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La colpa: debito d’origine

Il fatto di rimettere senza sosta in questione la sacralità e la stabilità di quel tempio chiamato Occidente, nel quale noi greci-ebrei (jewgreeks o greekjews, per dirla con Joyce) siamo stati dati alla luce e ove oggi sembriamo destinati a spegnerci, ecco il filo d’Arianna che attraversa tutti i testi di Jacques Derrida, senza eccezione. Quella della “filosofia occidentale” (pleonasmo che si potrebbe evitare, essendo la filo-sofia come tale un prodotto dell’Occidente)è infatti la storia di un cammino di luce o, come l’ha definita Georges Bataille, storia dell’occhio: parabola, nei due sensi del termine, di una sapienza oftalmica che Platone ha dichiarato essere il Bene supremo – la suprema virtù, chiosava Aristotele – integrando una volta per tutte i valori della morale nel campo di un pensiero che fino ad allora aveva limitato il proprio interesse al dominio della fisica, vale a dire della natura32.

«Un obbligo di conoscere il lògos, per il fatto di essere uomo, non esiste», scrive Nietzsche pensando ad Eraclito: «si tratta di un giuoco, non prendete tutto ciò troppo pateticamente, e soprattutto non intendetelo in senso morale!» Queste parole egli si immaginava venir 32 Al tempo dei pre-socratici il sostantivo “phýsis”, costruito sulla forma generativa del verbo essere (phýô), indicava l’esatto contrario di un concetto statico come quello che, ipostatizzato, ha dato contenuto al principio metafisico di un Dio eterno ed immutabile, motore immobile, Uno-tutto. Per questo si dovrebbe recuperare al termine “natura” quel non casuale valore dinamico conferito in latino dalla perifrastica attiva, la quale faceva sì che il suo significato fosse non tanto “ciò che è”, quanto piuttosto “ciò che sta per essere, divenire, nascere”. È interessante notare, almeno di sfuggita, come lo stesso senso dinamico sia rinvenibile nella criptica risposta che YHWH offre a Mosè sul Sinai, in Esodo 3:14, per rispondere al quesito riguardante il Suo nome: «Ehyeh asher ehyeh», ossia non già «io sono colui che sono» (traduzione derivante dalla versione greca dei

Septuaginta «eimì to ôn»: io sono “l’essente”, “ciò che è”, in inglese «I am that I am»), bensì

«io sarò ciò che sarò, diverrò ciò diverrò», essendo anche nell’originale ebraico utilizzato il verbo essere nella sua forma futura (“ehyeh”, prima persona singolare). La traduzione greca utilizzata nella versione dei Septuaginta testimonia dunque di un impianto metafisico già totalmente improntato all’idea di un principio Unico, Statico, Immobile, Indefinibile, al punto da non poter forse neppure concepire l’idea di un principio dinamico, imprevedibile e non ipostatizzabile come quello che la formula ebraica sembrerebbe stare con forza ad indicare.

proferite dal sapiente di Efeso per rispondere alla questione della giustizia33.

Eppure, già prima di Socrate e Platone la morale prendeva ad insinuarsi fra le pieghe della riflessione dei fisici: in Anassimandro, il quale riteneva che il destino di transitorietà degli esseri viventi, il loro esser presi nella «maledizione del divenire» non fosse altro che la necessaria espiazione di una colpa originaria:

Che valore ha la vostra esistenza? E se non ha alcun valore, perché voi esistete? È per vostra colpa, lo so, che vi trattenete in questa esistenza. Dovrete espiare questa colpa con la morte [...]. Già ora il fuoco distrugge il vostro mondo e alla fine esso si dissolverà in fumo e vapore. Ma sempre si ricostituirà nuovamente in siffatto mondo transeunte. Chi mai potrà

redimervi dalla maledizione del divenire [corsivi miei, P.M.]34?

E nello stesso Eraclito, per il quale Nietzsche aveva nutrito la più grande ammirazione: persino il suo «sguardo glaciale» sembrava per un istante aver ceduto alla troppo umana tentazione di leggere in termini morali il mistero del divenire:

Supponiamo di intendere seriamente questo pensiero: alla sua luce si trasforma dinanzi ai nostri occhi il volto di Eraclito, si spegne il lampo orgoglioso dei suoi occhi e si imprime in quel viso una profonda ruga di dolorosa rinuncia e di impotenza; ci sembra allora di sapere perché l’antichità tarda l’abbia chiamato il “filosofo che piange”. L’intero processo cosmico non si presenta come un atto di punizione per la hýbris? La pluralità è dunque il risultato di un delitto? La trasformazione del puro nell’impuro è allora una conseguenza dell’ingiustizia? La colpa non viene forse introdotta ora nel nucleo delle cose [corsivi miei, P.M.]35?

