• Non ci sono risultati.

4. RISULTATI DIFFICOLTA’ E RISORSE DEGLI ERGOTERAPIST

4.5 VALENZA DELLE OCCUPAZIONI SIGNIFICATIVE

Tutte le intervistate affermano che la scelta dell’occupazione significativa da parte della persona ha un’intrinseca valenza terapeutica. Lo scopo dei colloqui che intraprendono con i propri pazienti è proprio quello di poterla trovare poiché essa diviene poi il vero e proprio mezzo terapeutico, secondo la prospettiva dell’ergoterapia. Quindi, sondare per trovare insieme al paziente l’occupazione che riveste un’importanza principale e conferisce senso alla vita è prioritario, come nel racconto di una terapista che parlando di una sua paziente riferisce quanto il “curare la sua piantina” fosse divenuto un progetto con uno scopo (C’era una signora che lei aveva la sua piantina e noi avevamo trovato il “curare la sua piantina”, e lei si prendeva cura di quella pianta per lei era importante e quindi io credo che, con quel progetto, ho portato

un pezzo di…di vita, e un pezzo di quella vita che quelle persone in quel momento non avevano, erano lì ad aspettare, per quanto potessero fare fisioterapia e, va bene, tutta la parte di mobilità, tutta la parte di mantenimento delle… però non… non con uno scopo secondo me…Invece quello che facevamo era trovare un senso a quello che era la loro attività di interesse principale e farla diventare funzionale e trovare delle strategie per poterla fare).

Una terapista spiega in tal senso quanto conti valorizzare questa libertà di scelta del paziente per permettergli di capire ciò che desidera ora, ciò che è più importante per lui/lei adesso. All’inizio della pratica in cure palliative, volendo seguire una certa impostazione ricevuta dalla formazione universitaria, lei si era concentrata sulle attività di vita quotidiana, considerate “adeguate”, secondo la sua idea, ad una certa “categoria” di pazienti. Puntando su quello che le pareva potesse essere importante e significativo per il paziente ha in seguito compreso, con l’esperienza, che questa modalità di procedere si basava su sue generalizzazioni e ha ritenuto di dover fare un passo indietro (le prime volte, vuoi proprio per quella che è l’impostazione o comunque il modo con cui esci dall’università come mentalità, dici ‘terapia occupazionale: la quotidianità’. Riacquistare i gesti quotidiani, per un motivo, persi, o comunque che sono più difficili da fare. Aiutare a fare questo. Per cui, per dire, con gli uomini, la cosa che per me, da donna, ignorante nel campo maschile in questo senso, molti uomini li vedevi con un po’ di barba, fatta un po’ male. <<Perché non proviamo a farla?>>. E lì mi trovavo di fronte a uomini che effettivamente non avevano voglia di farsi la barba […] e quindi ho capito che certe cose non potevo insistere, diciamo così, a farle, perché per loro non era più una cosa importante, era passata in secondo piano rispetto ad altro). Si desume, anche dal racconto di un’altra ergoterapista, la volontà di promuovere l’autonomia attraverso la libera scelta dell’occupazione da parte della persona, dove sostenere nell’occupazione ambita significa non solo farla scegliere ma anche fala pianificarla in ogni aspetto, in modo che venga vissuta in ogni sua fase come una necessità personale e non della terapista (E la cosa fondamentale che cerchiamo di ridare appunto una posizione attiva e centrale al paziente…di rifarlo sentire di nuovo protagonista e quindi il più possibile…di farlo scegliere in tutto! Cioè da cosa vuole fare, anche alle modalità con cui lo vuole fare, cioè nel senso, per quanto tempo, se lo vuole fare in gruppo o lo vuole fare individuale, dalle cose più stupide, anche dai colori… Quindi per dargli proprio la sensazione che lui in realtà può ancora scegliere e tramite l’attività appunto il paziente veramente si risente attivo, ha grande soddisfazione, riesce a controllare i sintomi perché comunque si distrae). E prosegue spiegando quanto sia laborioso e complesso il modo di scovare la cosiddetta “occupazione significativa”, l’unica, in realtà, in grado di sbloccare il paziente da una situazione di stallo e immobilismo: la scoperta avviene attraverso il colloquio frequente, la conoscenza profonda, la voglia di comprensione autentica da parte del terapista (diciamo che fondamentalmente di solito c’è una cosa, un’attività che riesce veramente a sbloccare il paziente…quell’attività magica e significativa per lui. Magari se lo metti a fare un’altra cosa non cambia niente. Non ha il controllo dei sintomi, non ha nessuna soddisfazione…bisogna veramente essere bravi a cogliere quella! […] invece l’attività significativa è difficile trovarla, nel senso che appunto devi conoscere bene la persona, capire chi è, capire che cosa vuole fare, non dare niente per scontato, non è detto che una cosa che ha fatto in passato debba per forza volerla fare! Difficile capire l’attività che dà significato alla persona, assolutamente sì, che [è] l’unica che ha risultati secondo me!). Un’altra professionista lavora in maniera del tutto diversa dalle altre. Il setting dove lavora si chiama “day hospice”: si tratta di un gruppo pazienti provenienti dal proprio domicilio che partecipano, una volta alla settimana, ad un laboratorio di ergoterapia all’interno di un hospice. Anche qui

