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Provare a (de)scrivere il bene comune

Nel documento Diritti Doveri Solidarietà (pagine 91-94)

«Adesso però tocca a voi!». In un baleno il tavolo rettangolare si ricopre di fogli, foglietti, bianchi e colorati, con l’adesivo e senza, penne biro matite pennarelli a punta larga e stretta, neri gialli rossi blu verdi di tutti i gusti. Chi passa nel corridoio allunga incuriosito il collo per sbirciare dal vetro cosa stia succedendo là dentro. Un fremito di curiosità sembra percorrere persino gli scaffali che ci circondano, dai quali si affacciano (dalle pagine dei loro libri) tanti grandi personaggi. Ma un più palpabile fremito di stupore percorre i presenti alla vista di Abd al-Samad Bannaq, da tutti conosciuto come Samad. Uno dei loro, arrestato e condannato per traffico di stupefacenti.

Ha scontato una detenzione lunga anni, nel corso della quale ha ottenuto il diploma di maturità e ha stretto legami d’amicizia con una persona che nel suo “volontariato culturale” in carcere ha gettato i primi semi del nostro progetto, Pier Cesare Bori. Samad oggi lavora come operaio in un’azienda metalmeccanica ma è anche iscritto al secondo anno di giurisprudenza.

Gli sguardi di tutti tradiscono una sola domanda: «Che cosa hai combinato di nuovo?». No, Samad non rientra per essere tornato al crimine, ma per parlare di Costituzione, che ha studiato a fondo come studente universitario, e per offrire la testimonianza di uno che “prova a uscire”. Si sa quanto sia difficile, per tanti motivi, che un ex-detenuto possa tornare in carcere da uomo libero.

Ci vuole quasi un miracolo. Si è realizzato per la collaborazione intervenuta tra la Direzione della Casa circondariale “Dozza”, a Bologna, e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a Roma. Chi ha lavorato a questo progetto ha percepito nella loro fattiva disponibilità un segnale concreto di fiducia e d’attenzione da parte delle istituzioni, una parola d’incoraggiamento ad andare avanti.

Il percorso di un anno si chiude quindi con un laboratorio di scrittura: «Tocca a voi: provate a scrivere o almeno descrivere il “bene comune”, a riprodurre qui e ora qualcosa dell’esperienza di chi è stato chiamato a mettere nero su bianco una Costituzione». Si scrive in italiano, in arabo, qualcuno in inglese, e il lavoro procede per gradi: prima la stesura assolutamente libera di ciò che

ciascuno ritiene fondamentale per una vita comune degna d’essere vissuta; poi l’individuazione in queste composizioni di più precise parole chiave, da trascrivere singolarmente e affiggere alla parete; quindi l’organizzazione delle parole chiave per argomento, arrivando infine ad evidenziare quattro temi maggiori: libertà, lavoro, istruzione, condizione del detenuto. L’invito fatto per l’incontro successivo, l’ultimo in programma, è quello di provare ad elaborare il proprio pensiero in modo più sistematico, più vicino alle formulazioni del linguaggio giuridico, al fine di presentarlo a tutti in “assemblea”. Nei giorni seguenti i corsisti lavorano quindi per conto proprio in cella, ma anche insieme a scuola, nelle ore ancora disponibili del corso di scienze sociali. Alcuni continueranno a produrre, aiutati da Francesca Esposito, anche nelle due settimane mancanti alla fine dell’anno scolastico.

