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VIOLA: MACROAREE CON PAROLE CHIAVE

ROSSO: MICROAREE/CAPITOLI ALL’INTERNO DI UNA MACROAREA

9.4 CONSENSO INFORMATO PER INTERVISTE Gentile terapista occupazionale, signora

9.5.1.2 SECONDA INTERVISTA

Io: Allora. Praticamente innanzitutto ti garantisco il pieno anonimato; cioè qualunque dato tuo personale che mi dici, anche il tuo nome e cognome, poi comunque io lo tolgo, per cui lì stai tranquilla, anche il posto dove lavori non comparirà nella tesi e quant’altro lo togliamo… nel caso che involontariamente tu lo nomini non ti devi preoccupare di questo. Te lo garantisco. Allora ti faccio alcune domande per inquadrare un po’ te e il tuo profilo professionale. Allora l’età?

BB: Quasi ventotto

Io: Allora, poi, il luogo. Diciamo che siamo in Italia, perché potrebbe essere magari – faccio qualche intervista in Svizzera. Comunque, la mia sede è in Svizzera. Diciamo Italia. Se vuoi aggiungere un luogo di lavoro, anche solo la regione. Decidi tu quello che preferisci dirmi.

BB: Io sono sul basso lodigiano, perché lavorando sia in struttura che sul territorio io copro il territorio del basso lodigiano.

Io: OK, benissimo. Formazione universitaria, mi stavi dicendo…

BB: Ho fatto la triennale a Pavia, per cui proprio di terapia occupazionale e… sì è quello!

Io: Master? Corsi? Qualcos’altro?

BB: Allora. Non era un master, ma la formazione di primo livello di cure palliative, che è stata fatta a Milano, praticamente per tutti gli operatori di cure palliative. Hanno fatto queste serie di incontri che appunto sono poi equivalenti a un master di primo livello di cure palliative, in cui appunto una serie di professori hanno fatto un tot di lezioni con poi un test finale, per cui non è classificabile come master, però è equivalente ad un master di cure palliative.

Io: OK. L’hanno fatto a Milano?

BB: Sì, erano in varie sedi, a seconda… perché siamo stati divisi in più cicli, perché eravamo diversi operatori, perché comunque [era] per tutto il territorio lombardo, mi sembra. Era unitario.

Io: Non solo terapisti occupazionali, quindi.

BB: No, io ero l’unica terapista occupazionale, tanto per cambiare. Erano per medici, infermieri, OSS, poi cos’è che c’era anche? Psicologi. Varie figure che potevano rientrare nel campo delle cure palliative. E noi l’abbiamo fatta all’Istituto dei tumori di Milano [Istituto Nazionale tumori di Milano-Fondazione IRCCS].

Io: ...nazionale tumori di Milano. OK, sì, sì, sì…Benissimo.

BB: Quindi il principale…poi ho vari corsi di aggiornamento, sì, però come master è quello.

BB: Allora, io mi sono laureata nel novembre del 2013. Ho iniziato a lavorare qui a settembre dell’anno dopo. Quindi dopo dieci mesi ho…

Io: Quindi 2013, adesso siamo nel 2019. Sono sei anni che sei laureata in pratica e che lavori quasi da subito.

BB: Sì, sì sono stata abbastanza fortunata come tempistica. Meno di un anno. Io: Allora. Invece in cure palliative quanti anni di esperienza hai?

BB: Eh, dal 2014. Io: Era il primo lavoro?

BB: Ho iniziato subito e per il momento proseguo qui. Poi vedremo… Io: Certo!

BB: …la vita!

Io: Non ci si preclude niente…

BB: …diciamo che la cosa… mi limita…è che comunque io sono lì come libero professionista. Per cui, è ovvio, come tutti io aspiro a un tempo indeterminato. In questo momento qui sono sotto cooperativa, per cui la cooperativa più che una libera professione non ti dà. Sia nelle strutture che sul territorio io sono sempre libero professionista. Meglio che niente! Per cui se in un futuro dovessi trovare da qualche altra parte, che mi danno un indeterminato vado… ognuno deve fare le sue scelte… Io: …le sue valutazioni! Ma adesso questa è una curiosità mia, che vediamo…ogni tanto guardo [il foglio dell’intervista] ma ogni tanto vado per la mia strada… Secondo te, questi posti che hanno scelto la figura della terapista occupazionale come figura parte del team avevano una visione, come dire… secondo te perché l’hanno fatto? Perché è contro corrente molto ancora…purtroppo!

