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4. RISULTATI DIFFICOLTA’ E RISORSE DEGLI ERGOTERAPIST

4.6 LO SPAZIO DI CURA

L’esperienza di una ergoterapista che riflette su quale sia stata l’esperienza di molti pazienti in determinati contesti ospedalieri, dove assenza di umanità e privacy e depersonalizzazione del paziente evocano sentimenti di squallore e disperazione, soprattutto nella fase di fine vita, l’ha motivata a fare una riflessione su quale tipo di ambiente di cura possa essere adeguato (Ho avuto anche esperienze di persone in fase avanzata di malattia, in fase terminale che comunque sono state assistite veramente male, cioè nel senso vedevo questi ospedali con camere giganti, con dieci, quindici persone dentro, uno a fianco all’altro, senza nessun tipo di umanità, non lo so…dove erano completamente depersonalizzate perché comunque non c’era niente […] proprio un posto squallido, freddo… Spesso sole perché magari alcune persone erano sole, magari non hanno parenti, senza nessun tipo di privacy, di…di accortezza nella cura. Quindi mi sono sempre detta è possibile che uno finisce così? questa è la fine? Così piatta, così fredda, così brutta? Mi ha dato proprio una sensazione di…che non sia adeguata alla persona una cosa del genere… dove quando muori ti mettono il paravento insieme ad altra gente, non c’è veramente un attimo di respiro anche per la famiglia…Una cosa brutta, brutta, brutta!). La presenza della cucina in un hospice, dove un’ergoterapista ha messo in piedi un gruppo-cucina, rappresenta uno spazio di accoglienza contraddistinto da un’atmosfera familiare: evoca nel paziente la sensazione di entrare in un ambiente casalingo, dove lo attendono momenti di spontaneità e incontro, la bontà di piatti cucinati sul momento, preparati e consumati assieme (E gli proponi qualcosa di nuovo che sa di casa, perché comunque non è la minestrina che ti fa l’ospedale, ma è un piatto un po’ più saporito, un po’ più complesso,

più buono e quindi questo è stato…anche lì, ovvio, lo proponi a tutti, sia a persone allettate che a persone tutto sommato ancora autonome e a tutti dici anche: “se volete entrare in cucina ad aiutarci, venite!”. Anche l’accogliere è sempre quella cosa in più, che fa parte comunque della terapia occupazionale, perché comunque un gesto di entrare in cucina è una cosa che fai tutti i giorni. In quel caso loro già si sentono estranei, perché comunque sei in un reparto, sei in una stanza che sì, è resa accogliente […] però sei sempre estranea. E quindi l’entrare in cucina, che invece è un luogo collettivo in cui ci si trova in tanti è sempre un modo così per creare più una sensazione di casa, di famiglia, di incontro così, spontaneo). Un’altra terapista parlando dell’hospice dove lavora lo definisce “hospice sociale”: concepito in un modo che, contrastando la deprivazione sensoriale, favorisca lo scambio relazionale e l’occupazione (non utilizziamo i camici, le camere sono tutte colorate, diamo la possibilità ai pazienti di personalizzarle perché se loro portano qualcosa della loro casa nella stanza è comunque un modo per renderla più accogliente, per renderla più vicina alla casa… Poi ci sono tutti i requisiti dell’hospice che sono uguali per tutti: stanze singole, bagno in camera, ecc… spazi comuni…poi nell’individualità di A. c’è il fatto che punta più possibile ad essere un ambiente accogliente, dove il paziente si possa sentire a casa, pure questo aiuta perché uno dei problemi…una delle barriere all’occupazione è la deprivazione sensoriale, stare in un ambiente che non facilita per niente l’attività. Questo è un ambiente che facilità l’attività, che facilita le relazioni: l’“hospice sociale” noi lo chiamiamo cioè il fatto che diamo tanta possibilità ai pazienti di scambiare relazioni tra di loro…). Mentre in un setting di gruppo, secondo il punto di vista dell’ergoterapista che opera nel day hospice, si può creare quel clima che porta alla progressiva apertura di chi all’inizio proprio non ne vuole sapere di proporsi e fare qualcosa ma poi, alla fine della giornata, risulta addirittura contento di aver contribuito (Mi è capitato più volte che magari qualcuno diceva di non stare bene, di non sentirsi di fare nulla e poi così, rimanendo lì, vedendo anche gli altri, oppure nel clima un po' che si crea in quello spazio e lasciare cadere un po' tutte queste [resistenze], di buttarsi un po'…iniziare a fare, iniziare a parlare, ad aprirsi un po' di più, quindi poi arrivare a fine giornata, contento di essere rimasto e di aver, aver partecipato…). Difatti il potenziale terapeutico del gruppo risiede nella capacità di esaltare relazione e motivazione nelle persone, come viene riconosciuto da un’altra terapista (E quindi anche quando facciamo un’attività di gruppo perché l’attività può essere individuale ma anche di gruppo e abbiamo visto che nel gruppo tutta la parte che riguarda la relazione, la motivazione viene esaltata all’ennesima potenza quindi il gruppo ha questa forza motrice di permettere le relazioni, scambi relazionali anche tutta la parte, diciamo, di motivazione) e anche nella capacità di creare un clima magico e piacevole dove sentirsi alla pari e non giudicati: ciò permette di sentirsi ancora liberi di essere quello che si è e di mettersi di nuovo in gioco, come spiega la terapista che conduce il gruppo del day hospice (il clima che si respira lì è proprio un po' magico, è molto piacevole! Poi si sentono proprio a loro agio, pian pianino viene fuori tutto quello…che possono essere: forse perché si possono sentire liberi di essere quello che sono, anche da malati! Perché spesso mi dicono che magari gli amici non vanno più a trovarli oppure non vanno più adesso perché anche […] parlare con uno che sai che sta male, che sta morendo non è…fa un po' paura! Invece lì sono…possono essere anche malati, noi lo sappiamo […] E quindi credo un po' che il punto di forza sia quello […] Si sentano a loro agio e quindi possano mettersi anche un po' in gioco alle volte, un po' sperimentarsi perché sanno che lì…che non siamo lì per giudicare!).