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4. RISULTATI DIFFICOLTA’ E RISORSE DEGLI ERGOTERAPIST

4.7 LA CONSAPEVOLEZZA NEL PAZIENTE

Nei loro pazienti le ergoterapiste riscontrano vissuti contraddistinti da emozioni e sentimenti diversi: rabbia, negazione, disillusione, impotenza, rassegnazione, disperazione. Tutti questi vissuti possono alimentare un atteggiamento di negatività che può diventare una barriera ad un percorso di condivisione della sofferenza e ostacolare, poi, un percorso occupazionale. Una ergoterapista narra la storia di un pittore che, messo di fronte al fatto di non poter più dipingere come un tempo, altalena rabbia a delusione fino a voler distogliere l’attenzione dalla sua identità occupazionale per evitare la sofferenza che i limiti attuali gli arrecano (Probabilmente era arrabbiato, era arrabbiato perché io gli stavo parlando di un… gli stavo proponendo qualco[sa]…gli stavo proponendo delle attività che per lui erano importantissime e sono state significative per tutta la vita e lui sapeva che in quel momento non era più in grado di farle, quindi la rabbia del “io potevo farlo ed adesso non posso più farlo”, la delusione di non poter più farlo ad una richiesta, perché lui faceva anche quadri su commissione, gli stavo proponendo qualcosa e lui sapeva che non poteva dirmi “sì”, che non era più in grado[…]; però c’era questa sì….[pausa] ti direi… delusione, delusione dal “io non lo posso più fare come” […] e lo si vedeva perché quando, secondo me, chiedevi cosa faceva lui, parlavi al passato, lui era molto…, era contento di raccontarti chi era, era contento di raccontarti e comunque, appariva… l’apparenza era quella che lui fosse una persona molto interessata e coinvolta dal suo lavoro ma nel momento in cui tu parlavi del presente, chiedevi al momento di fare qualcosa inerente a quello, era come se volesse distogliere l’attenzione, volesse cambiare discorso…). Una donna invece mette in atto un tipico meccanismo di negazione: scambia per un albergo l’hospice dove si trova ricoverata. Ciò comporta maggiore difficoltà per l’ergoterapista che per poterla coinvolgere, così da farle superare l’esperienza di isolamento in cui si è rintanata, impiega molta fatica (Era una signora che, boh, probabilmente patologia oncologica, non mi ricordo più che cosa…che cosa avesse. Lei era convinta di essere in un albergo e di passare lì i suoi ultimi…di passare lì un po' di tempo…Vedeva che stava peggiorando e lei stava nella sua camera, non era mai uscita dalla sua camera. Era una signora che amava viaggiare e che […] aveva viaggiato molto e che aveva una…una cultura molto alta -non so se ci dice così-. È stato faticoso coinvolgerla). Riguardo alla fase di negazione una seconda ergoterapista si esprime in maniera approfondita dicendo che, secondo lei, è fondamentale instaurare un’alleanza terapeutica per poterla affrontare e superare. Lei spiega quanto la negazione influisca negativamente sulla capacità delle persone di porsi obiettivi realizzabili e quanto accompagnare passo a passo, in maniera empatica, lungo un percorso di consapevolezza, sia una delle chiavi di volta (L’altra popolazione di persone invece non consapevoli sono quelle che tendono a porsi obiettivi non realizzabili, per cui, per me C., è ancora più complicato, perché mi trovo a dover dire a queste persone <<Non tornerai a farlo…>>, <<Non tornerai a camminare>>, <<Non è un obiettivo raggiungibile>>, <<Il tuo fisico non te lo permetterà>>, <<Non tornerai a…fare una passeggiata nel parco camminando o a fare questa attività in piedi..>>. Perché loro non sono consapevoli del fatto che la malattia non guarirà e che i trattamenti che stanno facendo non porteranno a guarigione […] È un percorso che anche lì va fatto, sempre gestito comunque in équipe, cercando di far capire alla persona che…la verità in realtà, la chiave di lettura è sempre la verità che è… la cosa più comune che loro chiedono […] Ti può capitare il paziente che all’inizio non ne vuole proprio sapere di te perché magari in quel momento è in completa negazione, non accetta nessun’altra figura professionale, questo fa parte però di qualsiasi setting di…di lavoro secondo me e quindi lì magari c’è bisogno prima di costruire un’alleanza terapeutica, di entrare più in contatto, più in empatia… ).