BB: Diciamo che nei due hospice dove lavoro, oltre a me come figura definita di terapie complementari, come le chiamano qua, dove ci definiscono terapisti complementari, ci sono io come terapista occupazionale, c’è un musicoterapista e c’è un arteterapista. Noi siamo le cose in più, rispetto a quello che è il classico organico di una struttura, per cui oltre al medico, l’infermiere e l’OSS, ci siamo anche noi e i volontari… ci siamo anche noi che andiamo appunto a fare cose diverse, a proporre cose diverse, che però riguardano quella che è la complessità della persona, per cui andare a proporre la seduta di arteterapia piuttosto che di musica, piuttosto che di terapia occupazionale è stato un modo per il direttore, nostro responsabile, per dare un valore in più a quello che era la struttura, l’offerta della cooperativa, perché comunque il nostro direttore aveva conosciuto la realtà dell’A. [associazione presso cui lavora la terapista CC], per cui ha visto questa magnifica terapia occupazionale, che lì comunque è il centro. Loro non potendo darmi tanto, hanno comunque voluto provare ad inserirmi per poche ore, perché comunque io faccio tre ore e tre ore negli hospice alla settimana. Pochissimo, però è comunque un modo per offrire una possibilità in più al paziente di fare e di essere stimolato, per cui è proprio sicuramente una visione aperta rispetto a quelle che sono le cure palliative, perché se uno va in giro a chiedere “che cosa sono le cure

palliative? che cosa è un hospice?”, “ma sì è qualcosa dove la gente muore!” e punto. E lì si finisce con la conoscenza delle cure palliative. In questo modo invece dimostri o comunque provi a dimostrare che nonostante “sei alla fine della tua vita o comunque in una situazione particolarmente complessa tra il dolore e tra la malattia stessa”; però, dici, “qualcosa da fare c’è ancora, non è che dobbiamo stare lì ad aspettare”. Punto. E quindi sicuramente mi sono trovata ad essere circondata da persone che hanno comunque una visione molto aperta rispetto a quella che è la normalità in Italia. E quindi hanno sicuramente voluto aggiungere qualcosa a una realtà che in teoria finisce lì. Io: Certo. OK. Sì sì. Adesso, quindi ricapitolando l’ambito di competenza…mi dicevi: tu lavori in due hospice? e fai anche i servizi domiciliari?

BB: domiciliari!

Io: Basta, giusto, rispetto alle cure palliative? BB. Sì sì.

Io: Non è che anche ambulatoriali, day hospice, cose del genere? BB: No, no.

Io: OK! Perché mi sembra che M. [la terapista EE della quinta intervista] fa questo BB: M. è in day hospice!

Io: Allora, invece le principali patologie da cui sono affetti i pazienti con cui ti trovi a lavorare. Più o meno.

BB: Allora, quasi tutti sono pazienti oncologici. Di tutto, proprio davvero spaziamo come oncologico: c’è davvero di tutto. Diciamo che negli ultimi tempi è aumentato il non- oncologico, per cui magari i pazienti con Alzheimer, piuttosto che dementi, piuttosto vasculopatie, per cui andiamo dal non-oncologico, non tanto per me che nell’approcciarsi a una persona con una demenza comunque ti mette dei limiti. Come può essere anche un paziente oncologico con una malattia a livello polmonare, per cui non puoi chiedergli uno sforzo, non puoi chiedergli…i limiti ci sono sia con una patologia piuttosto che un’altra. Ho avuto a che fare anche con delle SLA. E poi…Essenzialmente sono questo: vari oncologici, vari non-oncologici, quasi tutti di tipo cardio-respiratorio o demenze, e poi delle SLA. Più o meno queste sono le principali, che mi vengono in mente adesso.

