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Ignazio De Francesco

Nel documento Diritti Doveri Solidarietà (pagine 122-128)

Bisogna temere il ritorno alla religione dei detenuti musulmani? La domanda sorge spontanea dalla frequente menzione, nei mezzi di comunicazione, del carcere come terreno ideale, addirittura naturale, di cultura del terrorismo di marca religiosa. Il carcere, si dice, produce terroristi. Che non si tratti di un’affermazione teorica lo mostrerebbero proprio i casi concreti, con tanto di nome e cognome, dove il passaggio dietro le sbarre ha svolto un ruolo importante, se non decisivo, nella biografia personale di molti “attentatori nel nome di Dio”. La verità delle cose, contemporaneamente semplificata e amplificata dalla necessità di bucare l’audience, rischia d’altra parte di oscurare due evidenze addirittura banali per chiunque abbia reale esperienza di carcere e di contatto con i musulmani: convertirsi non significa necessariamente assumere

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posizioni di radicalismo religioso, così come l’assumere posture religiosamente fondamentaliste non significa in modo automatico la disponibilità a entrare in una qualche cellula terrorista o almeno fiancheggiarla dall’esterno. Si tratta di tre passaggi ben distinti che non possono essere sovrapposti a meno di una rappresentazione deformata della realtà. Il fatto di partire dalla punta del problema, il cortocircuito tra carcere e terrorismo che riguarda una percentuale minima della popolazione detenuta di fede islamica, è tuttavia utile al fine di prendere maggiormente sul serio il nodo dell’assistenza spirituale dei musulmani. Un nodo, com’è noto, ad oggi privo di una risposta organicamente istituzionale nel nostro Paese, malgrado il peso delle cifre: pur in mancanza di statistiche ufficiali si può infatti stimare che i musulmani rappresentino un quota compresa tra un terzo e oltre la metà di tutti i detenuti stranieri, che a loro volta superano il 30%

della popolazione carceraria.

La constatazione che il terrorismo può attingere adepti tra persone condannate per reati comuni non è una novità: a parte poche eccezioni rappresentate da gruppi particolarmente “puritani”, che non vogliono avere nulla a che fare con delinquenti ordinari, il miraggio di redenzione fatto balenare in un qualsiasi programma eversivo ha sempre cercato di far breccia tra chi si trovava dietro le sbarre e sperimentava in modo acuto il dolore morale di un’esistenza giunta al capolinea. Il terrorismo d’ispirazione religiosa aggiunge però qualcosa di specifico, perché può fregiarsi di un accreditamento ben più alto di quello delle ideologie prodotte in definitiva da semplici uomini: Dio stesso, nelle sue varie denominazioni. La presa sui cuori e sulle menti del terrore “voluto da Dio” può dunque essere molto più forte e totalizzante, specialmente quando può fare leva su quel retroterra di fede che i destinatari della propaganda hanno assorbito sin dalla loro infanzia, ricevendolo in eredità dal contesto nel quale sono nati e cresciuti.

La letteratura prodotta a questo riguardo denuncia chiaramente l’insufficienza di un approccio basato sul puro innalzamento dei livelli di sicurezza, poiché tanto concentrare gli elementi pericolosi (terroristi conclamati o potenziali), per isolarli dal resto della popolazione carceraria, quanto disperderli il più possibile, erigendo intorno a ciascuno di loro un muro invisibile di controlli, non è mai la soluzione definitiva, ma una mera modalità di contenimento del problema.

La vera soluzione sta solo in ciò che viene definita tecnicamente “de-radicalizzazione”, vale a dire un percorso che porti gli interessati a ri-orientare le proprie convinzioni religiose, rendendole compatibili con una vita pacifica in mezzo ad Altri. I pericoli generati dalle idee si liquefanno quando le idee cambiano. È semplice, ma perché possa avvenire è necessario impegnarsi in un accompagnamento specifico delle persone a rischio, interagendo con loro sul medesimo orizzonte spirituale, religioso, culturale che ha prodotto le minacce. Questo è il punto difficile, ma non si danno alternative di altrettanta efficacia al fatto che la fede dei detenuti musulmani diventi partner e soggetto attivo del progetto rieducativo. Un miraggio? I risultati delle esperienze seriamente tentate in questa direzione incoraggiano invece a pensare che si tratti della pista più giusta e concreta, quella inoltre più fedele all’alta missione attribuita dalla nostra Costituzione alla pena: riconquistare alla comunità dei liberi i condannati alla privazione della libertà.