Il risultato di questo laboratorio di scrittura è offerto in appendice al presente volume, quale traccia di un piccolo esperimento, molto iniziale e frammentario, anche per il tempo a disposizione, meno di quattro ore in classe. Non si è trattato certo di due incontri “celebrativi”, organizzati per mostrare che abbiamo raggiunto un pieno e pacifico accordo su qualsiasi argomento oggetto del corso. Le criticità permangono. Ne abbiamo avuto un saggio significativo facendo intenzionalmente riemergere il problema della libertà religiosa, evidentemente molto sentito dai partecipanti. La discussione si è immediatamente infiammata non appena si è fatta notare la doppia direzione che caratterizza in Italia questa libertà fondamentale: non solo la libertà di culto, la manifestazione in privato e in pubblico delle proprie idee – quindi la libertà di propaganda – ma anche la totale libertà di scelta, incluso il diritto di cambiare da ciò che si era a qualcosa d’altro, con assoluta e insindacabile “libertà di coscienza”, che in arabo è “hurriyyat al-damìr”, formula utilizzata (in quale senso? con quale estensione?) dalla nuova Costituzione tunisina, in quell’art. 6 che parla appunto di religione. La varietà di posizioni espresse al riguardo dai partecipanti (da chi sosteneva, con precisi argomenti religiosi, che ciascuno sia padrone delle proprie scelte, a chi invocava la morte dell’apostata, con altrettante prove dalle medesime Fonti) va colta positivamente, ma rappresenta anche un segnale chiaro dell’impossibilità di sciogliere facilmente nodi come questo, che toccano nel vivo l’identità europea e italiana, giacché la

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libertà religiosa ha storicamente rappresentato la matrice di tutte le altre libertà del mondo moderno. Il tema della piena libertà di coscienza in materia religiosa è solo un esempio, forse il più significativo, di una gamma d’altri nodi che non possono essere facilmente aggirati, se non a prezzo di una rappresentazione artificiosa e annacquata delle problematiche. Lo sforzo di una migliore presentazione dei capisaldi della nostra Costituzione alle persone giunte da altri paesi rimane, in ogni caso, un passaggio indispensabile per fare comprendere nel modo più chiaro in quale Paese essi siano entrati e quali siano le regole da rispettare nel tempo, breve o lungo, che vi trascorreranno.

A completamento della cronaca dell’esperienza fatta nella biblioteca della “Dozza” lungo l’arco d’un anno, merita infine segnalare la percezione, condivisa da insegnanti ed educatori, di un certo cambio di registro nella qualità della partecipazione. Il coinvolgimento diretto degli studenti, che nel laboratorio di scrittura conclusivo ha toccato il suo apice, ha messo in luce segni di superamento di due atteggiamenti che hanno rappresentato il grande ostacolo a un dialogo che fosse vero dialogo: da una parte il disincanto amaro e tendenzialmente distruttivo di chi è convinto “che le parole della Costituzione siano belle parole ma la realtà è totalmente diversa e nulla la cambia”, dall’altra la riduzione di questa realtà all’orizzonte personalissimo di chi è disposto a partecipare solo se gli si fa dire “cosa mi è capitato” e “quello che ho sempre pensato”

su qualsiasi cosa si parli. Rispetto a queste premesse potenzialmente paralizzanti è sembrato di vedere una certa evoluzione verso una partecipazione più responsabile, più consapevole dei discorsi che si facevano, più interattiva, più attenta alla complessità dei problemi sollevati e soprattutto più conscia della “missione” di un testo come quello della Legge fondamentale, che vuole parlare a tutti e deve tenere conto di tutti. Da un tipo d’evoluzione come questa, rispetto alla quale ha certo contribuito molto il riferimento costante alla lingua e alla cultura dei partecipanti, può venire l’incoraggiamento a ripetere l’esperimento, ovviamente modificandolo e perfezionandolo ove necessario. Molti membri della nostra piccola “assemblea”, incontrati successivamente in modo individuale, ci hanno sorpreso con una domanda apparsa non formale ma sincera e diretta: «Il corso quando ricomincia?».

Yassine Lafram è giunto con madre e fratelli in Italia dal Marocco all’età di 8 anni, da uno dei quartieri più poveri di Casablanca, ricongiungendosi al papà migrato a Torino per lavorare come operaio edile. Dopo la laurea conseguita a Bologna, ha iniziato la sua carriera di mediatore culturale presso molte istituzioni pubbliche, compreso il C.I.E. di via Mattei (ora chiuso e riconvertito), impegnandosi al contempo sul fronte del coordinamento dei centri islamici cittadini. Nel nostro corso ha svolto un ruolo importante di traduttore, dall’arabo in italiano e viceversa, non solo delle parole ma anche delle idee e delle culture che le parole evocano.

III. Testimonianze

Nel documento Diritti Doveri Solidarietà (pagine 91-94)