Io: Allora ti faccio una domanda a cui forse un po’mi hai già risposto, però. Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a lavorare nelle cure palliative? Cioè è stata una scelta occasionale? mirata? ponderata?

BB: Allora, proprio è stato un caso, perché essenzialmente la cosa è stata che una mia compagna di università aveva iniziato qui, nel frattempo lei aveva poi ricevuto un’altra offerta, diciamo migliore; comunque per lei era meglio avvicinarsi a casa e così. Sapeva che ero ancora alla ricerca; e allora mi fa: <<se ti va di provare una cosa un po’ diversa>>. Non era comodo, perché non era vicino a casa. Per cui poi c’era poi anche quel problema, che il viaggio c’era da fare. Era limitato. Perché all’epoca io ho iniziato proprio solo con la struttura, per cui io mi trovavo a muovermi da casa per tre ore in un

giorno e tre ore un altro giorno. Punto. Poi il domiciliare è arrivato in un secondo momento. Quando mi hanno conosciuta hanno capito che cosa si poteva fare; allora poi mi hanno dato lavoro anche extra. Però per quello che però è stato l’inizio, è stato assolutamente un caso. Perché poi appunto, in quella che era la nostra formazione universitaria le cure palliative non sono mai state menzionate, ma neanche proprio lontanamente. Un po’ l’oncologia sì, però anche lì, se eri fortunato riuscivi a fare un paio di mesi di tirocinio in oncologia, se non venivi pescato invece l’oncologia manco la vedevi. Per cui, proprio, è stato proprio un ambito molto, molto, molto sconosciuto, che ho dovuto scoprire, che mi ha fatto paura, perché comunque i primi mesi… un po’ appunto ci si trova a che fare con persone malate, ma veramente malate, per cui dici “che cosa posso fare io, che sono nell’ambito del fare e mi trovo con persone che magari da una settimana con l’altra non ci saranno più? Le vedo tre ore e poi? che cosa lascio io a loro?”. E quindi ammetto che per i primi mesi ero davvero…mi chiedevo: “vado avanti? Non vado avanti? Servo?”. Perché poi alla fine è quello: sei tu che sei al servizio di una persona e che devi trovare il modo di entrare, di stimolarla, di coinvolgerla. E quindi i primi mesi sono stati molto critici per me, anche perché appunto vuoi perché non avevo una formazione, per cui ti trovavi completamente nel nulla; per fortuna mi sono trovata sempre in due équipe, perché comunque i due hospice sono due équipe differenti, però due équipe che ti venivano incontro e cercavano di aiutarti e di darti dei sostegni anche psicologici, perché comunque avendo lo psicologo… in particolare in una delle due mi ha visto completamente nel marasma più totale, quindi mi ha detto: <<dimmi di che cosa hai bisogno? cosa pensi?>>. Effettivamente, se poi non trovi il modo per sganciarti, per partire, alla fine cosa fai? Molli, perché se vedi che non hai una collocazione in tutto questo, dici, piuttosto che star qui a rubar dei soldi, perché alla fine venivi pagata ma ti sembrava di non far nulla, dici “Allora sto a casa!”. Poi piano piano ho conosciuto il mondo delle cure palliative e sono riuscita un po’ a trovare il modo per incastrarmi nel puzzle.

Io: La tua posizione nel mondo delle cure palliative... Come si contraddistingue il tuo lavoro lì, cioè proprio a livello...Quali bisogni incontri, oppure quali i costrutti dell’ergoterapia a cui ti appoggi più di frequente, non so, “la pratica centrata sul cliente, sull’occupazione” o altro, aree occupazionali, setting e metodi che usi di preferenza. Fammi una panoramica.

