• Non ci sono risultati.

L’evoluzione della moda da significazione (abito che esprime l’estrazione sociale, la condizione economica, il genere o la professione di chi lo indossa) a comunicazione (abito come mezzo che mette in comunicazione l’io-corpo con il mondo), con la nascita di un “sistema moda” volto ad attirare o deviare l’attenzione dell’osservatore è paragonabile allo sviluppo della scrittura e del linguaggio verbale.

È possibile pensare la moda come un linguaggio, «congegno modellizzante specificamente umano, antecedente il bisogno comunicativo, e oggettivato in prodotti non solamente costituiti di segni verbali»57, specifico, visivo e non verbale, inserito in un discorso di norme e valori dominanti influito dai mutamenti socio-economici. La dimensione comunicativa della moda, che supera le barriere linguistiche, è oggetto di interesse della semiotica, scienza dei segni che ne studia la trasmissione e

56 Secondo Livolsi i giovani sono i massimi artefici delle trasformazioni dell’abbigliamento, siano esse rivoluzionarie o di totale integrazione. Il vestire si configura come uno degli elementi più celeri nella trasformazione degli stili di vita conseguenti alla messa in discussione e alla sostituzione dei modelli culturali operata solitamente dalle generazioni più giovani. Cfr. Marino Livolsi, “Moda, consumi e mondo giovanile”, in AA.VV., Psicologia del vestire, Milano, Bompiani, 1972, pp. 49-69.

l’interpretazione. Il segno è per definizione un’unità discreta di significato dotata della capacità di trasferire un contenuto a chi lo interpreta.58 Il carattere arbitrario del segno e la sua natura convenzionale gli consentono di sfuggire alla volontà, ma nel caso del segno-moda, come sottolinea De Saussure59, il sistema non è totalmente arbitrario, poiché sottomesso alle leggi del corpo umano e, come rileva Monneyron:

si presenta – allo stesso titolo della sessualità e dell’alimentazione – come un’attività fondamentale dell’essere umano, decisiva in tutti i processi di socializzazione, sembra anche sfuggire a ogni tentativo di razionalizzazione e, di conseguenza, derivare dall’ambito del simbolico e dell’immaginario.60

La natura frivola e moralmente ambigua dell’abbigliamento, si affianca, in un’apparente contraddizione, al linguaggio costituito dall’abito e al suo sistema di segni, come affermano Giannone e Calefato.61 Nell’introduzione “Abito e performance” al volume V del Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda le due studiose rilevano come la difficoltà di semiotizzare l’abbigliamento sia connessa alla rappresentazione del sé che esso denota. Già nella concezione rinascimentale dell’essere umano come produttore di segni si delinea la nuova dimensione mondana, sociale ed estetica della soggettività, che troverà poi la sua massima espressione nella concezione culturale postmoderna. Il vestito, già dal Cinquecento, come detto, si costituisce come strumento per la creazione di un’immagine pubblica per apparire nel mondo, per la spettacolarizzazione e la conseguente acquisizione della dimensione teatrale del sé, che consente di affrontare il calderoniano gran teatro del mundo che è la vita.

È proprio il segno a produrre il senso, in questo caso sociale dell’abito, parzialmente arbitrario poiché riconducibile alle convenzioni e agli stereotipi. L’abito si configura come parte di un sistema linguistico nel momento in cui si converte in testo e non si interpreta per il suo essere oggetto concreto ma per il senso che può far vedere, cioè, come ricorda Barthes, per la sua natura intellegibile.

58 Secondo C.S. Peirce il segno è il risultato della connessione tra veicolo segnico (segno), referente (oggetto) e interpretante (senso). In base alla relazione tra segno e oggetto Peirce classifica i segni in icone, indici e simboli, in cui vi è rispettivamente una totale, parziale o arbitraria corrispondenza tra significante e significato.

59 Cfr. Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1978. 60 Monneyron, Sociologia della moda, op. cit., p. 77.

61 Cfr. Antonella Giannone, Patrizia Calefato, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della

Grazie all’opera di Roland Barthes, e in particolare a Système de la mode (1967), che inaugura gli studi semiotici applicati all’abbigliamento, si giunge a «considerare un sistema semiologico (la Moda) nella misura in cui esso è “parlato”, un sistema di oggetti (gli indumenti) nella misura in cui essi sono convertiti in linguaggio»62. L’indumento non si identifica come una lingua ma assume un significato in virtù della lingua –con le sue unità distintive e significative– che in questo caso è costituita dalla moda.

