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4. RISULTATI DIFFICOLTA’ E RISORSE DEGLI ERGOTERAPIST

4.2 ABILITA’ DI COUNSELING

Le abilità di counseling rintracciate nelle interviste, a cui le terapiste più comunemente si appellano, quando si interfacciano col paziente che presenta negativismo, sono quelle volte a stimolare, spronare, guidare la persona verso pensieri o comportamenti costruttivi. Come si evince dal racconto di una ergoterapista non è semplicemente mettendo in atto questo approccio che si ottiene automaticamente un risultato positivo con persone pervase da sentimenti negativi (Ti dicono così magari: “non sono capace di fare più niente”. Allora come in questo caso, ad esempio, di questa

signora qua, non oncologica, però comunque molto…pluri-patologica, provi a darle la risposta del…<<sì, OK, così fa fatica…però se facciamo così, si può fare, non puoi dirmi no, c’è anche un’altra soluzione>>. E’ un modo per stimolarli, per togliere un po’ il pensiero da certe domande, da certe considerazioni che loro fanno: e a volte effettivamente ti seguono e vedono del positivo, altre volte, se la persona è magari particolarmente negativa o comunque il carattere…allora puoi dargli qualsiasi risposta, che per loro la realtà è che stanno per morire o comunque che non faranno più niente nella vita, perché la malattia non è chissà a che livelli, magari poi non è così, però loro l’avvertono così). Lo spiega un’altra terapista che ritiene importante spronare sempre con un fine mirato: se si è colto un minimo interesse nel paziente, un desiderio di coinvolgimento occupazionale, questo segnale, anche se debole, va assolutamente preso in considerazione e promosso poiché risulta un appiglio su cui impostare l’intervento (poi capisco le persone che vanno un po' spronate, quindi che in realtà hanno tanta voglia di fare, perché magari ti dicono <<Che state facendo?>> così…fanno domande. Quindi capisci che loro hanno un po' di spinta a fare, però gli manca qualcuno che li lancia. Cioè gli manca una spinta veramente forte che gli dice <<ok, oooh, vaiii! Non è che perché stai male, devi stare a letto. O perché adesso sei solo, i parenti non ci sono, allora dobbiamo stare così!>>. Una spinta!). Inoltre, lei stessa afferma che stimolare non deve essere fatto ad ogni costo, senza aver compreso a fondo le ragioni dietro un determinato atteggiamento di rifiuto e senza essere in grado di svincolarsi da quelle che sono le proprie idee o i propri valori personali riguardo al benessere dell’altro: in questo modo il rischio è di perdere di vista il paziente, non rispettando più la sua autonomia di scegliere liberamente “cosa lo fa stare bene” (E’ normale che se tu vedi un paziente che sta a letto sempre, cerchi di stimolarlo in tutti i modi. Però devi fare sempre con un fine, non andare sopra, capire che magari quella persona sta bene a stare solo nella stanza perché è sempre stato abituato per esempio a stare solo). Inoltre, sempre lei adopera lo humour, come escamotage nella sua pratica quotidiana, per tentare di sovvertire la posizione di ripiegamento e ritiro, assunta dal paziente affetto da distress esistenziale, in modo da convertirla in un atteggiamento più costruttivo (una paziente che sapeva che mancava poco alla propria morte ed era a letto con le serrande abbassate e tutto perché mi diceva: <<io sto aspettando di morire, non mi importa niente del resto>>. E io mi ricordo che gli dissi: <<Va be’, aspetto con te!>>. Mi son sdraiata sul suo letto, ho detto: <<Aspettiamo insieme!>>. Dopo un po' che stavamo lì in silenzio, lei tristissima, le ho detto: <<senti, facciamo così, intanto che aspettiamo, apriamo le finestre, cerchiamo di capire se ti va di fare qualcosa, se vogliamo scendere…Tanto la fine è quella però poi noi possiamo cambiare quello che c’è in mezzo>> […] E praticamente lei ha capito il senso di quello che facevo e piano piano ha cominciato a fare, a essere attiva, a fare tante attività, ad uscire in giardino, ad apprezzare il sole, alzarsi tutte le mattine! E ha capito che la vita è anche quella… Cioè quella non è un’anticamera della morte, quella è vita e quindi andava sprecata…in realtà ha apprezzato tanto quello che è stato fatto, è stata soddisfatta e in un certo senso anche la fine è arrivata con più naturalezza e con più consapevolezza, più soddisfazione).