BB: Diciamo che…c’è stata un’evoluzione, nel senso che le prime volte, vuoi proprio per quella che è l’impostazione o comunque il modo con cui esci dall’università come mentalità, dici “terapia occupazionale: la quotidianità”. Riacquistare i gesti quotidiani, per un motivo, persi, o comunque che sono più difficili da fare. Aiutare a fare questo. Per cui, per dire, con gli uomini, la cosa che per me, da donna, ignorante nel campo maschile in questo senso, molti uomini li vedevi con un po’ di barba, fatta un po’ male. <<Perché non proviamo a farla?>>. E lì mi trovavo di fronte a uomini che effettivamente non avevano voglia di farsi la barba, perché – questo è quello a cui sono arrivata, io come mia conclusione, poi magari sbagliando comunque i motivi sono vari – la cosa per cui io proponevo quello era appunto “il gesto di farsi la barba per un uomo è il gesto di prendersi più cura di sé, del proprio aspetto”, perché comunque il viso è la prima cosa che vedo; per cui se uno è un po’ trasandato, non fa subito una bella impressione, diciamo così. Quindi dico un uomo è sempre stato abituato coi rasoi piuttosto che con la lametta a farsela. Troviamo un modo, ci sistemiamo lo specchio, prendiamo un catino o

ci organizziamo per…Quando lo proponevi, quasi sempre la risposta che ho ricevuto è stata: <<ma no, tanto più tardi viene il ragazzo>> che era essenzialmente un OSS, che faceva il giro a fare le barbe, piuttosto che alcuni volontari, anche, aiutavano in questo. Lo chiedi una settimana, lo chiedi la settimana dopo e la risposta è sempre: <<Guarda! Ma tanto poi c’è lui a farmela>>. Allora dico, forse in questa fase della vita, arrivati così avanti nella malattia, probabilmente per molti era una storia lunga di malattia, per cui arrivavano anche stanchi, nonostante magari t’accogliessero anche col sorriso, però erano stanchi di dover continuare a provare, a lottare contro la loro malattia, per cui per queste cose piccole, diciamo così, perché alla fine farsi la barba cos’è che ci vuole? Avevano voglia di coccole. Io l’ho proprio interpretata come un volersi far coccolare, l’attenzione che magari non ha mai avuto, perché comunque ha sempre fatto da solo. In quel momento era un modo per essere guardati, per essere accarezzati, perché poi è inevitabile, mentre ti fa la barba uno ti fa anche la carezza, è un modo per fare due chiacchiere mentre sei lì e quindi ho capito che certe cose non potevo insistere, diciamo così, a farle, perché per loro non era più una cosa importante, era passata in secondo piano rispetto ad altro. Per cui poi, ad esempio in uno dei due hospice, nell’altro un po’ meno per questioni organizzative non si è riusciti sempre a fare, nell’altro invece proprio appoggiandomi a delle volontarie l’altra cosa che ho avviato è stato il discorso della cucina. Perché comunque mangiare, devi mangiare. Quello è fondamentale per tutti. A maggior ragione poi in fine vita ti trovi nella classica situazione del parente che ti dice: “eh, se non mangia, muore”.

Io. Classico!

BB: Perché queste sono le classiche frasi. E allora anche lì, sempre poi per un discorso di coccole, il preparare il mangiare, il fare la domanda: “Ha voglia di mangiare questa sera qualcosa di buono?”. È sempre un’attenzione in più che dimostri al paziente e al parente, perché comunque anche lì, quando prendi in carico la persona malata, prendi in carico tutti. E quindi proporre, anche lì, solo il giorno in cui c’ero io, quindi il martedì; avevamo preparato queste locandine, che ogni lunedì passavamo a mettere, in cui proponevamo un piatto in più al menù, preparato da noi, per cui, anche lì, non è la cosa che esce dalla cucina di un ospedale, ma è una cosa fatta nella cucina del reparto, fatta da delle volontarie, che comunque sono casalinghe o che comunque hanno quella cosa in più nel mangiare, nell’attenzione del preparare il piatto, e quindi anche lì, quando tu entravi in camera e chiedevi <<domani ha voglia di mangiare gli gnocchi?>>. Piuttosto che preparavamo magari la polenta, e sembrava di preparare chissà che cosa…Lì la polenta l’avrebbero mangiata tutti i giorni; però quei piatti lì, dici “che cosa ci vuole?”, eppure per loro era una vita che non li mangiavano e anche lì, sempre per una questione di coccole, per una questione di attenzione, tu proponevi; c’era quello che saltava sul letto: “sì, sì, sì, sì!”. Anche chi ti diceva di no, però te lo diceva col sorriso, perché comunque il fatto che tu abbia avuto quell’attenzione in più nei suoi confronti ha significato qualcosa: hai pensato a lui non come persona malata, ma come persona che deve fare un gesto quotidiano. E gli proponi qualcosa di nuovo che sa di casa, perché comunque non è la minestrina che ti fa l’ospedale, ma è un piatto un po’ più saporito, un po’ più complesso, più buono e quindi questo è stato…anche lì, ovvio, lo proponi a tutti, sia a persone allettate che a persone tutto sommato ancora autonome e a tutti dici anche: “se volete entrare in cucina ad aiutarci, venite!”. Anche l’accogliere è sempre quella cosa in più, che fa parte comunque della terapia occupazionale, perché