I primi accenni alla connessione tra moda e linguaggio, anticipando la riflessione barthesiana, erano venuti da Ferdinand de Saussure, Pëtr Bogatyrëv, Nikolaj Trubeckoj e furono poi ripresi marginalmente negli anni Novanta anche da Jurij Lotman63, che includeva la moda tra i fenomeni culturalmente rilevanti dello sviluppo sociale:

Il regolare mutare della moda è contrassegno di una struttura sociale dinamica. Per di più, proprio la moda, con i suoi costanti epiteti “capricciosa”, “volubile”, “strana”, che sottolineano l’assenza di motivazione, l’apparente arbitrarietà del suo movimento, diviene una specie di metronomo dello sviluppo culturale.64

La lettura semiotica dell’abito di Bogatyrëv è interessante poiché rende «possibile mostrare come anche le funzioni pratica, magica, rituale, estetica, ecc. possano essere considerate come segni, possano cioè significare, per esempio, protezione, pudore, ornamento, oltre che in sé proteggere, coprire, adornare»65.

La riflessione di Umberto Eco, che inserisce la moda nel sistema delle convenzioni sociali, ampliando la visione barthesiana della moda circoscritta al linguaggio66, lega l’abbigliamento all’indice, «artificio inventato per comunicare qualcosa»67, sottolineando la fondamentale differenza tra la comunicazione, legata alle convenzioni, e l’espressione, processo istintivo e naturale. L’espressione può essere scissa in

62 Calefato, Nel linguaggio, op. cit., p. 62.

63 Gli scritti in cui si fa riferimento alla moda sono rispettivamente Corso di linguistica generale (1916),

Le funzioni dell’abbigliamento popolare nella Slovacchia morava (1937), Principi di fonologia (1939),

La cultura e l’esplosione (1993).

64 Jurij M. Lotman, La moda è sempre semiotica, in Massimo Baldini (a cura di), Semiotica della moda, Roma, Armando, 2005, pp. 129-132, anche in Jurij M. Lotman, La cultura e l’esplosione, trad. it. di Caterina Valentino, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 102-105.

65 Calefato, Nel linguaggio, op. cit., pp. 65-66.

66 Il saggio di Roland Barthes Système de la Mode è uno studio analitico strutturale della moda nelle riviste femminili; il corpus dell’analisi include i numeri di Elle e Jardines de Modes dal giugno 1958 al giugno 1959; Barthes attinge anche a Vogue e a Echo de la Mode e ad alcune pagine presenti su altri quotidiani. La scelta di analizzare il linguaggio della Moda basandosi solo sulle riviste specializzate è giustificata dal fatto che le descrizioni letterarie, secondo il semiologo francese, risultano frammentate e variabili diacronicamente, mentre quelle dei cataloghi di vendita per corrispondenza vengono inglobate dalle descrizioni della moda.

momenti discreti, analizzabili e articolabili attraverso la lingua codificata e convenzionale che si struttura come un sistema retto da leggi e soggetto a variazioni culturali. Analizzando i vari livelli comunicativi presi in esame dalla cinesica, Eco include anche la moda nei relativi sistemi e classifica l’abbigliamento come linguaggio visivo articolato. Rispetto a Barthes, che analizza il linguaggio verbale descrivente la moda, Eco la intende come linguaggio culturale visivo articolato i cui oggetti funzionali, gli abiti, sono veri e propri segni, che perdendo la loro funzione concreta possono innanzitutto trasferire un messaggio. L’esempio del semiologo piemontese è semplice ma efficace: l’uomo primitivo utilizzava la pelliccia per coprirsi, la signora dell’epoca contemporanea la indossa per manifestare uno status. I codici e le convenzioni che ruotano attorno all’abbigliamento sono per la maggior parte deboli, poiché si modificano con rapidità e sono spesso vincolati al momento e al messaggio trasmesso. La scelta di un abito è un atto dal forte potenziale comunicativo non sempre consapevole e può, come già detto, variare a seconda del contesto in cui si inserisce e della volontà del “parlante”, in una costante oscillazione tra diversificazione e omologazione, che rappresentano le due direttrici su cui si sviluppa l’evoluzione del sistema moda. Anche Simmel sottolinea il dualismo come elemento fondante della vicenda umana che si basa su imitazione e singolarità:

La prima è esponente dell’universale, dell’unità, dell’uguaglianza placata di forma e contenuto, la seconda genera la mobilità, la molteplicità di elementi separati, l’inquietante evoluzione da un contenuto di vita individuale all’altro. Ogni forma essenziale di vita nella storia della nostra specie rappresenta nel proprio ambito un modo particolare di unire l’interesse alla durata, all’unità, all’uguaglianza con la tendenza al cambiamento, al particolare, al caso unico.68

Nella moda Georg Simmel ritrova la fusione di queste due componenti che permettono di attuare l’emulazione di modelli adattando l’universale al particolare, consentendo, nello stesso tempo, al singolo di diversificarsi e di soddisfare il suo bisogno di originalità. L’astrattezza e la totale assenza di praticità nella maggior parte delle manifestazioni della moda la rendono una mera espressione transitoria dell’evoluzione del gusto. Condivide questa opinione anche Volli69, classificandola come il tempo e il modo del cambiamento. L’aspra critica del semiologo italiano nel considerare la moda

68 Simmel, La moda, op. cit., p. 12.

69 Cfr. Ugo Volli, “Semiotica della moda e dell’abbigliamento”, in Baldini, Semiotica della moda, op. cit., pp. 186-195, anche in Ugo Volli, Block modes. Il linguaggio del corpo e della moda, Milano, Lupetti, 1998, pp. 113-125.

come elemento semioticamente rilevante dipende dalla natura puramente diacronica del fenomeno, che vive nel tempo e non può essere analizzato, a differenza della lingua, in uno stato sincronico. L’obiettivo del carattere significante della moda non è la comprensione ma il suo esatto contrario, proprio perché vi è un’incompatibilità tra la natura diacronica della moda e le regole semiotiche; il parlante di moda crea informazioni totalmente nuove che non sottostanno a nessun codice già definito e regolamentato, pertanto risultano incomprensibili. Può essere dunque l’abbigliamento come sistema di oggetti ad aspirare alla comunicazione: in questo senso Volli propone un parallelismo tra il sistema della lingua e il sistema dell’abbigliamento, in cui le collezioni di moda sono le possibili codificazioni del sistema (testi), il dizionario del “parlante” di moda è il guardaroba, che raccoglie determinati elementi scelti per i vari contesti di utilizzo, l’abbigliamento indossato per un certo evento è, infine, il singolo enunciato della lingua del vestire.

Secondo Fred Davis, che sposa la teoria di Eco, la moda è classificabile come codice, «legame vincolante nell’insieme condiviso delle conoscenze che costituiscono una sfera di discorso e, di qui, i relativi adattamenti sociali»70, o meglio, come incipiente, cioè quasi-codice, poiché meno semantico rispetto al linguaggio verbale, di cui quello del vestire può essere considerato metafora. Il codice moda è fortemente dipendente dal contesto, ha un alto grado di variabilità sociale, anche se non è esclusivamente vincolato alla gerarchia, è soggetto alla supposizione o deduzione, anche errata, nel caso di assenza di regole fisse di interpretazione, essendo il rapporto tra significante e significato instabile. Nel caso della moda recente, dagli anni Novanta in poi, Baldini sottolinea come la moda sia

un codice che non è iper-codificato, ma ipo-codificato, un codice che dà vita ad un sistema sfumato di segni dove impercettibili sfumature del significante possono dar luogo a rilevanti scarti nell’universo semantico.71

Riguardo un’altra tendenza degli ultimi vent’anni, quella dei messaggi verbali stampati sui capi, in particolare sulle T-shirt, Alison Lurie, rileva l’influenza dei riferimenti grafici che vanno a sovrapporsi al linguaggio simbolico dell’abito, modificandolo.72

70 Fred Davis, “I vestiti parlano?”, in Baldini, Semiotica della moda, op. cit., pp. 176-185, anche in Fred Davis, Moda. Cultura, identità, linguaggio, op. cit., pp. 3-17.