Una terapista descrive un incontro difficile con un paziente che sta vivendo, a suo parere, una sorta di depressione. Questa specie di depressione si manifesta con il rifiuto delle cure erogate nell’hospice e da qualunque figura professionale, per cui di conseguenza il paziente arriva a mettere in atto un aut-aut agli operatori: “o mi trasferite in ospedale oppure voglio morire a casa”. Questo atteggiamento cela evidentemente una sorta di rifiuto della progressione della malattia e di quello che ne consegue (Era anche una sorta di depressione, perché il fatto che mi abbiano detto: <<guarda che questa settimana ha rifiutato tutto>>, perché lui dice <<o muoio a casa o mi portate in un ospedale, altrimenti qua non si va più da nessuna parte>>, probabilmente c’era anche della depressione, che lui poi sfogava così. Poi appunto…l’umano è talmente vario che ognuno reagisce in modo… probabilmente spaventato dal vedere il proprio corpo cambiato, la malattia che comunque non si fermava. E lui probabilmente quel giorno lì era talmente nero, per cui lui non è stato lì ad inquadrarmi quando sono entrata. Lui si è semplicemente… si è arrabbiato perché gli stavo facendo fare una cosa che lui non voleva fare in quel momento).

Un’altra situazione complessa che emerge dalla testimonianza di una terapista riguarda la rabbia e la delusione espresse da un paziente che in giovane età si trova già alla fine della sua vita. L’ergoterapista che lo segue pensa che la sua funzione principale in questo caso sia assicurare la sua presenza incondizionata al paziente, accogliere e comprendere questi sentimenti “negativi”. In seguito, un ulteriore passo che fa è quello di spiegargli che c’è ancora la possibilità di provare gioia, di concedersi il permesso di vivere momenti belli, per esempio quelli da vivere con familiari e amici (Mi è capitato un ragazzo che aveva diciannove anni ad A… Diceva: <<Vabbè tu fai presto a parlare: facciamo, andiamo…Però tu sei sana, tu stai bene, tu esci da qua e te ne vai a casa. Io però sto qua: ho diciannove anni e so che non c’è niente da fare e rimarrò qua! E non ho altra soluzione>>. E lì che fai? È così! Non puoi…che puoi dire? Puoi accogliere, secondo me, la loro sofferenza e fargli capire che comunque tu ci sei, rimarrai lì, li accompagnerai, cercherai di supportarli in tutto quello che puoi fare. […] Accogliere la loro sofferenza, accogliere la loro rabbia. La comprendi e basta. E appunto mettere un po' il centro sul fatto che può ancora provare gioia. Quindi è vero: è un periodo che fa schifo, un percorso che fa schifo e comunque porterà alla fine. Però d’altra parte ancora ci può stare l’abbraccio dei parenti, mangiare insieme una cosa che hanno preparato, avere soddisfazione di una cosa fatta da loro, fare un regalo, lasciare un ricordo, non lo so…la giornata che è bella, che c’è sole, i fiori in camera che sono belli…le piccole cose possono ancora dare tanta, tanta gioia! E quindi riportare un po' su questo e che comunque <<alla fine…>>, io cerco di dire sempre << Alla fine la nostra fine è quella. È vero, che tu lo sai! Però è così, bisogna accettarlo piano, piano! È una cosa naturale>>. Ovviamente è impossibile accettare la propria morte però piano piano è un percorso che si deve fare). La maggior consapevolezza della prognosi è una risorsa per il paziente alla fine della vita, secondo l’esperienza maturata da una delle terapiste, al fine di porsi obiettivi realistici dal punto di vista occupazionale. Il fatto di sapere la verità non equivale automaticamente ad una deprivazione completa della speranza ma, anzi, ad una volontà di vivere la vita pienamente, fino all’ultimo, senza precludersi nulla (Un paziente: <<Voglio vivere fino alla fine!>>. Queste persone che hanno consapevolezza hanno anche obiettivi realistici. Nell’immagine comune qui si pensa, alcuni pensano, molti purtroppo pensano che il saper tutto porta a deprivazione completa della speranza […] Ma queste persone sono anche persone che sono in grado di porsi obiettivi realistici e realizzabili. Per cui non ti diranno mai <<Voglio tornare a lavorare>>, <<Voglio tornare a camminare>> dove magari non è possibile farlo, non si porranno mai un obiettivo non realizzabile. Si porranno obiettivi realizzabili, comunque […] realizzabili