comunque un gesto di entrare in cucina è una cosa che fai tutti i giorni. In quel caso loro già si sentono estranei, perché comunque sei in un reparto, sei in una stanza che sì, è resa accogliente, perché è colorata, perché hai la tua televisione, il tuo tavolo, hai il tuo bagno, per cui è un miniappartamento, però sei sempre estranea. E quindi l’entrare in cucina, che invece è un luogo collettivo in cui ci si trova in tanti è sempre un modo così per creare più una sensazione di casa, di famiglia, di incontro così, spontaneo. Quindi c’è stato quello nell’evoluzione del mio ruolo di terapista occupazionale e adesso, da aprile più o meno, proprio perché anche lì ho fatto un momento di stallo, diciamo così, dovevo trovare qualcosa per ri-stimolare me stessa e gli altri, perché poi alla fine è così, devi continuamente cercare di ri-crearti, di trovare qualcosa lì, ho creato un carrello di terapia occupazionale nei due hospice con su cose più manuali, nel senso che mi mancava quello. Per cui molte signore, che cosa fanno dopo che sono a casa in pensione: l’uncinetto. E allora dagli la possibilità di vedere un gomitolo di lana e un uncinetto. Sia mai che parte quella cosa: “ma sì, lo faccio!” piuttosto che semplicemente dei pastelli e dei quaderni, se una persona è sempre stata un po’ creativa. Anche perché ho notato… io poi in più ho portato dei fogli da origami, che è una cosa che pochi, in particolare, essendo persone un po’anziane, “gli origami che cos’è?”. E ho notato che il proporre una cosa strana, però semplice e sconosciuta incuriosisce e allora ti seguono. E quindi ho proprio notato persone completamente diverse tra loro, perché l’ho fatto fare a una signora che mi era stata segnalata dalla psicologa, un po’ sola, un po’ tendente alla depressione, però che a casa era abituata a fare l’uncinetto, ma adesso che le mani non erano proprio più collaboranti, “prova a vedere se magari c’è qualcosa, sempre da fare con le mani, magari più semplice, comunque l’uncinetto è sottile…”. Allora sono entrata con un fiore già fatto in origami, gliel’ ho fatto vedere. Ha accettato, e so che poi quando è tornata a casa – perché per un periodo è riuscita a tornare a casa – prima di andar via mi fa: <<no, no, perché tanto ho già in mente il vaso dove mettere i fiori fatti>>. Per cui era stato uno stimolo per pensare al dopo, perché tanti si fermano lì sull’oggi, perché pensano che un domani non ci sarà. Per cui… come anche un altro signore, anche lì, lì c’era tutta una storia, perché si erano sposati in hospice, avevano fatto il rinfresco, per cui lì già c’era stato tutto un modo per… era un uomo molto chiuso, sembrava quasi, non scorbutico, però tendeva a tagliare corto con i discorsi. Quando ha visto che in fondo era sì in un hospice, però era una famiglia, perché “dov’è che ti organizzano un rinfresco del matrimonio? ti fanno tutti…? vengono i volontari a suonare?”, per cui quando hai visto che lui piano piano si è ammorbidito, allora la volta dopo ero entrata e gli ho detto: <<ma visto che ci siamo sposati, quante