l’occupazione significativa assume lo stesso identico valore ma l’ergoterapista invece di utilizzare un colloquio preliminare, di una certa profondità, passa direttamente al versante del “fare”, introducendo la persona direttamente nel contesto in cui altre persone si stanno dedicando all’occupazione prescelta. Così facendo mostra che si può pensare di vivere attivamente fino all’ultimo, scegliendo e svolgendo l’occupazione desiderata, che può essere fatta individualmente, in tandem o in un gruppo più ampio (credo che sia una cosa appunto da rispettare poi quando è possibile mostrargli che in realtà fino alla fine, possono continuare a vivere, insomma in qualche modo. Facendo le cose che… o che sono…o che piacciono, che sono piaciute, che piacevano una volta, che magari poi non hanno più avuto l’occasione di ri-sperimentare…Cioè purtroppo questa cosa non posso cambiarla, comunque hanno ragione…è la loro ultima fase della vita però appunto quello che possiamo dimostrargli è che possono continuare a vivere fino alla fine[…] io aiuto, gli mostro quello che può trovare, quello che gli posso offrire poi ovviamente è lui che sceglie, se rimanere o andare via…).

Nel raccontare le situazioni vissute con i loro pazienti le professioniste riportano quali tipi di occupazioni vengano scelti in prevalenza nel fine vita. Da un rapido esame delle cinque interviste, si arguisce che le occupazioni più spesso citate sono ascrivibili a tre specifiche aree occupazionali: la cura di sé, il tempo libero, la partecipazione sociale. Ognuna di queste tre aree può includere attività diverse ma simili nel condensare un certo significato simbolico.

Ad esempio, l’ambito della cura di sé viene considerato come capace di valorizzare in generale l’identità, la dignità e la personalità del singolo paziente. In quanto tale viene riscoperto da quei pazienti che sono desiderosi di occuparsi nuovamente del proprio aspetto, trascurato da lungo tempo a causa della malattia (Spesso la prima cosa che si fa è la ripresa di alcune piccole attività di vita quotidiana che può essere la piccola igiene personale, la cura estetica, in alcuni casi riprendere anche a vestirsi: persone che portano il pigiama da una vita, e…che l’ultimo vestito che hanno messo è un pigiama, una vestaglia, la camicia da notte. Invece noi cerchiamo di ridare anche dignità alla persona, la parte più esteriore, quindi torniamo proprio a vestirci: scegli cosa metterti la mattina, come vuoi vestirti, scegli se vuoi pettinarti, scegli se vuoi truccarti se sei una donna, se vuoi ritornare a farti la barba tutti i giorni se sei un uomo, quindi piccole cose che poi in realtà quando vengono perse da tanto tempo, diventano importanti, hanno un peso specifico importante), o a causa del sistema sanitario che da tempo li ha relegati al solo ruolo di malato, non proponendo la cura di certi aspetti della propria persona (Spesso sono proprio demoralizzati, un po' appunto è anche colpa, secondo me, del sistema sanitario, nel senso che sono veramente un po' abbandonati, come se uno che sta male, uno che ha una patologia così importante e deve curarsi non debba prendersi cura di altri aspetti della propria persona, non debba porre attenzione su queste cose, no…anche appunto molte donne: dico alle donne se vogliono ritruccarsi, ri-curarsi […] a volte sembra alle donne, alle signore una cosa incredibile perché mi dicono: <<ma come io sto male, che sto a pensare allo smalto?!>>. E’ una cosa, secondo me… per loro quasi un paradosso, sono abituate a pensare così perché le hanno abituate, secondo me, a pensare così. Invece piano, piano riescono, con grande sforzo mio, a capire che possono ancora fare tante cose […] Insomma dopo aver capito questo riescono un po' a sbloccarsi, ad essere più contente, a svegliarsi veramente più contente la mattina).

