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4. RISULTATI DIFFICOLTA’ E RISORSE DEGLI ERGOTERAPIST

4.4 LA DIMENSIONE DEL TEMPO

Durante l’analisi delle interviste si è più volte presentato il concetto di tempo ed il suo significato nell’ambito cure palliative. Si è palesato, per esempio, nelle risposte in cui viene descritta la percezione che sembra averne il morente e, viene inoltre trattato dalle professioniste, circa l’idea che ne hanno e l’uso che ne fanno nella loro pratica professionale. Andiamo con ordine, ripercorrendo le due sfaccettature della questione. 4.4.1.1 L’ESPERIENZA VISSUTA DAI PAZIENTI

C’è, per esempio, il tempo che rimane al paziente: la sua percezione di non avere più tempo di fronte all’incombere della morte, oltre al pensiero che spesso balena nella sua mente “che senso ha fare qualcosa oggi se domani sarò morto?”. Come spiega una delle ergoterapiste, questo atteggiamento rappresenta un ostacolo all’intervento ergoterapico (pensavano che essendo entrati da poco in un hospice, sapendo che, come si usa dire da queste parti, è l’anticamera della morte. Dicono: “sì, mi metto a fare una cosa e poi, magari fra due giorni sono morto”). Un’altra ergoterapista invece, sulla falsariga del collega assistente spirituale, propone al paziente, spaventato dall’approssimarsi della fine, di scartare la visione del “bicchiere mezzo vuoto” a favore

di quella del “bicchiere mezzo pieno”, cercando di godere pienamente di ogni nuovo giorno come se fosse un dono inaspettato (in realtà abbiamo l’assistente spirituale bravissimo che lui mi ha sempre detto questo <<tutti mi chiedono perché proprio a me, perché sta finendo, quanti giorni ho?>> e non ringrazia mai al contrario tutti i giorni che si sveglia la mattina, cioè non si fa mai la domanda al contrario <<come mai sono ancora vivo stamattina? Grazie a Dio ancora mi trovo un altro giorno!>>). Il senso del tempo raccontato da una terza terapista si ammanta anche di un altro tipo di connotazione: il tempo infinito che non trascorre, le lunghe ore che non passano mai dentro la camera del paziente, l’attesa della morte come attesa dell’ineluttabile (Io: […] quando l’hai incontrato e appunto era in questo, in questa fase, lui come passava le sue giornate? AA: Aspettando [pausa lunga], davanti ad una televisione, a volte… a volte spenta, in casa da solo [..] in attesa di qualcosa, in attesa che succeda qualcosa e qualcosa era… è brutto dirlo, però il decesso). Un’altra terapista, parlando di questo sentimento che si insinua tra i malati, ne fornisce una ‘eziologia’. Ella riferisce che a seguito di una ricerca svolta in hospice prima che venisse introdotta l’ergoterapia, è emerso tra i pazienti alla fine della vita, il problema dell’inattività e della deprivazione occupazionale. Nel corso dei primi anni nel suo hospice funzionava in questo modo: una volta attuato il controllo dei sintomi, le persone trascorrevano l’intera giornata senza far nulla, nelle loro stanze. Questa situazione produceva importanti ripercussioni sul tono dell’umore (erano curati dal punto di vista sintomatologico ma quello che veniva osservato dai medici, dagli infermieri, quindi dall’équipe di base di cure palliative era che questi pazienti però rimanevano inattivi per gran parte della giornata e questa inattività si portava dietro uno strascico di altre problematiche per esempio il fatto che difficilmente avevano dei momenti benefici durante la giornata dal punto di vista proprio di attività da svolgere, che anche le giornate erano comunque noiose, che il paziente tendeva ad avere un tono dell’umore basso durante la giornata, sebbene comunque, clinicamente fossero gestiti, quindi c’era l’interesse, la domanda di “possiamo far altro con queste persone? possiamo trovare…?” […] la cosa che era comune a tutte le persone che io all’inizio intervistavo e conoscevo era che il… mancava proprio[…] la giornata, la vita di queste persone era proprio completamente spoglia di occupazioni, cioè quelle poche occupazioni che loro avevano e che emergevano però […] dal colloquio basato sulla performance occupazionale era che tutte le occupazioni, tutte le attività, tutto quello che c’era da fare ruotava in realtà intorno alla malattia, quindi a quanto poi di medico c’era da fare).