In questa concezione della hýbris si individua ciò che Nietzsche definisce «la pietra di paragone per ogni seguace di Eraclito». Come dire che solo su questa base si può distinguere chi lo abbia veramente compreso – spingendosi al di là del bene e del male – da chi 33 F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, cit., p. 174.

34 Ivi, p. 160. 35 Ivi, pp. 173-174.

invece ne ha interpretato gli insegnamenti con sguardo limitato, rimanendo preso nelle soffocanti spire di un pensiero moralista:

In questo mondo esiste la colpa, l’ingiustizia, il dolore? Sì, esclama Eraclito, ma soltanto per l’uomo limitato che guarda le cose staccate e non riunite, non già per il dio che intuisce il tutto: per quest’ultimo tutte le cose contrastanti si riuniscono in un’unica armonia [...]. Di fronte al suo sguardo di fuoco, non rimane più nessuna goccia di ingiustizia nel mondo36.

Il contrasto, la colpa, l’ingiustizia sono illusioni per colui che coglie la verità attraverso l’intuizione, e non già «arrampicandovisi con la scala di corda della logica»; illusioni per colui che «conosce ma non calcola»; per colui che con un «balzo mistico» si lascia alle spalle le aporie del «pensiero che misura». Questo almeno è quanto vuole affermare Nietzsche attraverso la figura di Eraclito. E tuttavia, per quanto l’eredità nietzscheana, dunque in qualche modo eraclitea, sia impressa a chiare lettere nel bagaglio filosofico di Derrida, non si può certo dire che egli ne accetti integralmente le conseguenze: per quanto non cessi di fare segno verso altro, difatti, quello di Derrida non è mai interpretabile come un pensiero mistico o irrazionalista e, anzi, proprio in virtù del suo posizionarsi al margine fra due estremi, egli può riconoscersi tanto «votato all’aporia» quanto restio a «fidarsi di una frontiera opposizionale tra due concetti all’apparenza dissociabili».

Peraltro, si dirà, questa immagine di Eraclito, così come quella di Anassimandro, giunge filtrata dallo sguardo assolutamente parziale di Nietzsche – tale almeno il verdetto di Colli e Montinari, secondo i quali un Eraclito così presentato, essendo frutto di una pura «divinazione», risulta «banalizzato» e appiattito sulla linea di una certa opinione corrente, «neppure troppo originale»37. Altrettanto

36 Ibidem.

37 Cfr. G. Colli e M. Montinari, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e gli scritti dal 1870

correttamente si osserverà che il gergo adottato da Nietzsche, laddove inneggia a qualcosa come lo «sguardo di fuoco di Eraclito» o decanta la capacità della filosofia di «illuminare le somiglianze», resta ancora interamente imbevuto di quella metafisica della luce che vorrebbe contestare; non solo, tale terminologia sarebbe più che adeguata per descrivere la situazione di quello schiavo che, nel mito platonico, sfugge dal buio della caverna e giunge a contemplare la verità delle cose nel loro fulgido, smagliante bagliore: emblema di quell’illuminismo che proprio Nietzsche non fa che deprecare.

Al di là di simili notazioni, resta comunque il fatto che i concetti morali di colpa e di debito, e quindi i relativi concetti di redenzione, grazia e dono, sembrano affondare le loro intrecciate radici in un territorio che data ben più in là degli “illuministi” Socrate e Platone. È allora chiaro che nel decostruire questa storia, di cui volenti o nolenti restiamo gli eredi diretti, non si potrà mai tenere separato il campo dell’etica o della morale da quello dell’ontologia se non a costo di un atto arbitrario e falsificante (lo stesso che permette di scindere una ragione teoretica da un’altra di ordine pratico) poiché, in effetti, esse sono le due facce inseparabili di una medesima medaglia: quella di un dualismo radicatosi inestirpabilmente nel suolo della nostra razionalità grazie alla coesione di due diverse tradizioni culturali, quella platonica e quella ebraica, le quali hanno finito col fare corpo unico nel cristianesimo. E d’altro canto la pervicace insistenza di Nietzsche sul concetto di colpa non faceva, nel saggio citato finora, che preparare il terreno per quel testo con cui egli avrebbe scagliato il suo primo, violento anatema contro la morale ebraico-cristiana presa nel suo insieme.

