La responsabilità dell’Ente
3.3. Accertamento della responsabilità dell’ente.
L’art. 300 del d.lgs 81/08, riprendendo quanto già previsto dalla L. 123/07, ha esteso la normativa di cui al d.lgs 231/01 alla materia della sicurezza, attraverso l’inserimento dell’art. 25 septies. Per effetto di quest’ultima norma i delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi o gravissime, conseguenza della violazione delle norme sulla sicurezza, vanno ad aggiungersi alle fattispecie di responsabilità amministrativa di enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone con funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dello stesso o di una sua unità organizzativa; nonché, da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente; da persone soggette alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti suddetti.
Nel caso siano commessi, un omicidio o una lesione personale grave o gravissima, a seguito della violazione delle norme antinfortunistiche e sull’igiene e la salute sul lavoro, gli enti sono puniti con una sanzione
pecuniaria e nel caso di condanna, anche con una sanzione interdittiva(264).
La fase di accertamento della responsabilità dell’ente, in ragione della parificazione della sua condizione a quella dell’imputato, è soggetta alle norme di procedure penale.
La partecipazione dell’ente al processo avviene attraverso una persona fisica che lo rappresenta, le cui generalità sono indicate nella dichiarazione di costituzione, di cui all’art. 39, d.lgs 231/2001, insieme a quelle del difensore, alla denominazione dell’ente, alla dichiarazione o all’elezione di domicilio. Non può partecipare al procedimento il rappresentante legale che sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo con, in tal caso, l’obbligo di nomina di un rappresentante da parte dell’ente, da indicare nella dichiarazione di costituzione; né può essere assunto come testimone, come anche le persone imputate del reato.
(264) Il D.lgs 8 giugno 2001, n. 231.
Una differenza tra la condizione dell’ente e dell’imputato è prevista nel caso in cui il rappresentante legale regolarmente costituito non si presenta al processo, poiché non si verifica né un’ipotesi di contumacia (esclusa dalla regolare costituzione); né di assenza, poiché l’art. 39, idem, prevede che l’ente sia rappresentato dal difensore.
Quanto alle vicende modificative che l’ente può subire nel corso del procedimento, l’art. 42, idem, prevede la continuazione del processo nei confronti di quello o quelli risultanti dalle modifiche.
La procedibilità dell’azione di accertamento dell’illecito amministrativo a carico dell’ente è correlata alla procedibilità dell’azione penale: se l’una è procedibile lo è anche l’altra e viceversa, in ossequio alla relazione tra illecito penale e illecito amministrativo.
La competenza per l’accertamento degli illeciti amministrativi imputabili all’ente è propria del giudice penale competente per i reati da cui deriva l’illecito amministrativo.
Di norma il processo nei confronti dell’ente deve rimanere riunito al processo penale nei confronti dell’autore del reato, salvo essere separato se è stata ordinata la sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato
ex art. 71 c.p.p.; se il procedimento nei confronti dell’autore del reato è stato
definito con il processo abbreviato o con applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., ovvero se è stato emesso decreto penale di condanna; se lo impone l’osservanza delle disposizioni processuali.
Su richiesta del pubblico ministero, il giudice che procede o, in fase di indagini, quello delle indagini preliminari, può disporre l’applicazione, come misure cautelari, di sanzioni interdittive stabilite all’art. 9 del d.lgs 231/01. Sono tali: l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi, ovvero l’eventuale revoca di quelli già concessi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
L’applicazione di misure cautelari richiede l’esistenza di gravi indizi sulla responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo, nonché di elementi di
pericolo concreto inerente la commissione di illeciti della stessa natura di quello per cui si procede.
Il giudizio sulla gravità degli indizi deve essere riferito all’illecito amministrativo e questi debbono ritenersi sussistenti se lasciano desumere
con elevato grado di probabilità l’attribuibilità del reato all’indagato (265).
Invece, secondo la relazione ministeriale, gli elementi di pericolo sussistono e sono fondati e specifici, in presenza di una “probabilità effettiva e attuale
riscontrata attraverso elementi oggettivi e specifici”, circa la commissione
di illeciti, si pensi in via esemplificativa, alla condotta recidivante.
