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Abd al-Samad Bannaq

Nel documento Diritti Doveri Solidarietà (pagine 100-105)

A Casablanca, dov’è nato, Abd al-Samad usciva tutti i giorni per andare a scuola, ma i passi del bambino che lui era deviavano sempre più spesso verso il porto, dove se ne stava a contemplare le navi in partenza e immaginarsi – chissà perché? – di partire anche lui, verso l’altra sponda di quel mare. Il padre, militare di professione e uomo di profonda cultura, si convinse alla fine che era meglio aiutarlo a realizzare quel sogno, prima che ci provasse da solo. Raggiunge gli zii a Napoli e il sogno svapora presto in un’adolescenza difficile, intrappolata nelle maglie del narco-traffico. Il carcere a Bologna e infine il ritorno in libertà, per

“provare a uscire”.

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diri tti d ov eri s oli da ri età

Che impressione hai provato, rientrando in carcere da uomo libero, in quella saletta che conosci bene, perché ci hai lavorato come detenuto addetto alla schedatura dei libri?

«Era come se il tempo fosse sospeso, sapevo tutto di quei luoghi, ci sono passato come in un sogno. Poi la sera, tornando a casa, il senso di felicità, una conferma che sì, ero proprio libero.

Vivo in un monolocale che non è più grande di una cella, ma le chiavi ce le ho io, sono io che decido di aprire e chiudere. Il carcere nella sua essenza è solo questo: non hai tu il possesso della chiave. Per questo, tornando a casa, quando ho aperto la porta con la mia chiave mi sono sentito felice. Ma mi è salito dentro anche un senso di rabbia, perché so che sono stato fortunato, ho avuto delle possibilità che altri non avranno. Guardando le persone sedute con me nella saletta della biblioteca ho pensato che molti di loro non avranno quelle possibilità, e questo mi ha fatto star male.»

Raccontando di te durante l’incontro hai detto “noi abbiamo perso la verginità”: cosa intendevi?

«Che la prima esperienza di carcere modifica qualcosa di profondo dentro di te. Nulla è come prima. Quando stai in carcere perdi il senso delle cose, non sai più esattamente chi sta da una parte e chi dall’altra di quelle inferriate.»

È questa perdita di orientamento che spinge alla recidiva oltre il 70% dei detenuti?

«Penso che la causa prima della recidiva sia la povertà, la mancanza di lavoro e la dipendenza dagli stupefacenti. C’è gente che esce e va in giro disperata, elemosinando qualche bustina da spacciare, per riuscire a “farsi” e mangiare qualcosa. Dopo la povertà metto il fatto che uno in carcere allarga in modo smisurato i suoi contatti con la criminalità, le conoscenze sul modo migliore di delinquere. Entri dilettante ed esci professionista.»

Che cos’è allora ciò che ti può spingere, una volta uscito, a non rientrare più?

«Una forte presa di coscienza della necessità di dovere ricostruire te stesso daccapo, da zero, di capire che sei una persona annientata, perché quando ti hanno arrestato il tuo corpo è stato

messo in gabbia mentre la mente continuava a vagare fuori, ma quando ti scarcerano il tuo corpo gira per le strade ma la mente è rimasta in prigione.»

Perché hai insistito così tanto sul tema dell’istruzione durante il laboratorio di scrittura della Costituzione? Non basta fornire a un ex-detenuto un lavoro, qualunque sia?

«Io penso invece che l’istruzione sia la base di tutto, anche se molte volte più sai e più soffri.

Senza conoscenze una persona è manipolabile, tu puoi fargli fare qualsiasi cosa. Non è un caso che le dittature abbiano bisogno d’ignoranti.»

Il corso ha cercato di fare ponte tra la Costituzione italiana e le culture del mondo al quale appartieni. Un’illusione?

«Credo di no. I giovani scesi in piazza nella “Primavera araba” hanno rappresentato in questo senso una cosa ben reale. Certo, il loro movimento è stato manipolato dall’interno, e dall’esterno il colonialismo non è mai finito. Ma quella generazione, alla quale io stesso appartengo, chiedeva libertà e gridava verità che si trovano scritte anche nella Costituzione italiana.»

Esiste davvero l’equazione, di cui tanto si parla, tra detenzione ed estremismo islamico? Il carcere è un luogo di germinazione e sviluppo di tendenze radicali, che possono portare al terrorismo?