Se quindi decostruire vuol dire, come si è detto, impegnarsi nella demistificazione di quelle istituzioni arcaiche su cui si regge tutto un impianto culturale, sarebbe stato impossibile per Derrida non

soffermarsi, e a lungo per giunta, su ciò che Nietzsche aveva per primo additato come una morale del debito (o del dovere: i due termini hanno radice comune), nelle pagine della Genealogia della morale; ciò significava, in negativo, esaminare i termini in cui fosse eventualmente possibile disfarsi del fardello di doveri sostanziali e formali con cui rispettivamente la legge mosaica e l’imperativo kantiano avevano gravato la morale dominante; e, in positivo, preconizzare una rinnovata etica – o almeno tematizzarne la necessità – che fosse finalmente libera da quei vincoli di carattere economico che regolano le relazioni umane sui termini utilitaristici dello scambio mercantile piuttosto che sui valori della gratuità e dell’incondizionatezza.

Procediamo direttamente, senza svolta obliqua, senza astuzie e senza calcolo: si tratta del concetto di dovere, e di sapere se e sino a qual punto ci si può fidare di lui, che cosa esso struttura nell’ordine della cultura, della morale, della politica, del diritto e persino dell’economia (specialmente quanto al

rapporto fra il debito e il dovere) [corsivi miei, P.M.]; cioè sino a qual punto ci

si può fidare del fatto che il concetto di dovere detenga una funzione dominante in ogni discorso responsabile sulla decisione responsabile, in ogni discorso, ogni logica, ogni retorica della responsabilità38.

Non si fa menzione dell’etica, qui. Silenzio eloquente, verrebbe da dire. Non tanto perché esso spiega o giustifica un desiderio d’omissione, quanto perché indica con forza il fatto che ogni volta che si nomina la parola “responsabilità”, la sua retorica, la sua logica, si è già interamente calati nel territorio semantico e pragmatico dell’etica. Si tratta allora di chiedersi quale funzione il concetto di dovere detenga – se una funzione esso ancora detiene – entro una tale etica della responsabilità: un’«etica del dono», così definita in contrasto con la vecchia morale del debito che con essa si vorrebbe scalzare.

38 J. Derrida, Passions «L’offrande oblique», Galilée, Paris 1993; tr. it. Passioni. «L’offerta

Valutare le possibilità offerte da un’etica così ripensata, cercando di mostrare in che senso essa rientri nel campo più generale di ciò che Derrida descrive come una certa «esperienza dell’impossibile», si pone quindi come l’intento centrale, per quanto alle volte criptato, del presente lavoro. Criptato per via del fatto che, lavorando in tale prospettiva, saremo necessariamente indotti a trascendere – come annunciato – la separazione fra l’ambito della ragione pratica e quello della ragione teoretica, e con ciò a contestare la presunta cesura cui l’emergere di questioni etiche avrebbe dato luogo entro lo svolgimento mai lineare ma, al contrario, sempre espressamente frammentario della decostruzione39. Pur rimanendo evidentemente

legati ad un lessico opposizionale da cui sarebbe folle pensare di potersi emancipare, non cesseremo quindi di mettere in questione tutte le schematizzazioni dualiste cui troppo spesso e troppo semplicisticamente il pensiero dialettico si affida: ivi compresa, dunque, quella fra un certo modo di essere greco ed un certo modo di essere ebreo, i quali in fin dei conti non si escluderebbero come si sarebbe portati a pensare, ma anzi sembrerebbero condividere molto più del previsto.

Siamo Ebrei? Siamo Greci? Noi viviamo nella differenza tra l’Ebreo e il Greco, che forse è l’unità di quello che si chiama la storia. Viviamo nella e della differenza, cioè nell’ipocrisia, di cui Lévinas così profondamente dice che è «non soltanto uno sgradevole effetto contingente dell’uomo, ma la lacerazione profonda di un mondo legato nello stesso tempo ai filosofi e ai profeti» (TI). Siamo Greci? Siamo Ebrei? Ma chi, noi? Qual è la legittimità, il senso della copula in questa proposizione del più hegeliano, forse, tra i romanzieri moderni: « Jewgreek is greekjew. Extremes meet» (J. Joyce, Ulisse)40?

39 Il frammento disseminato rappresenta la forma stessa dell’aporia, nella sua

opposizione di principio a quella placida linearità che, come scriveva André

Leroi-Gourhan, è certo «penetrante e di lunga portata, ma sottile come un filo» (A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole, Albin Michel, Paris 1964; tr. it. Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977; p. 233, vol. 1, Tecnica e linguaggio). Il lavoro di questo antropologo francese ispira moltissime pagine della Grammatologia, fornendo spesso un fondamento di natura scientifica alle perturbanti intuizioni filosofiche di Derrida. 40 J. Derrida, Violence et métaphysique – Essai sur la pensée d’Emmanuel. Lévinas, «Revue de Métaphysique et de Morale», 1964, nn. 3 e 4, poi incluso in L’écriture et la différance,