Il Giudice, accertati questi presupposti, valuta l’applicabilità della misura cautelare in base ai criteri di idoneità, proporzione e adeguatezza. Deve cioè stabilire la specifica funzionalità della misura richiesta a scongiurare i pericoli nel caso concreto; la proporzione tra il fatto contestato e la sanzione applicabile all’ente in via definitiva. Al criterio dell’adeguatezza si deve invece ricorrere con riferimento all’interdizione dell’esercizio dell’attività. Questa misura, per la sua gravità, deve considerarsi adeguata solo qualora ogni altra misura risulti inadeguata.
La richiesta di applicazione della misura cautelare avviene di regola in udienza.
Qualora, invece, è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all’ente e ai difensori, a garanzia del contraddittorio.
Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza, che il pubblico ministero deve notificare all’ente e nella quale sono specificati tempi e modalità di applicazione della misura interdittiva.
In alternativa alla decisione, il giudice può nominare un commissario giudiziale per un periodo pari alla durata della sanzione applicabile in via cautelare, definendone i compiti e i poteri.
Tuttavia, l’art. 17, d.lgs 231 del 2001 prevede la possibilità di sospendere le misure cautelari, se l’ente chiede di poter adempiere determinate condotte riparatorie che consistono nel risarcimento integrale del danno, nell’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, nell’adozione di
modelli idonei a eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato, nella messa a disposizione, ai fini della confisca, del profitto conseguito.
La sospensione della misura cautelare è accompagnata dalla determinazione di una cauzione, che sarà restituita in caso di esatto adempimento delle condotte riparatorie, nel termine stabilito nell’ordinanza. La restituzione è disposta con la revoca della misura cautelare e, in caso di iscrizione di ipoteca, con la sua cancellazione e con l’estinzione della fideiussione prestata.
Viceversa, se le condotte riparatorie non sono regolarmente eseguite nel termine indicato dal giudice, la misura cautelare è ripristinata e la cauzione prestata dall’ente è devoluta alla Cassa delle ammende.
Le sanzioni interdittive sono disciplinate all’art. 9, d.lgs 231/01, insieme alle altre previste per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, quali la sanzione pecuniaria, la confisca e la pubblicazione della sentenza.
Un tale apparato sanzionatorio previsto per le ipotesi di omicidio colposo e di lesioni gravi o gravissime, commesse con violazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro, da parte di soggetti operanti al loro interno, è stato modificato dall’art. 300 del Testo Unico.
A seguito di tali modifiche, per le persone giuridiche è prevista una sanzione pecuniaria pari a 1000 quote, mentre le sanzioni interdittive di cui all’art- 9, comma 2, d.lgs n. 231, hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad una anno.
Invece, in relazione al delitto di cui all’art. 589, comma 3 c.p., commesso con violazione delle norme sulla tutela e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria non superiore a 250 quote (art. 300, comma 3, Testo Unico).
È di tutta evidenza come la combinazione tra le sanzioni pecuniarie e quelle interdittive, possa rappresentare una prospettiva molto pesante per l’ azienda. Si pensi che in caso di lesioni colposi gravi o gravissime, conseguenti alla mancata applicazione di una norma antinfortunistica da parte di un preposto, l’azienda potrebbe essere chiamata a pagare un massimo di 1.548.000 euro di sanzione pecuniaria (mille quote) e potrebbe incorrere nell’interdizione
dell’esercizio dell’attività per un minimo di tre mesi e un massimo di un anno.
In questa prospettiva l’adozione di un modello organizzativo, conforme al d.lgs 231/01, rappresenta l’unica via di uscita, perché in grado di garantire una tutela effettiva qualora si verifichino violazioni delle norme sulla sicurezza che scaturiscono in omicidi colposi o lesioni gravi o gravissimi (266).
Il processo sanzionatorio previsto l’inosservanza dei doveri di sicurezza, da cui possono derivare eventi lesivi dell’incolumità dei lavoratori, ha natura complessa, poiché ricomprende una molteplicità di fasi:
I. l’organizzazione dell’attività di vigilanza; l’attività investigativa e l’accertamento degli illeciti penali ed amministrativi;
II. l’applicazione delle pene e delle sanzioni stabilite dalla legge; la procedura di estinzione agevolata delle misure sanzionatorie e degli illeciti.