nel tempo che hanno a disposizione… E quindi questo tipo di persone, le persone con le quali all’inizio può essere duro l’impatto del terapista ma in realtà sono persone con le quali…con le quali puoi costruire un progetto più reale, più concreto, più fattibile. Lei [una paziente] sta facendo [collane in ceramica], ecco, oggi è scesa e ha detto << Ce ne ho già cinque prenotate>> perché sono per le sue amiche, lei […] sta lasciando per gli altri, lei è una paziente che sa tutto, che è entrata qui con la lotta al cancro ed adesso ha capito che deve fare la lotta alla vita, invece, essere più viva possibile). Secondo la stessa professionista il fatto che la persona sappia la “verità” impone una presa a carico olistica dove la spiritualità è messa al centro, poiché il paziente consapevole della prognosi è più portato ad interrogarsi sul senso della vita. In questa situazione, il più grosso ostacolo per raggiungere una buona qualità della vita è rappresentato dalla sofferenza spirituale che lo attanaglia e che, secondo la terapista, andrebbe curata anche dal punto di vista occupazionale (la parte delle persone completamente consapevoli è una parte di persone che all’inizio può, non sempre, ma può fare questo tipo di domande: “non c’è più niente da fare per me”, “la mia vita non ha più un senso”, “sto morendo e vivo una condizione di abbandono, di disperazione di non-speranza”. Su queste persone va fatto un lavoro di équipe, di presa in carico globale che deve essere medica, infermieristica, psicologica, sociale, se c’è bisogno, di supporto spirituale anche… Perché ricordiamoci quanto è importante la spiritualità e il senso della vita sta tutto lì, sia che un paziente è credente, [sia] che non lo sia: il senso della vita è un dolore spirituale che va curato, e poi dal punto di vista anche occupazionale). Nel racconto di un’altra terapista si evince quanto l’espressione artistica, ad esempio la rappresentazione teatrale, scelta come occupazione significativa da una paziente, possa assumere un ruolo determinante e fungere da atto liberatorio, durante il percorso di consapevolezza verso l’accettazione (… quindi piano piano sceglievamo il tema io le portavo delle proposte, lei le sceglieva e le sue scelte veramente erano comunque tanto, tanto indicative della sua vita, di quello che stava vivendo…Lei ha fatto uno spettacolo in cui ha parlato dell’amore, ad un certo punto ha cominciato a piangere, quindi per lei è stato veramente liberatorio e l’ha portata a fare un percorso di consapevolezza però in un modo diverso…), per poter raggiungere non solo una miglior qualità di vita negli ultimi giorni ma anche sentimenti di pace e serenità interiore all’approssimarsi della morte (lei era più serena, non era più arrabbiata, aveva comunque goduto di quei giorni rimasti e poi piano, piano si è rilassata e ha capito che era verso la fine, però, comunque sia, era soddisfatta di quello che aveva fatto anche negli ultimi giorni. L’ha aiutata per un po' ad affrontare anche gli ultimi giorni, questo!). 4.8 LA CONSAPEVOLEZZA DEL TERAPISTA

La consapevolezza di cui si parla in questo capitolo si riferisce sia alla sfera personale sia a quella professionale del terapista o a entrambe dal momento che l’una si intreccia inevitabilmente all’altra, nelle professioni dell’“aver cura”.