4.4.1.2 LA PERCEZIONE DELLE TERAPISTE

La figura professionale dell’ergoterapista in un’équipe di cure palliative però non sempre può raggiungere una sua compiutezza, a causa del poco tempo a disposizione. Un sentimento di inefficacia nel seguire i pazienti in un percorso, complice una bassa percentuale di impiego, è palpabile nella testimonianza di una delle professioniste interpellate (Loro non potendo darmi tanto, hanno comunque voluto provare ad inserirmi per poche ore, perché comunque io faccio tre ore e tre ore, negli hospice, alla settimana. Pochissimo, però è comunque un modo per offrire una possibilità in più al paziente di fare e di essere stimolato […] “che cosa posso fare io, che sono nell’ambito del fare e mi trovo con persone che magari da una settimana con l’altra non ci saranno più? Le vedo tre ore e poi? che cosa lascio io a loro?”. E quindi ammetto che per i primi mesi ero davvero…mi chiedevo: “vado avanti? Non vado avanti? Servo?” […] perché comunque io andando una volta alla settimana non dico che trovo sempre pazienti diversi, però la maggior parte sono cambiati…). Può succedere inoltre che il paziente è arrivato in hospice “troppo in là”, troppo compromesso, e il poco tempo rimasto non ha permesso una presa a carico ergoterapica, come afferma un’altra ergoterapista

(Bisogna conoscere tanto, tanto il paziente: ovviamente prima arrivano, meglio è! Se arrivano tardi non si riesce a fare nulla!) oppure i due fattori insieme -bassa percentuale d’impiego e paziente troppo compromesso- concorrano a non disporre del tempo necessario per l’intervento, secondo una terza terapista (in quella giornata magari ho tante persone, pochi volontari e quindi non riesco ad andare…cioè non riesco a portarlo giù [in atelier]! Sì, forse in quel caso c’è una sorta di…di dispiacere di non averlo, di non aver potuto fare quel pezzettino che poi alla fine sono piccoli pezzettini però poi la settimana dopo peggiora fisicamente, non ce la fa a scendere e quindi dici <<caspita la settimana scorsa era l’ultima volta che poteva…che poteva scendere>>). La quantità di tempo da poter dedicare al paziente è una risorsa fondamentale nelle cure palliative: lo testimonia una terapista confrontando la sua esperienza di lavoro attuale, considerata molto frenetica, rispetto a quella precedente, sperimentata in un hospice. Lei riconosce nel “poter dedicare tempo” un valore aggiunto, una peculiarità della visione stessa delle cure palliative: ciò influisce positivamente sull’apertura del paziente durante il colloquio e nel creare una relazione di fiducia (Nel mondo delle cure palliative io credo che sia…il bello sia avere tanto tempo a disposizione per una persona e dedicargli… più tempo. Questo è quello di cui io mi sono accorta. Perché in un colloquio normale non sarebbe mai uscito, in un…io penso che, pensando alla mia quotidianità oggi forse non ci sarebbe il tempo di fermarsi e ragionare su, fare un ragionamento di questo tipo. In cure palliative, per come l’ho vissuta io, forse perché sono stata fortunata il tempo, non… non era vincolato, il tempo ha un’accezione diversa). Lavorare per una qualità del tempo della persona è invece il mezzo più efficace perché l’ergoterapia possa contrastare la deprivazione occupazionale e alleviare il senso di angosciosa attesa. È ciò che un’ergoterapista fa sostenendo un dialogo col paziente al fine di renderlo consapevole che migliorando la qualità della sua giornata c’è maggiore possibilità di conferire un significato al tempo che rimane (In questo momento della vita in cui in realtà le giornate vengono svuotate dalle occupazioni io propongo proprio questo: <<In questo momento tu hai tempo!>>. Tempo, no? che è una cosa…a cui le cure palliative corrono dietro…<<Tu in questo momento, anche che non hai più tempo di vita, se vogliamo, hai tempo di fare quello che non hai fatto finora>> e ci sono persone che non hanno mai preso un pennello in mano e dicono <<Non l’ho mai fatto ma voglio mettermi in gioco nel fine vita anche>> oppure eh…<<mi è sempre piaciuto cucinare, fare dolci, non ho mai avuto tempo di dedicarmici ma è una cosa…>>. E quindi vengono fuori anche occupazioni nuove, non solo occupazioni che fanno parte della…della loro storia occupazionale e questo secondo me è un valore immenso se pensiamo che nell’immagine comune il paziente terminale è un paziente che è lì…perché deve aspettare la fine, la fine di tutto…In realtà noi vogliamo proprio questo dare senso alla vita, qualità al tempo che è rimasto…).