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Anche nei Paesi con una lunga tradizione democratica l’emancipazione femminile ha avuto un percorso lungo, tortuoso e, in alcuni casi, non ancora completamente

76 Patrizia Calefato, Mass moda. Linguaggio e immaginario del corpo rivestito, op. cit., p. 13. 77 Ivi, p. 23.

78 Fredric Jameson, Il postmodernismo o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989, p. 33.

realizzato. In passato in Inghilterra, Francia e negli stessi Stati Uniti d’America le donne delle classi medie e alte dovevano conformarsi alle norme culturali riguardo l’espressione di genere nell’abbigliamento e nell’aspetto fisico. I pantaloni, elemento chiave dell’abbigliamento alternativo, già nel XIX secolo vengono adottati dalle classi operaie, e solamente nel XX secolo superano il ruolo tabù di capo sovversivo trovando ampia diffusione nel guardaroba femminile. La stessa Coco Chanel tentò di far accettare l’inserimento dei pantaloni, tratto distintivo dell’abbigliamento maschile, negli outfit creati per le donne, ma con scarso successo. Questa tendenza a mascolinizzare il corpo per indebolire la netta differenza di genere trova nella condivisione di abiti maschili da parte delle donne una delle principali manifestazioni, generando una reazione per lo più negativa, per le varie implicazioni legate all’identità sessuale e alle conseguenze di un’eccessiva libertà che scardina dogmi secolari.

La visione della donna nel corso dei secoli è stata subordinata alla sua rappresentazione, a cui contribuisce in maniera importante anche l’abbigliamento.

Se nel XIX secolo il centro del fenomeno era costituito dal vestito in sé e dalla sua funzione pratica ma anche simbolica, nel XX secolo l’obiettivo della moda tende alla proiezione di immagini che attribuiscono ai capi un particolare significato e, come già sottolineato, al corpo vestito il ruolo di veicolo di messaggi. Il vestito su un corpo femminile costituisce un adattamento identitario, segna il confine tra interiorità ed esteriorità, essenza e apparenza, e ha un potere comunicativo nettamente maggiore rispetto al corpo maschile.

La donna è associata spontaneamente al mondo della moda per una sorta di predisposizione naturale del carattere femminile propenso al bello, al desiderio di novità, alla comodità, e, più profondamente, alla volontà di affermare una particolare condizione o rispecchiare un certo canone, fino a incarnare il simbolo di denuncia di una determinata situazione: nella storia delle donne, infatti, molto spesso l’abito ha assunto le fattezze di strumento di rivendicazione e la sua assenza è diventata sinonimo di protesta. Secondo Thorstein Veblen la moda risulta per le donne un mezzo di ostentazione della ricchezza del marito, mentre Georg Simmel, teorizzando il consumo compensatorio, vede nella moda un fattore rassicurante e promotore

dell’autorealizzazione femminile, di fronte a una società che tende ad escludere la donna dalla socialità.80

Una modifica radicale nel modo di concepire e usare l’abito e nel modo di rapportarsi ad esso si è verificata nel momento in cui la donna è entrata a far parte del mondo del lavoro, su grande scala, assicurandosi un’indipendenza e un potere d’acquisto che le hanno consentito di curare maggiormente il suo aspetto e la sua presenza, fino ad arrivare alla contemporanea esasperazione del culto del corpo e dell’apparenza.

La rappresentazione del corpo femminile e la sua influenza nella costruzione e gestione della femminilità è stata al centro del dibattito femminista per decenni, con un uso distintivo consapevole anche dell’abito, proprio perché, come ricorda Laura Bovone «la scelta di moda è un mezzo per riflettere su se stessi, per recuperare autonomia rispetto a un modello di sé ultrasocializzato cui dovrebbe corrispondere un abbigliamento ultrasocializzato»81.

In questo discorso è importante ricordare anche come le donne facciano moda non solo indossando gli abiti ma anche esprimendo la loro creatività attraverso la progettazione e la realizzazione delle collezioni. Le grandi stiliste del Novecento hanno dato una direzione ben precisa allo stile delle varie epoche, mettendosi in competizione con i colleghi uomini e forse, conoscendo meglio l’universo femminile, proponendo soluzioni e combinazioni valide e competitive.

Nella cultura postmoderna che sposa la società dell’immagine cedere alle regole della moda significa cedere al potere e aumentare la crisi identitaria provocata dalla moltitudine di modelli culturali proposti, nonostante la persistenza di un carattere distintivo dell’abito che, anche nella contemporaneità, conferma il suo ruolo caratterizzante nell’identità di genere.