71 Belfanti, Civiltà della moda, op. cit., p. 22.

72 Cfr. Alison Lurie, El lenguaje de la moda, Barcelona–Buenos Aires–México, Paidós, 2013, pp. 232-233.

È fondamentale osservare, nell’ambito espressivo del sistema moda, l’importanza del corpo, senza il quale la moda non potrebbe esprimersi ed esaurire la sua funzione comunicativa. È il corpo vestito a identificare il soggetto socialmente, psicologicamente ed esteticamente. Nella storia evolutiva della moda l’apogeo del ruolo del corpo è, senza dubbio, l’epoca postmoderna, come sottolinea Alfonso López: «un concepto que marcó el inicio de la moda en la década [de los Ochenta] fue el culto al cuerpo»73. L’abito diventa la maschera che fa apparire il soggetto come corpo, attraverso cui si relaziona con lo spazio circostante. Il corpo, prima ritenuto la sede dell’anima, all’epoca di Foucault, come sottolinea Romitelli, «è una sede decisiva del Potere»74. In tal senso il corpo acquisisce una dimensione culturale, rilevata da Joanne Entwistle in The dressed

body, e come ricorda Colaiacono:

L’attenzione puntata sulla reazione emotiva fra abito e corpo – forse la connotazione attualmente più interessante degli studi sulle culture della moda – esplora e rivitalizza il rapporto tra moda e arti, moda e realtà virtuale, moda e tecnologie, moda e biotecnologie. L’interesse per il corpo come fatto culturale […] ha evidenziato il nesso corpo-abito come dato antropologico primario. Oggetto di studio è così diventato il “corpo rivestito”, unitariamente interpretato […]. L’abito lavora su un corpo a sua volta lavorato da una sempre più stringente beauty culture, e il confine tra i due è tutt’altro che netto.75

Già ad inizio Novecento, con l’avvento del Futurismo marinettiano, anche nell’ambito del vestire si sottolineano senza falsi pudori la ludicità e la futilità dell’abito, come puro divertimento, e l’assoluta importanza che il corpo riveste nella rappresentazione che si attua vestendosi, partecipando al processo di modernizzazione della relazione con se stessi e con gli altri che può essere filtrata attraverso l’abito. L’ambiguità, già da allora, ha di fatto scardinato i limiti di genere e l’artificio si è elevato ad essenza del nuovo secolo. In tal senso, attraverso la creazione dei manichini, si consente al corpo di raggiungere la massima astrazione possibile, seguendo l’omologazione, che unita all’individualizzazione costituisce l’ambiguità dicotomica di tale sistema, in cui il corpo

73 Javier Alfonso López, “Breves apuntes sobre la historia del vestuario”, Zona, 5, 2008, p. 106. Le parole tra parentesi quadre sono mie.

74 Valerio Romitelli, “Potere senza corpo e corpi senza potere: ricordando Foucault”, in Claudia Pancino (a cura di), Corpi, Venezia, Marsilio, 2000, p. 167.

75 Paola Colaiacono, “A proposito delle culture della moda”, in Catricalà, Per filo e per segno. Scritture

è concepito come «performance, cioè come costruzione sempre aperta dell’identità materiale, come dimensione mondana della soggettività»76.

L’importanza della rappresentazione, teorizzata da Foucault, trasforma il corpo rivestito in oggetto semiotico, che esprime la sua libertà nel non fissarsi entro dati parametri sociali e gerarchici e nella possibile relazione con gli altri corpi.

La reificazione alla base della visione del mondo postmoderna, fa sì che il corpo vestito perda l’essenza spirituale che lo caratterizza per trasformarsi in mero oggetto-feticcio da ammirare ed esibire. L’ibridazione e la parodia sono i Leitmotiv dell’arte postmoderna, che si trasferiscono anche alla moda:

Tra i luoghi maggiormente produttivi di “trasformazioni” stilistiche vi è senza dubbio il corpo nella sua accezione grottesca di “corpo rivestito”, in cui il rivestimento è protuberanza, seconda pelle parodica, carnevalesca, apertura e non delimitazione o confine.77

Nella cultura del simulacro e dell’immagine il corpo vestito rappresenta l’espressione del sé, superficialità, anonimato, e di conseguenza falsità e menzogna, riflettendo la frammentazione del soggetto e l’allontanamento del corpo dall’anima in un perentorio disorientamento esistenziale. Per Jameson il postmoderno segna «la fine dello stile, nel senso di uno stile unico e personale, la fine di un tocco individuale e distintivo»78 in favore di una sterile omologazione e della feticizzazione contemporanea del corpo umano.

L’eterno presente in cui vive la moda subisce una crisi e la cultura guarda al passato, «all’imitazione di stili morti, a un eloquio costituito da tutte le maschere e voci immagazzinate nel museo immaginario di una cultura divenuta globale»79 in cui anche la moda è schiava delle citazioni del passato e non può più inventare nulla di nuovo, solo tentare di riproporre discorsi già fatti attribuendo loro dei nuovi significati.