presenza di interesse la conditio sine qua non del dono: laddove non fosse interessato alla creazione del legame sociale, difatti, il dono non sarebbe ciò che è (almeno secondo Caillé e Godbout). Probabilmente ciò dipende dal fatto che essi continuano a ritenere possibile anche una forma di dono completamente gratuita e disinteressata. Ma allora ci si chiede ancora, qui: perché riunire sotto quest’unico segno ‘dono’ un ambito semantico tanto vasto e incerto?

In ogni caso, questa non è l’unica ragione per cui l’interesse non può ridursi ad un’implicazione più o meno necessaria del dono. Inteso nel senso di Mitsein (con-essere), l’inter-esse ne è, al contrario, la condizione di possibilità: senza intersoggettività, senza la compresenza dell’altro, infatti, letteralmente non potrebbe darsi dono alcuno, giacché non vi sarebbe nessuno a cui dare, nessuno da cui prendere, nessuno a cui restituire.

Inter-esse significa: essere tra e per entro le cose, stare in mezzo a una cosa e perseverarvi. Invece, per l’interesse odierno ciò che conta è solo l’interessante234.

È evidente che si parla qui di “interesse” in un senso ben diverso da quello che governa ad esempio un fenomeno di prestazione totale come il potlatch, interamente strutturato sull’idea del rilancio ad usura, sull’idea di interesse economico (o, piuttosto, aneconomico). Il 234 M. Heidegger, Cosa significa pensare?, cit., p. 39.

caso di questa pratica di dispendio agonistico, tuttavia, è doppiamente emblematico giacché ci permette di vedere molto nitidamente come tutte le prestazioni di scambio si giochino su di una rete di rapporti fra forze contrapposte. Lo scambio/dono descritto da Marcel Mauss (e accolto tale quale dagli autori del MAUSS), ricalca in tal senso lo schema della dialettica del riconoscimento formalizzata da Hegel. E se una tale circostanza era forse sfuggita all’attenzione di Mauss, per qualcuno come Marcel Hénaff essa rappresenta invece la caratteristica essenziale del dono: rendere possibile il mutuo “riconoscimento” fra individui. Hénaff, in realtà, non è disposto ad accogliere in blocco gli insegnamenti di Mauss. Secondo lui, infatti, non è possibile negare l’esistenza di fenomeni di dono effettivamente dominati dal fattore della gratuità. Ed è per questo che egli è costretto a stabilire una tripartizione entro ciò che si chiama ‘dono’, distinguendo cioè il dono come scambio, caratterizzato da una reciprocità fondamentale (il cosiddetto munus), il cui campo semantico è, in greco, quello della dosis/anti-dosis (dove ‘anti’ indica l’azione di ritorno); il dono come generosità e gratuità che non accetta ritorno, come quello fatto dai genitori ai figli (la kháris); e infine il dono nella sua dimensione sociale, in cui rientrano i doni fatti ai prossimi e agli sconosciuti (il cui campo semantico sarebbe quello della philìa e dell’anthropo-philìa.

Come si può osservare, il discorso di Hénaff si sostiene solo grazie ad un’estrema, chirurgica suddivisione del concetto di dono: egli individua infatti ben otto diversi fattori la cui compresenza serve a stabilire in modo univoco a quale delle tre categorie un generico fenomeno oblativo in effetti appartenga. Il punto cruciale dell’argomentazione di Hénaff, tuttavia, consiste nel fatto che il dono, in particolare quello che egli definisce ‘cerimoniale’ (e che corrisponde alla terza delle citate categorie) non è mai fine a se stesso: piuttosto, esso è secondo lui il mezzo e la condizione

preliminare del riconoscimento reciproco. In altri termini, il dono cerimoniale (il munus comunitario) sarebbe per Hénaff il banco di prova che permette di appurare se l’altro con cui ci si relaziona è effettivamente (sic) un essere umano: solo l’essere umano, infatti, è in grado di comprendere il valore simbolico del dono, la sua essenza di symbolon, e quindi la corrispondente necessità di ricambiarlo come tale. Solo nella misura in cui il destinatario del dono riconosce il donatore come autrui (altri, altro soggetto), esso sarà indotto a contraccambiarlo attraverso un contro-dono. Eppure ci si domanderà a questo punto: per donare qualcosa a qualcuno, non si dovrà averlo preliminarmente riconosciuto in quanto altri (autrui, altro soggetto)? La logica che orienta le argomentazioni di Hénaff sembra essere diametralmente invertita. Oltretutto, facendo del dono sociale un puro mezzo ad un fine, egli è costretto a cancellare via da esso ogni valore di spontaneità, gratuità e incondizionatezza (ricalcando pienamente Mauss), e inaugurare una serie potenzialmente infinita, nonché quantomeno arbitraria, di insiemi e sottoinsiemi di dono: e ci si chiede d’altronde quale dono si possa mai sottrarsi alle leggi della società.

Il problema di principio, tuttavia, quello che accomuna Hénaff e i maussiani più “ortodossi”, è che, trattando la questione del dono in tale maniera, tutti loro dimostrano di non potere né volere in alcun modo rimettere in discussione il concetto di proprietà, ovvero quella logica del proprium che informa non già il paradigma olista o individualista, bensì la ragione economica come tale: l’economia è infatti “legge della casa” (oîkou nomòs), legge di un territorio inteso sempre come proprio, patrio, non spartibile se non al prezzo di uno scambio, di un rientro, di un beneficio maggiore, di un interesse privato, individuale, comunque calcolabile e certificabile. Al contrario, è proprio a partire dal ripensamento delle strutture che

giocano al fondo della soggettività che Jacques Derrida imposta la questione.

Una trasgressione iperbolica disgiunge l’immanenza a sé; tale disgiunzione rinvia sempre a quella ex-proprietà o ex-appropriazione pre-originaria che fa del soggetto un ospite ed un ostaggio, qualcuno che si trova, prima di ogni invito, eletto, invitato e visitato a casa propria come a casa d’altri, qualcuno che è a casa propria a casa d’altri, in un a-casa-propria dato – o piuttosto prestato, assegnato, anticipato prima di ogni contratto, nell’«anacronismo di un debito precedente il prestito»235.