La consapevolezza personale nel terapista deriva da esperienze e riflessioni riguardo all’elaborazione del lutto, l’elaborazione della propria morte, l’accettazione della propria fallibilità e della propria impotenza. Una delle ergoterapiste spiega come la difficoltà che abbia riscontrato, lavorando nelle cure palliative, sia stata quella di scindere quello che succede ai suoi pazienti dai propri avvenimenti personali: è accaduto infatti che abbia rivissuto la perdita di una persona cara proiettando un lutto, non ancora elaborato, nel seguire un suo paziente. La terapista spiega come ha superato la cosa, imparando nel corso del tempo a ricontestualizzare nel “qui ed ora” lavorativo, non creando associazioni, non assecondando la risonanza che una situazione ‘familiare’ può creare in lei (molte cose possono ricordarti qualcosa di personale, farti star male a livello

personale e…mi fermo, capisco qual è quella cosa che mi sta facendo star male e gli provo a trovare una spiegazione, provo a capire come […] risolverla perché nella mia vita è già successa o…cerco di dargli una spiegazione. Tutto quello che succede, si nasce si muore è un ciclo e come…l’importante è farlo in modo, in un modo bello e tutte queste domande che portano spesso al pensiero della morte spesso è quello che ci fa star male perché poi è il pensiero di non esserci più, il pensiero di persone che non ci sono più, il pensiero della sofferenza…È ricontestualizzarli e dargli l’importanza di quel momento, non allargarle a….quando rovesci un bicchiere, rovesci una bottiglia cerchi di…contenere l’acqua e asciugarla lì, non far sì che si allaghi tutta la cucina. […] questo è quello che io provo a fare: tengo lì, elaboro quello che sta succedendo, elaboro a modo mio). Nel proseguire l’intervista lei aggiunge quanto ritenga importante, dal suo punto di vista, svolgere prima o poi un lavoro a livello personale che tocchi i cardini della sua vita così da poter affrontare meglio determinate situazioni sul lavoro (Credo che un lavoro a livello personale sulla… su quello che sono…i principi, i cardini della propria vita sia importante…Fatto con chi, questo non te lo so dire). Una seconda terapista dice che, se all’inizio della sua esperienza lavorativa la difficoltà stava nell’elaborazione della perdita, ora, dopo un po' di anni, l’ostacolo maggiore sta nell’affrontare ed elaborare il senso di colpa quando si pensa di aver sbagliato qualcosa o di non aver fatto tutto quello che si sarebbe potuto fare per il paziente e, soprattutto, per la famiglia del paziente (Quando mi hanno chiamato per dirmi: <<Guarda che la signora è morta>>, io sono scoppiata a piangere, che mia mamma mi ha detto: <<F., però se ogni paziente è così, non ne usciamo più!>>. E allora poi piano piano, mi rendo conto di avere ancora dei limiti, nonostante comunque che siano cinque anni che ci sono dentro al cento per cento. Mi rendo conto che in alcuni casi […] in particolare poi se la persona viene a mancare, non so affrontare il dopo, nel senso che o ci sono talmente tanto dentro che allora è inevitabile per me andare al funerale piuttosto che andare a trovare la famiglia dopo […] mi rendo conto che ho le mie difficoltà sono in questo, non tanto nell’affrontare, nel fare, nel proporre, ma è dopo. Io sono un po’ bloccata in quello […] per certe situazioni sono rimasta un po’ lì nel dire: “l’ho sforzato troppo, potevo vedere qualcosa che invece non ho visto”, oppure appunto penso alla famiglia che rimane). Ne conviene che per superare un certo senso di impotenza e migliorare la sua capacità di elaborare alcune situazioni lavorative sarebbe importante intraprendere sempre più un percorso di approfondimento personale che, a suo dire, non finisce mai (sono capace di dire agli altri: “dai, ce la facciamo, andiamo, non pensare solo male, qualcosa si può…”, poi non so convertirlo su me stessa. Probabilmente do talmente tanto e poi non ne tengo per me…! Però lì è proprio … io dico ‘limite’, ma è la tua personalità, il tuo percorso personale che magari devi ancora fare, devi continuare, perché comunque va be’, non si smette mai… Eh, sono talmente tante cose). Anche una terza ergoterapista riporta una riflessione sul tema dell’elaborazione del lutto spiegando che tutti i pazienti presi in carico muoiono nel giro di breve tempo: ciò comporta un’inevitabile accettazione, pena il rischio di incappare nella sindrome da burn-out. Una risorsa che lei ha trovato per prevenire questa malattia professionale è assumere un cambio di prospettiva, considerare la morte come un fatto naturale e, da palliativista, trovare la propria gratificazione non nella guarigione del paziente ma, per esempio, nel contribuire ad una buona qualità di vita (Perché questo lavoro ovviamente non è che tu timbri il cartellino e vai a casa, quello che devi dire è che palliativista sei per tutta la vita anche come affronti le cose nella vita. Anche il discorso di lasciare andare, cioè anche qui, no? se tu non capisci questa cosa, comunque non capisci che è una cosa naturale […] Tu ti senti frustrata tutti i giorni, cioè vai…dopo due mesi vai in burn-out perché comunque è ovvio che tutte le persone