«Il problema è reale. La rabbia che ti afferra, il senso di vendetta, e poi la solitudine, la perdita d’ogni contatto con il tuo contesto vitale, la famiglia soprattutto. Quando ti ritrovi così solo non rimane più nulla di materiale cui aggrapparsi, perché la materia è ormai fatta solo di sbarre, ferro e cemento. Ci si aggrappa a qualcosa di spirituale: la fede, ed è lì che possono fare presa certi messaggi. Il primo: “questa non è giustizia!”. Poi: “questi sono tutti kuffàr (infedeli), ce l’hanno con noi, ci dobbiamo salvare”. Tutto ti fa sentire finito in questa vita, sei già morto, l’unico senso che rimane è vivere per l’altra vita.»

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Si può trattare anche di persone che hanno vissuto a lungo lontane dalla fede?

«Certo, anzi quello che mi ha sempre colpito è la rapidità di certe conversioni, che possono prodursi in modo fulmineo. Avviene già fuori dal carcere, ma in modo più particolare dentro. È un tratto nostro che non mi sembra di avere costatato, in questa misura, tra seguaci di altre religioni: un uomo che per anni ha commesso ogni genere d’infrazioni si trasforma rapidissimamente in un pio, rovescia tutte le abitudini precedenti e magari si mette a predicare ad altri.»

L’antidoto può essere quello di attenuare il più possibile la propensione al “religioso” durante la carcerazione?

«Impossibile, anzi controproducente, perché la religione è qualcosa che sale dal cuore dell’uomo: più la soffochi e più quella si manifesta. L’antidoto è stare vicino alle persone singole, accompagnarle con un lavoro educativo che richiede risorse. La prima vittima di un credente che si trasforma in terrorista è proprio lui: se la comunità lo salva dal rischio nel quale sta cadendo protegge quindi anche se stessa.»

Che cosa fare allora per accompagnare un ritorno alla religione che aiuti il cammino di rieducazione?

«La prima cosa è evitare che uno si trovi nella condizione di rovesciare le posizioni, passando da colpevole a vittima. Mi spiego: bisogna salvaguardare con grande cura la dignità della persona, dal momento dell’arresto fino al processo e poi alla sua carcerazione definitiva, poiché è il modo più sicuro per evitare che uno si trasformi, ai propri occhi ovviamente, da colpevole in vittima. Questo avviene quando egli percepisce una sproporzione enorme tra quello che ha fatto e quello che subisce.»

Che cosa c’entra questo con la religione?

«Se uno giunge a sentirsi mazlùm, cioè vittima, il suo ritorno a Dio è per chiedergli d’avere

giustizia, d’essere vendicato, mentre se uno si sente zàlim, ingiusto, torna a Dio per pentirsi di quello che ha fatto.»

Questo libro è dedicato a Pier Cesare Bori, pioniere del dialogo inter-culturale in carcere. So che è stata una persona importante per te e che vi scrivevate durante la sua ultima malattia.

Che ricordo ne conservi?

«Lo vedo passare davanti alla mia cella, su al 3d, dove teneva i suoi incontri. “Che cosa fai lì? – mi dice – perché non vieni anche tu al nostro gruppo?”. Feci domanda per partecipare e cominciai a sedermi nella saletta ascoltandolo leggere di tutto: dalla letteratura alla filosofia, ai testi religiosi, uno sterminato orizzonte di idee. Era interessante, anche se molte cose mi sfuggivano. Poi un giorno accadde un “incidente”, che fu anche per me un punto di svolta.»

Quale incidente?

«Passando mi vide fumare una sigaretta e si accorse che l’avevo arrotolata tagliando la copertina di un libro, di quelle sottili. Ebbe uno scatto di rabbia che non posso dimenticare: mi coprì letteralmente d’insulti. Lì per lì mi è parsa una reazione esagerata ma poi, riflettendoci, ho capito che l’aveva fatto per difendere il valore del libro, il suo significato profondo: la conoscenza, l’istruzione. È stato un punto di svolta...»

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Situazione stranieri negli istituti penitenziari

Nel nostro Paese, ormai da diversi anni, è presente un insieme di persone detenute per le quali la pena rieducativa, a prescindere da quello che si possa pensare sulla validità dell’opzione ideologica che la sottende, appare un concetto non conforme alla realtà. Si tratta, è evidente, della popolazione straniera, quasi tutta irregolare, priva di radicamento legale con il territorio:

destinata, una volta espiata la pena, a essere espulsa comunque, a prescindere dal percorso

IV. Riflessioni

La questione degli stranieri ristretti

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