L’organizzazione dell’attività di vigilanza consiste nella definizione di programmi e indirizzi operativi e compete ad appositi organismi nazionali e territoriali come il “Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche
attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro”, i “Comitati regionali di coordinamento”,
in ogni regione e provincia autonoma, gli “uffici operativi”, costituiti a livello territoriale dai rappresentanti degli organi di vigilanza competenti in materia.
Segue l’attività di vigilanza che si compie attraverso l’accesso nelle aziende da parte degli organi amministrativi competenti, quali le aziende sanitarie locali e le direzioni provinciali del lavoro, ai quali spetta procedere ad apposita verbalizzazione.
Con il verbale di primo accesso ispettivo, introdotto dall’art. 143 del d.lgs n. 106/09, si procede alla contestazione delle violazioni amministrative previste dalla legge e degli illeciti penali.
Le prime possono non essere contestate, se l’indagine svolta non consente di raggiungere la certezza circa la presenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie.
In questo caso, si può procedere alla notificazione dell’illecito entro novanta giorni.
Per quanto riguarda gli illeciti penali, invece, se si tratta di contravvenzioni, spetta agli organi ispettivi, quali ufficiali di polizia giudiziaria, valutare il tipo di pena prevista dal legislatore; se cioè si tratta della sola pena dell’arresto, di quella dell’ammenda o della pena alternativa dell’arresto o
dell’ammenda (267).
L’applicazione dell’art. 25 septies, d.lgs n. 231/01, introdotto dall’art. 9, l. n. 123/07, sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche è subordinata all’accertamento di eventi lesivi dell’incolumità delle persone, per effetto dell’inosservanza dei doveri di sicurezza.
È, infatti, in relazione ai delitti di omicidio colposo ex art. 589 c.p. e lesioni colpose ex art. 590 c.p., che trovano applicazione nei confronti dell’ente le sanzioni pecuniarie e interdittive di cui all’art. 9, d.lgs 231/01, salvo prodursi l’efficacia esimente dell’adozione del modello di organizzazione e gestione
della sicurezza (268).
(267) P. RAUSEI, Illeciti e sanzioni, il diritto sanzionatorio del lavoro, IPSOA, 2011, pp. 959-960.
(268) MANCINI G., Decreto legislativo 81/09 e sistemi di gestione della sicurezza sul lavoro (SGSL): aspetti salienti e caratteristiche innovative, in Sicurezza nel lavoro. Colpa di organizzazione e impresa, a cura di F. CURI, Bologna, 2009, pp. 29-31.
CONCLUSIONI
Il modello di organizzazione e di gestione previsto all’art. 30, T.U. 81/08 risponde all’esigenza di garantire uno strumento di efficacia esimente della responsabilità amministrativa degli enti e si colloca nella prospettiva della programmazione della sicurezza. A questa si è giunti attraverso un’evoluzione normativa che ha preso le mosse dal superamento dei limiti della legislazione codicistica del 1942 e di quella degli anni 50. L’art. 2087 c.c. infatti, in quanto tradizionalmente inteso come la summa dei principi essenziali in materia di sicurezza del lavoro, per la sua ampiezza risultava inadeguato a fornire un quadro precettivo sufficiente a disciplinare la molteplicità delle attività lavorative e dei rischi conseguenti alle stesse, in tema di sicurezza del lavoro. A rimanere insoddisfatte erano le esigenze di predisposizione di misure di prevenzione degli specifici rischi di infortunio o malattia professionale. Si rendeva cioè necessaria un’adeguata regolamentazione delle modalità di esecuzione delle prestazioni pericolose, che consentisse di specificare, anche sotto l’aspetto tecnico, il generico obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. .
È su queste premesse e in conseguenza dell’evoluzione dell’industria e delle attività produttive, nonché dell’aumento del peso sociale delle istanze sindacali dei lavoratori, che si è giunti agli interventi legislativi degli anni cinquanta (269).
Si tratta di una legislazione speciale contenente norme di settore, che ha specificato tale obbligo sotto il profilo oggettivo e soggettivo, cioè per quanto riguarda il suo contenuto e la sfera dei suoi destinatari che è stata ampliata, allo scopo di coinvolgere tutti i soggetti interessati all’attività di impresa nell’attuazione delle misure di prevenzione.