moriranno, non è un tuo fallimento però, devi capire che è una cosa naturale, devi essere soddisfatto di altre cose, quindi deve cambiare proprio l’approccio, l’ottica!). Sempre lei sottolinea quanto sia importante iniziare una meditazione costruttiva riguardo alla propria morte e spiega che regolarmente, lei stessa, attua un bilancio personale della sua vita, come se dovesse morire il giorno dopo. Questo bilancio è in grado di donare quella consapevolezza di compiere, nella propria vita, le scelte più significative e, quindi, di vivere ponendo le proprie priorità e non secondo il comune senso del dovere: questo lavoro lo fa in primis su di sé così da poterlo poi proporre anche ai suoi pazienti, così da raggiungere una forma di condivisione più autentica, quando si prende cura degli aspetti esistenziali (Perché in realtà io potrei pure uscire di casa e morire […] io ogni tanto ci penso al momento in cui potrei m[orire]…cioè, non al momento, ma che comunque potrei morire…però si vive abbastanza serenamente. Secondo me bisogna affrontare questa cosa: siamo poco abituati ad affrontare la morte, a pensare che noi potremmo morire, i nostri cari potrebbero morire! Invece fa parte appunto della vita, secondo me! E quindi faccio questo bilancio, perché dico noi non siamo costretti a fare nulla! Noi nel corso della vita possiamo fare qualsiasi cosa, diventare qualsiasi cosa, prendere qualsiasi decisione, sentirci liberi di prendere qualsiasi cosa! Invece magari uno si sente costretto dalla famiglia, tante cose: in realtà siamo liberi, sono solo giustificazioni e quindi dobbiamo fare solo un bilancio delle cose importanti e cose non importanti, cose che fanno sentire felici…E così [è] come va con i pazienti perché non puoi farlo a loro e poi non farlo [tu]!). Una quarta ergoterapista fa delle considerazioni sul fatto che lavorare in cure palliative permette di cambiare l’idea che si ha su argomenti considerati tabù nella nostra società: parlare apertamente degli “innominati”, cioè di tumore e di morte, significa non separare la malattia e la morte dalla vita ma “comprenderle” come parte della vita stessa (Spesso mi capita quando parlo al di fuori…come se ci fosse l’ “Innominato”, la morte, il dolore, il tumore fosse una cosa che non si può dire, invece fa parte della vita, siamo esseri viventi perché prima o poi moriamo, tutti questi ragio[namenti]…pensieri non…non è così scontato che si facciano nella vita…forse lavorare in cure palliative, ti permette un po' di riflettere su