Quanto qui accennato vale allora, a maggior ragione, pensando al programma rieducativo della stragrande maggioranza dei detenuti musulmani, non coinvolti in alcuna avventura eversiva ma che versano nella stringente necessità di essere aiutati a ricostruirsi in una vita onesta, unico modo per non tornare in carcere un’altra volta e per il medesimo reato che li ha messi dentro.

Ricca com’è di grandi valori etici e spirituali, la loro religione può svolgere a questo scopo un ruolo di gran rilievo, come si può notare dall’osservazione del buon reinserimento di ex-detenuti:

persone che sino all’arresto potevano lucrare disonestamente decine di migliaia di euro al mese e che all’uscita accettano di ripartire dagli ottocento di un contratto d’apprendista; gente che prima si annegava nell’alcool, nel gioco d’azzardo, nella prostituzione, e che all’uscita ha la forza interiore di recidere i legami con vizi talmente inveterati da apparire inestirpabili. In questa

“risurrezione” personale la motivazione religiosa, con i suoi alti imperativi morali, con la forza di resistenza che infonde contro le attrattive della trasgressione, può giocare in modo davvero decisivo. Un’assistenza spirituale specificamente islamica di quei detenuti che manifestano in carcere il desiderio di riscoprire la propria fede può dunque incidere positivamente, in ordine all’arduo cammino di ritorno a una vita onesta.

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D’altro canto non ci si può nascondere le criticità sottese a questo genere di supporto: la riscoperta della propria fede in carcere può evolvere negativamente in un maggiore irrigidimento della personalità, assommando così gli effetti negativi di un certo tipo di ritorno al religioso a quelli già indotti dal regime innaturale della “vita ristretta”. La persona scarcerata può presentarsi dunque come un credente “tutto d’un pezzo” ma, appunto, rigido, perché incapace di interagire con le tante alterità che lo circondano da ogni parte, a cominciare da quelle del suo nucleo familiare. Il rischio concreto è che una riscoperta rigida della propria fede spinga verso una solitudine esistenziale carica d’incognite.

In carcere possono essere facilmente rilevati due indizi di “irrigidimento da fede”: il primo è lo schiacciamento del religioso sulla pura dimensione cultuale (la preghiera, il digiuno) recuperata in un modo esatto ma meccanico, che inclina il credente a un’obbedienza priva di riflessione e tendenzialmente angusta, concentrata in modo un po’ ossessivo sui particolari dell’orto-prassi. Il secondo è l’adesione a un codice di verità semplificato all’estremo, che esclude nuovamente un vero approfondimento personale, una riflessione critica, e non lascia spazio ad alcuna mediazione. Sono questi gli ingredienti psicologici del fondamentalismo, ai quali poi vanno aggiunti quelli sociologici e politici, legati tra l’altro al senso d’insicurezza e minaccia che investe intere collettività di fronte ai cambiamenti innescati dal corso della storia (si pensi al colonialismo, dagli inizi sino ai suoi ultimi esiti nella cosiddetta globalizzazione di questi decenni) e che s’intersecano in modo potente con la storia personale e la vita interiore dei singoli.

Non è quindi sufficiente garantire ai detenuti la libertà religiosa, ma bisogna operare affinché l’esercizio di questo diritto costituzionale si volga effettivamente a loro vantaggio e non a detrimento, sia nei rapporti con il resto della popolazione carceraria che in vista del momento cruciale del ritorno in libertà. Volendo esprimersi con il linguaggio della fotografia: poiché l’irrigidimento religioso tende a fare “zoom” su pochissime cose, sfocando tutto il resto, bisogna aiutare le persone a fare “grandangolo”, recuperando le dimensioni di un quadro in cui la religione è parte di un tutto, e non il tutto che cancella ciò che – si ritiene a torto – non gli

appartiene. Si fa grandangolo in due modi: il primo è il passaggio dall’islam come religione all’islam come civiltà; il secondo è il passaggio dall’islam come tentativo di trapianto in Italia di una comunità elevatamente omogenea del Nord-Africa e del Medio Oriente, all’islam come tassello di una società plurale di tipo europeo. Sia ben chiaro: non si tratta di sovrapporre, sostituire, deformare (sarebbe un modo di fare “zoom” uguale e contrario al primo) ma solo di allargare la visuale, lasciando a ogni cosa il suo posto. Per dirlo ancora con la fotografia: passare dall’immagine in bianco/nero a quella a colori.