Vengono, infatti, coinvolti anche i lavoratori, oltre ai datori di lavoro, dirigenti e preposti; alla nuova disciplina vengono assoggettate tutte le
(269) L. FANTINI – A. GIULIANI, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 2011, p. 3.
attività industriali, agricole e commerciali alle quali sono addetti i lavoratori subordinati o ad essi equiparati; in particolare l’obbligo d sicurezza viene riferito anche ai costruttori di macchine, attrezzature e impianti.
La legislazione speciale degli anni cinquanta aveva però il limite di essere rigida e particolareggiata, dunque legata al momento storico in cui era stata emanata.
Ciò rendeva difficoltoso l’adattamento delle misure di prevenzione da essa predisposte al sempre più veloce processo di evoluzione delle tecnologie, così da divenire nel tempo obsolete.
A ciò si aggiungano le difficoltà applicative conseguenti all’imponente mole di disposizioni specifiche e l’assenza di un sistema regolatorio che consentisse di progettare e programmare la sicurezza. Piuttosto quello predisposto dalla legislazione degli anni cinquanta era un sistema prevenzionale rigidamente programmato, perché contenente una serie di prescrizioni tecniche dettate una volta per tutte. In quanto tale questo non era in grado di adeguarsi al singolo ambiente di lavoro che presentava,
inevitabilmente, caratteristiche specifiche e fattori di rischio peculiari. 270
Infine, la disciplina contenuta nei d.p.r. degli anni cinquanta non coinvolgeva i lavoratori nelle attività aziendali di programmazione e gestione della prevenzione, considerandoli piuttosto come meri beneficiari della normativa di salute e sicurezza.
In risposta questa esigenza di programmazione, che la normativa degli anni 50 lasciava insoddisfatta, viene approvato il d.lgs 626 del 1994.
Quest’ultimo considera sistematicamente sia i rischi specifici che quelli generali attraverso la conoscenza dell’insieme di questi, piuttosto che
valutarli autonomamente (271), coinvolge tutti soggetti operanti nell’impresa,
garantendo un’azione coordinata tra datore di lavoro e lavoratori, enfatizza gli aspetti procedurali, attraverso la loro articolazione in una serie di formalità.
Si tratta di una sequenza di sotto-adempimenti funzionale all’adempimento dell’obbligo principale di sicurezza, come l’elaborazione di una relazione
(270) P. SOPRANI, Sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro, Milano, 2001. (271) G. DE FALCO, Sicurezza sul lavoro,Roma, 1999, p. 20
sulla valutazione dei rischi per la sicurezza, contenente l’indicazione dei criteri da seguire; l’individuazione delle misure di prevenzione e di protezione; la riunione periodica di prevenzione e protezione dei rischi, indetta almeno una volta all’anno nelle aziende che occupano più di quindici dipendenti. A provvedervi è il datore di lavoro direttamente o per il tramite del servizio di prevenzione, allo scopo di esaminare il documento di valutazione dei rischi, oltre che l’idoneità dei mezzi di protezione individuale ed i programmi di informazione e formazione dei lavoratori. Ben presto anche questa regolamentazione della materia della sicurezza si è rivelata insoddisfacente, per la sua notevole complessità e per il fatto di
essere strutturata essenzialmente sul modello della grande impresa(272).
Negli anni successivi all’approvazione del d.lgs n. 626 del 1994, nel nostro Paese si è così sviluppato un dibattito politico e giuridico in materia di salute e sicurezza del lavoro, che è sfociato nell’emanazione del d.lgs 19 marzo 1996, n. 242. Questo ha chiarito taluni aspetti obiettivamente incerti e ha introdotto deroghe e regimi semplificati per l’attuazione degli obblighi di prevenzione, da parte di specifiche categorie soggettive.
Il quadro normativo è stato poi completato con l’approvazione di decreti che hanno delineato la disciplina propria di settori specifici, pur in coerenza con il modello di sicurezza delineato dal d.lgs n. 624 del 1994. Il risultato è stato un quadro normativo frammentario, per il numero elevato di disposizioni contenute in un insieme di provvedimenti normativi diversi.