L’area occupazionale del tempo libero permea molti dei racconti di tutte e cinque le ergoterapiste. Esse riconoscono l’importanza fondamentale di queste attività nelle cure palliative poiché possiedono caratteristiche particolarmente motivanti, stimolanti e gratificanti per i pazienti. Una delle terapiste parla di queste attività come benefiche,

assunto confermato, a detta sua, dalla letteratura (E poi abbiamo capito […] questo anche grazie un po' a quello che ci dice la letteratura rispetto all’importanza di tornare a fare delle attività benefiche, benefiche per la persona, benefiche per l’espressione di sé, benefiche per il tono dell’umore, che siano anche motivanti, stimolanti, che facciano o no parte della storia occupazionale. Quindi cercare di capire se queste persone avevano per esempio delle attività di tempo libero perché io penso, sono sicurissima, in questi dieci anni ne ho avuto, più o meno, la conferma, che le attività più gratificanti dal punto di vista proprio della gratificazione personale, dell’espressione di sé spesso non vengono riscoperte nelle attività di vita quotidiana quanto nelle attività che fanno più parte del “leisure time”, del tempo libero). Molte delle occupazioni di quest’area sono di natura espressiva e artistica. Per esempio, una terapista ha scoperto attraverso ricerche ed il lavoro con i pazienti come lo strumento della poesia sia un aiuto per poter veicolare le emozioni della persona (Spesso, se uno chiede ad una persona che magari è più chiusa o comunque ha più resistenze, più difficoltà, <<come ti senti?>>, capace che quello ti dice <<bene>>: magari non apertamente ti parla delle proprie emozioni. Invece attraverso la poesia, appunto, stiamo facendo anche delle ricerche su Pubmed… così, magari, si riesce ad elaborare meglio quello che si sta vivendo, non in maniera così aperta come se tu gli facessi una domanda aperta, ma attraverso anche l’arte. Ci sono tantissimi studi su di questo, si riesce comunque ad affrontarla, però in maniera meno dolorosa…). Sempre lei parla di come l’utilizzo dell’attività teatrale l’abbia aiutata nel guidare una paziente ad elaborare il proprio vissuto personale senza dover ricorrere a domande dirette, offrendo invece la possibilità di sfogo emotivo e di apertura in maniera spontanea e partecipata (la cosa più bella è il teatro fatto sulla spontaneità, quindi è stata fantastica perché io ho visto degli esercizi per esempio di fare un cerchio e farglielo colorare, usare delle immagini e fargliele interpretare, delle immagini qualunque nel pc e farle dire <<secondo te, lui che vita ha vissuto? Lui chi è? Inventa la sua storia!>>. E attraverso queste cose, di per sé non sembrano personali del paziente, in realtà c’è tanto del paziente! Lei ci ha messo tutto il suo vissuto là! […] a volte devono trovare il canale giusto in quel caso lei si è aperta tantissimo, ha visto questa persona anziana, questo volto ha cominciato a piangere perché ha dovuto affrontare un lutto, passato, della mamma e quindi ci ha rivisto la sua mamma, gli occhi…quindi veramente ci ha messo tutto!). Come lei continua a spiegare, questo genere di attività simboleggiano in maniera profonda, senza tante parole, l’essenza della persona ed evidenziano la natura spirituale dell’attività (in realtà l’attività è molto…Ha un significato molto spirituale! Anche per esempio dipende un po' dall’attività che scegliamo… Comunque sia, veramente l’essenza della persona spesso sta in quell’attività! Nella scelta dell’attività, in tutto!): per esempio l’attività di giardinaggio, sempre lei constata, offre una meditazione sulle fasi della vita dell’essere umano che, fornendo cure quotidiane ad una pianta, diventa testimone del ciclo vitale, potendo ravvisarvi l’ordine naturale delle cose (Per esempio anche l’attività di giardinaggio, cioè quella più spirituale di così! Loro mettono la piantina nella terra, la piantina cresce, da’ dei frutti e poi la vedono morire, o comunque qualcuna muore, qualcuna no…Però comunque è un senso metaforico della vita! Tutte le attività. Perché alla fine veramente noi siamo quello che facciamo!). Un’altra ergoterapista ribadisce l’importanza che esse rivestono a livello spirituale e quanto il senso dell’attività scelta rispecchi il senso e il significato della propria vita (E quindi abbiamo scoperto, abbiamo un po', come dire, scoperchiato un “vaso di pandora” nel…nel capire quanto è importante capire cosa piace alle persone…dietro a tutte le attività che facciamo c’è un…un’impronta spirituale altissima, di senso della vita, di senso dell’attività, anche le attività più semplici). Inoltre, la creazione di un oggetto assurge a dono di sé agli altri (…ecco prima abbiamo incontrato