Nel suo punto di partenza, la civiltà islamica si è forgiata in quel crogiuolo di culture che ha costituito sino ad oggi la bellezza e il fascino del Medio Oriente ed è fiorita nel corso dei secoli in una gran varietà di forme, che non sono unicamente quelle del rito e della predicazione: poeti, romanzieri, filosofi, storici, geografi, esploratori, musicisti, artisti figurativi, astronomi, medici, interpreti di sogni eccetera. Credenti ma anche tutto quest’altro. Si tratta quindi di rimettere in contatto le persone con i grandi tesori della loro civiltà, che è stata un crocevia di dialogo tra i più significativi della storia umana. Nel suo approdo in Europa, poi, l’islam si innesta in una terra della quale possono essere enumerate le stesse cose, e altre ancora complementari o diverse, che fanno da contesto non prescindibile di questo inserimento. L’assistenza spirituale dei detenuti di fede islamica è quindi, inscindibilmente, anche assistenza culturale. In questo Pier Cesare Bori è stato davvero un pioniere.

Non si pensi qui a un’impresa talmente complessa e ambiziosa da scoraggiare qualsiasi tentativo. Al contrario, è possibile organizzare iniziative anche molto semplici: la lettura di testi, la proiezione di film e documentari, l’organizzazione di piccoli gruppi di dibattito, entro e fuori i programmi scolastici. Ma chi lo può fare? Come è noto, attualmente i processi di “ritorno alla religione” dei detenuti musulmani sono totalmente auto-gestiti dai detenuti stessi. Tra loro emerge sempre qualche leader, che inizia spesso con l’incarico di muezzin, passando in modo del tutto naturale alla guida della preghiera e infine alla predicazione del venerdì. Tiene buoni rapporti con il personale di custodia e si conquista così una certa fiducia. La soluzione è pratica e a costo zero ma non c’è bisogno dilungarsi per dire quanto sia problematica. Proprio questo

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tipo di guide spirituali avrebbe bisogno di un accurato accompagnamento spirituale, anche per verificare cosa realmente sappia dell’islam e cosa dunque sia in grado di trasmetterne. Proprio gli imam-detenuti possono essere all’origine di garbugli più complessi, della cui formazione è difficile rendersi conto in tempo. Il coinvolgimento di imam esterni, attentamente selezionati e preparati, è la via preferibile, come oggi sta ben emergendo a livello europeo. Ma dire “imam esterno” non basta, se ciò significa di nuovo concentrarsi solo sul rito e sulla predicazione, semplicemente in modo più professionale e controllato, mentre abbiamo la necessità di un servizio d’alta mediazione culturale, che faccia uso di tutti gli strumenti offerti dalla civiltà del mondo di partenza degli interlocutori e sappia al tempo stesso calarli nel contesto vivo del mondo d’arrivo, con le sue ricchezze e specificità. C’è quindi bisogno della collaborazione di musulmani colti della loro cultura ma anche, inseparabilmente e realmente, europei e italiani, nel senso più pregnante dei termini. Persone, inoltre, coscienti di muoversi nel carcere non come pianeti isolati ma nella piena collaborazione con gli altri soggetti della formazione (educatori, psicologi, docenti scolastici, volontari) per un progetto che nasce nell’ultimo dei posti dove si desidera vivere ma che può diventare esperienza-pilota per l’intera società e il compito impellente che essa oggi fronteggia: integrare nel suo seno uomini e donne d’altri popoli, culture e religioni.

Nel documento Diritti Doveri Solidarietà (pagine 122-128)