Ana González82 sottolinea come le società più moderne e aperte abbiano omologato i ruoli sociali e li abbiano resi disponibili per gli uomini e le donne in proporzione più o meno uguale, sorpassando le società tradizionali e conservatrici, in cui la divisione dei

80 Cfr. Ann-Marie Sellerberg, “La moda”, in Baldini, Semiotica della moda, op. cit., pp. 35-50.

81 Laura Bovone, “Attraverso l’abito, l’identità”, in Laura Bovone, Lucia Ruggerone (a cura di), Che

genere di moda?, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.18

82 Cfr. Ana Marta González, “La pervasività socioculturale della moda e la sua relazione con l’identità. Un approccio filosofico”, in Bovone, Ruggerone, Che genere di moda?, op. cit., pp. 48-64.

ruoli e l’identità del singolo sottostavano a rigorose leggi discriminatorie che marcavano nettamente la coincidenza tra sesso e genere con un controllo del corpo femminile anche

nella sfera della cultura, [in cui] l’ideale di femminilità diventa sinonimo di fragilità e vulnerabilità e quindi costituisce una sorta di sublimazione dello stile di vita delle donne di status sociale elevato, costrette ad una vita sedentaria e inibite nei movimenti anche più piccoli dell’abbigliamento.83

Nonostante le rivendicazioni femminili nascano già nel corso del Seicento, si rafforzino, con successo, nell’Ottocento, è solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che il dibattito femminista prende vigore, anche grazie all’opera di Simone De Beauvoir, Le deuxiéme

Sexe (1949), che gioca un ruolo importante nella visione femminista della moda, prima e di Betty Friedan, The Feminie Mystique (1963) poi. Le prime correnti femministe, fermamente intenzionate a garantire l’uguaglianza tra uomini e donne, si scagliano contro il controllo della società patriarcale, fanno interagire la lotta di genere con la lotta di classe e valutano negativamente la moda, mero strumento di controllo delle società patriarcali sulla vita delle donne, che non possono esprimere la loro identità. Le femministe degli anni Settanta e Ottanta, orientate a far riconoscere, invece, la differenza esistente tra uomini e donne, facendo emergere i caratteri autenticamente femminili e valorizzandoli, vedono nella moda una naturale espressione dell’essere donna, una gratificazione e un piacere che conducono all’arricchimento emotivo e all’indipendenza del sé.84 Le varie correnti e ideologie che si vengono a creare in ambito femminista covano anche delle contraddizioni: la principale, come sostiene Lisette Rolón-Collazo85, è quella di proporre modelli e canoni in cui identificarsi che vanno ad opporsi a quelli egemonici combattuti ma che ricadono nella categorizzazione e nell’immobilità di una regolamentazione. I modelli contro cui si scagliano le femministe sono oltre alla casalinga, anche la donna oggetto e la cosiddetta superwoman. Di queste categorie esistono altrettanti abbigliamenti associati ad ognuna, che ricadono nuovamente nella stereotipizzazione e nella cancellazione di un’identità propria. Ad oggi la varietà proposta dal mercato della moda consente di personalizzare o modificare questi canoni, ma il pregiudizio alla vista di una minigonna rimane e si differenzia nelle varie culture, come ricorda Umberto Eco: una ragazza che indossa la mini a Catania è

83 Lucia Ruggerone, “Corpi di moda, corpi per la moda: vestiti tra soggettività e rappresentazione”, in Bovone, Ruggerone, Che genere di moda?, op. cit., p. 173. Le parole tra parentesi quadre sono mie. 84 Cfr. Ruggerone, “Corpi di moda, corpi per la moda: vestiti tra soggettività e rappresentazione”, art. cit. 85 Cfr. Lissette Rolón-Collazo, Figuraciones. Mujeres en Carmen Martín Gaite, revistas feministas y

una ragazza leggera, a Milano è una ragazza moderna, a Parigi è semplicemente una ragazza e ad Amburgo forse è un ragazzo.86

Da sempre l’abito è servito a nascondere o esaltare il corpo femminile, seguendo moti ed evoluzioni non solo dell’industria della moda ma anche della società e della cultura; vari stilisti, anche uomini, si sono immolati al servizio della causa femminista con un ritorno in termini di pubblicità e ricavi che giustifica l’azione: Yves Saint Laurent, tra gli altri, è il principale interprete della rivoluzione sessantottina con i suoi tailleur pantalone e il nude look. Ciavarella87 lancia però un monito in merito all’uso (o forse all’abuso) della moda come baluardo dell’emancipazione femminile, poiché essa è comunque un fenomeno economico controllato prevalentemente da un universo maschile in cui le donne fanno capolino ma non possono garantire un’equità di vedute. Il mercato moderno dell’abbigliamento è (sopra)vissuto proprio grazie ai messaggi di liberazione lanciati dalle campagne pubblicitarie di accessori e abiti legate al concetto di emancipazione femminile, agendo sulle coscienze e, sull’onda dell’entusiasmo, facendole ricadere nel meccanismo di controllo contro cui si erano scagliate, arrendendosi all’inevitabile strumentalizzazione delle idee alla base della critica femminista.

86 L’esempio è contenuto nel saggio “L’abito parla il monaco”, in Psicologia del vestire, op. cit. Rispetto alla valutazione di Eco è necessario collocare cronologicamente il testo, del 1972. L’esempio risulta d’impatto se pensiamo alla società degli anni Settanta, ma l’idea del pregiudizio legato all’abito in un determinato luogo o circoscritto ad una determinata visione del mondo rimane comunque un concetto molto attuale, senza tempo, in particolare se riferito al mondo femminile e alla visione della donna. 87 Michele Ciavarella, “L’inganno «femminista» della moda”, Il Manifesto, 7 giugno 2014.

Capitolo III