Altra abilità di counseling, citata da due ergoterapiste quale risorsa nella loro pratica quotidiana, è quella di saper guidare un colloquio verso un obiettivo concordato. Una delle ergoterapiste mette in luce, nel dialogo con la persona, difficoltà e risorse disponibili procedendo con metodicità, pazienza e progredendo a tappe: ella descrive come attua l’accompagnamento del malato per favorire la sua presa di coscienza sulla stato delle cose in modo da poter formulare obiettivi occupazionali realistici (Per esempio, un paziente che viene dalla sindrome d’allettamento, che ha trascorso quattro

mesi in ospedale, dove non è stato mai mobilizzato la prima cosa che chiede, quando gli spieghi che sei una figura della riabilitazione, è <<io devo tornare a camminare>> ma…noi, io so magari la valutazione […], poi il paziente non tornerà mai a camminare… Quindi ci si siede davanti alla persona e gli si dice <<[In] questo momento il tuo corpo, il tuo fisico non te lo permette, tu ne sei consapevole che il tuo corpo non te lo permette: quanto ti affatichi? quanto hai dolore a fare questo tipo di movimento? quanto è dispendioso energicamente per te?>> Loro lo sanno. Anche che l’obiettivo è così lontano, loro lo sanno che il loro fisico…perché come si dice banalmente “il miglior medico per noi, siamo noi stessi”: noi lo sappiamo come stiamo… Quindi quando noi…quando io dico a queste persone <<Il tuo fisico non te lo permette e pensaci bene: tu sei consapevole del fatto che il tuo fisico non te lo permette. Questo obiettivo non è realizzabile>>. Allora in prima battuta s’instaura la disperazione: <<Il mio obiettivo è solo quello, non ho nient’altro oltre a questo obiettivo>>. Poi sono io terapista che invece poi ti dico: << C’è altro… Possiamo fare altro. Adesso tu non puoi camminare, in questo momento tu non puoi camminare, la tua malattia, il tuo fisico non te lo permette. Ma perché vuoi camminare? Che c’è dietro al camminare ad esempio?>>…che ne so… che loro ti dicono: <<Andare in giro, fare questo, fare quest’altro…>>. <<Ok troviamo un altro modo: puoi stare seduto, possiamo iniziare a stare seduto, possiamo iniziare ad utilizzare un presidio che magari ti permetta di andare a fare una passeggiata, se questo è il tuo obiettivo. Andare fuori da queste stanze d’ospedale dal…da…anche di hospice che diventano, no, piccole celle se siamo chiusi dentro un letto…Ma facciamolo attraverso un mezzo che è la carrozzina>>…Allora può venir fuori <<Nooo la carrozzina no, l’invalidità…>> […] l’accettazione. Quindi qual è il grosso poi: destrutturare un obiettivo non raggiungibile con un obiettivo raggiungibile). Un’altra ergoterapista invece spiega come si predispone al dialogo, nel momento in cui sia un mezzo utile per dar voce agli obiettivi personali del paziente: rende protagoniste la personale capacità decisionale e il desiderio di autodeterminazione della persona (quello che ho imparato e che probabilmente tuttora faccio è non partire con dei miei obiettivi perché spesso magari uno si pone degli obiettivi che però per il paziente non sono così significativi e quindi io non parto con degli obiettivi. Gli obiettivi me li dà il paziente, io gli propongo delle opzioni ma che sono delle mie opzioni ma chiedo a lui come e […] come impostare il tutto. Perché la persona […] è giusto che possa scegliere).

Fare leva sulle risorse personali è uno dei principi cruciali del lavoro di un counselor e si evince dal racconto di un’ergoterapista che esemplifica bene questo assioma (Farsi guidare dal paziente al […], perché in realtà lui ha le risorse poi…ciascuno di noi ha risorse per affrontare la situazione, per capire cosa deve fare). Riconoscere tra le risorse più peculiari dell’essere umano quelle più interiori ed esistenziali, è il lavoro svolto da un’altra terapista che incoraggia l’emergere di valori di atteggiamento nei suoi pazienti, al cospetto della morte (C’era un paziente tanti anni fa che diceva <<Non bisogna arrivare morti alla morte, bisogna arrivare vivi alla morte>>, questo noi cerchiamo di far capire alle persone…).