quella signora camminando: lei sta, lei completamente consapevole, sta facendo tutti oggetti di ceramica da lasciare a tutte le sue amiche, a tutti i suoi parenti, sta lasciando l’ultimo oggetto, cioè l’ultimo… come dire, l’ultimo “segno di sé su questa terra”, questo lei sta facendo…Poi lo fa attraverso un’attività pratica che è quella della lavorazione della ceramica, della pittura della ceramica ma che significato spirituale c’è dietro? E’ come una lettera d’addio è…Sta lasciando un senso di sé a tutti. Questa è una cosa che ritorna tantissimo, per esempio dietro alle attività creative, molti di loro, la maggior parte dei pazienti non si tiene l’oggetto che fa per sé ma lo destina per qualcosa, per qualcuno…il significato dietro no…) o a simbolo di sé, come spiega un’altra ergoterapista (l’ho fatto fare a una signora che mi era stata segnalata dalla psicologa, un po’ sola, un po’ tendente alla depressione, però che a casa era abituata a fare l’uncinetto, ma adesso che le mani non erano proprio più collaboranti, “prova a vedere se magari c’è qualcosa, sempre da fare con le mani, magari più semplice, comunque l’uncinetto è sottile…”. Allora sono entrata con un fiore già fatto in origami, gliel’ ho fatto vedere. Ha accettato, e so che poi quando è tornata a casa – perché per un periodo è riuscita a tornare a casa – prima di andar via mi fa: <<no, no, perché tanto ho già in mente il vaso dove mettere i fiori fatti>>. Per cui era stato uno stimolo per pensare al dopo, perché tanti si fermano lì sull’oggi). In tal senso il risultato di un’occupazione diventa ricordo, messaggio, segno di sé da lasciare a familiari, amici, ma anche agli operatori dell’hospice (lei ha raccontato tutto il percorso che ha fatto nella sua vita, tutte le soddisfazioni che ha avuto. Dopo di che ha ringraziato i figli, chi doveva ringraziare, ha ringraziato noi perché comunque lei si sentiva proprio in famiglia e si sentiva capita, non aveva nessun timore, si fidava di noi. E quindi questo video è stato bellissimo, cioè l’abbiamo visto tutti insieme poi noi operatori, l’abbiamo lasciato ovviamente ai familiari che è stato molto importante per loro, una cosa importantissima per dopo […] E poi dopo pochi giorni tra l’altro lei è morta…Quindi quello pure è stato bellissimo, una cosa molto bella[…] << ero già tranquilla, però questa cosa mi ha proprio aiutato a fare un bilancio, come se avessi fatto un riassunto di tutto quello che ho fatto, un bilancio…>>. E’ stata più serena dopo in realtà!). La possibilità di donarsi, lasciare un ricordo positivo, trasmettere un’eredità con il proprio modo di essere e di fare attraverso l’impegno messo in una occupazione significativa, ricopre un notevole significato per un’altra paziente (allora io con la volontaria andiamo. E lei: <<No, no, no! Oggi viene mio nipote, io devo preparagli la carbonara!>>. <<Va bene>> […] lei era lì e vedevi queste braccia che ormai erano solo ossa, girava questa pasta con tutta la forza che avesse, lei aveva una gioia nel fare quella pasta lì, che sembrava non so che stesse facendo, chissà che roba. Lei ha preparato questa pasta e l’ha mangiata. Questo il martedì; il… penso il venerdì o il sabato, lei è morta. Però lei quella pasta l’ha preparata! Con il guanciale e l’uovo che andavano ovunque, perché non aveva forze. Però lei l’ha fatta. […] “Come ha fatto a farla?”. Però lo stimolo di voler preparare qualcosa ancora per suo nipote, perché fino a poco tempo prima a casa ogni tanto lei l’aveva lì a mangiare, per cui quella era la sua quotidianità. E il fatto di averla fatta per lei è stato aver fatto ancora qualcosa per qualcun altro. Perché comunque, poi, la sua frase era stata: <<io lo faccio, però se lo mangia anche qualcun altro, oltre a noi>>). Concretizzare il tramandare, affinché non vada perso, può rappresentare un mezzo per accomiatarsi da un gruppo di persone con cui si è condiviso, mediante un’occupazione significativa, un pezzo di strada fatto insieme: una donna, per esempio, grata di questo, dona all’ergoterapista e a coloro che saranno i futuri partecipanti dell’atelier, i suoi libri di cucito (adesso mi è capitato una signora che sente che sta arrivando un po' alla fine, quindi è un po' nella fase di chiusura e quindi mi porta da casa, ogni volta arriva con dei libri…lei […]è una che lavora tanto a maglia, che poi ha novant’anni, […] e mi sta portando pian pianino le