Si è così resa così necessaria l’emanazione di un testo unico della materia che snellisse la normativa già esistente e precludesse la possibilità di
contrasto. In questa logica di sistemazione e razionalizzazione (273), è stato
approvato il Testo Unico n. 81/08 che ha messo in atto un’operazione di riorganizzazione e rivisitazione della normativa di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, attraverso l’armonizzazione di tutte le leggi vigenti in una logica unitaria e innovativa.
È dentro questa evoluzione normativa che si collocano i modelli organizzativi e di gestione di cui all’art. 30, idem, la cui efficacia esimente
(272) Relazione illustrativa della legge 3 agosto 2007, n. 123. (273) G. DE FALCO, Sicurezza sul lavoro, Roma, 1999, , p. 21.
ha il suo presupposto nel superamento del dogma della scienza penalistica italiana “societas delinquere non potest”.
Con il sopravanzare della criminalità d’impresa in modo predominante rispetto a quella delle persone fisiche, infatti, si è resa sempre più incalzante la necessità di prevedere una diretta ed autonoma responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse o vantaggio, da soggetti aventi un
nesso funzionale con questi (274).
A ciò si è giunti sotto la pressione internazionale, per effetto della ricezione di atti e regolamenti internazionali, quali la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione, stipulata a Parigi il 17.12.1977 e la Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità Europee del 19.6.1977.
Per contrastare la criminalità di impresa, l’art. 300 del d.lgs 81/08, riprendendo quanto già previsto dalla L. 123/07, ha esteso la normativa di cui al d.lgs 231/01 alla materia della sicurezza, attraverso l’inserimento dell’art. 25 septies. Per effetto di quest’ultima norma i delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi o gravissime, conseguenza della violazione delle norme sulla sicurezza, vanno ad aggiungersi alle fattispecie di responsabilità amministrativa di enti con o senza personalità giuridica. Con la legge delega n. 300/2000 e il D.lgs n. 231/2000 sono state, infatti, previste disposizioni sanzionatorie direttamente per tali enti.
Nel caso siano commessi un omicidio o una lesione personale grave o gravissima, a seguito della violazione delle norme antinfortunistiche e sull’igiene e la salute sul lavoro, gli enti sono puniti con una sanzione
pecuniaria e nel caso di condanna, anche con una sanzione interdittiva (275).
Perché si configuri la responsabilità dell’ente, i reati devono essere commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone con funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dello stesso o di una sua unità organizzativa; nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente; da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti suddetti.
(274) D. CEGLIE, Infortuni sul lavoro e responsabilità delle persone giuridiche, in Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro, (a cura di) M. PERSIANI, UTET Giuridica 2009.
A seconda che del reato sia responsabile un soggetto in posizione apicale o subordinata, cambia la disciplina della responsabilità dell’ente, poiché la sua efficacia è chiaramente diversa in base al ruolo assolto dal reo nel contesto organizzativo dell’ente.
Nel caso in cui il responsabile si trovi in posizione apicale, affinché l’ente vada esente da responsabilità, è necessario che il modello di organizzazione sia preventivamente adottato, efficacemente attuato e fraudolentemente eluso dalla persona responsabile, all’atto della commissione di taluno dei reati presupposti.
È inoltre necessario che sia stato creato l’organismo di controllo, incaricato della vigilanza sul funzionamento, sull’osservanza e sull’aggiornamento del documento e che questo non abbia esercitato la sua funzione negligentemente in relazione al fatto di reato.
Il superamento del dogma “societas delinquere non potest” che dell’esenzione da responsabilità dell’ente è il presupposto, affonda le sue radici nella teoria della finzione e nell’interpretazione restrittiva dell’art. 27, primo comma della Costituzione, secondo cui la responsabilità penale è personale, per cui solo l’uomo ha sia la capacità giuridica che di agire e, dunque è penalmente responsabile. Si tratta di un’interpretazione fondata su di una concezione etica e psicologica della colpevolezza, in base alla quale questa può sussistere in relazione a specifici fattori fisici, psicologici e psichici che, evidentemente, possono essere riscontrati solo in capo a persone fisiche. La persona giuridica invece, agendo tramite rappresentanti, dovrebbe essere ritenuta una finzione giuridica e pertanto incapace di
commettere reati (276).
A sostegno della tesi la Corte Costituzionale con la sentenza 368/1988 ha