cose che vuole lasciarci…che sa che poi, quando lei non ci sarà più, comunque rimarranno: anche le enciclopedie dei punti, tutte le riviste di maglia, di uncinetto…perché lei non riesce più a farli, è come lasciasse un pochino, un pezzettino…Insomma lei dice: <<io so che poi voi li userete, vi serviranno, potrete imparare delle cose che io ho fatto>>). Oppure la propria identità occupazionale può diventare strumento per tramettere un eredità di natura “professionale”: la storia del pittore che insegna alla sua ergoterapista la tecnica dell’acquerello è esemplificativa (gli propongo di insegnarmi le tecniche e di insegnarmi anche solo quali sono i materiali, quali erano i materiali che servivano per fare questo, questo tipo di attività perché per me l’acquarello è un pennello qualunque, un foglio, acqua e i colori, insomma, questo è, era la mia conoscenza…[pausa]. E ho aperto un mondo! [pausa]. Ho aperto un mondo perché lui da lì è come se avesse trovato qualcuno a cui lasciare qualcosa, a cui insegnare, a cui tramandare qualcosa. E da lì ha iniziato a raccontarmi i vari tipi di pennello, le punte dei pennelli, i tipi di carta, i tipi di colori, le sfumature di colore, quant’acqua…). Da ultimo, il frutto della propria occupazione si trasforma in lascito per costruire il futuro di altre persone nel caso dell’uomo che vende gli ultimi quadri realizzati, devolvendo il ricavato ad un’associazione che si occupa di bambini orfani