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La natura della responsabilità dell’ente.

La responsabilità dell’Ente

3.1. La natura della responsabilità dell’ente.

Il sopravanzare della criminalità d’impresa in modo predominante rispetto a quella delle persone fisiche ha reso sempre più incalzante la necessità di prevedere una diretta ed autonoma responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse o vantaggio, da soggetti aventi un nesso

funzionale con questi (189).

A ciò si è giunti sotto la pressione internazionale, per effetto della ricezione di atti e regolamenti internazionali, quali la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione, stipulata a Parigi il 17.12.1977 e la Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità Europee del 19.6.1977.

La scarsa propensione etica delle organizzazioni internazionali emerge con evidenza da una ricerca dell’Eurispess, secondo la quale il fatturato

dell’illegalità d’impresa in Italia ammonta a 170 miliardi di euro (190).

Colpiscono nella citata indagine le cifre relative alle così dette “Ecomafie” ed “Agromafie”, cioè i crimini ambientali ed agroalimentari che producono utili ammontanti a circa 30 miliardi di euro. Si pensi in via esemplificativa all’interramento abusivo di rifiuti tossici, all’inquinamento dell’ambiente, alla devastazione del territorio con centinaia di cave e costruzioni abusive, alla produzione e commercializzazione di cibi alterati e pericolosi per i consumatori, all’immissione sul mercato di sostanze con marchi falsi.

Nel giugno 2011 viene pubblicato il primo Rapporto Agromafie che si presenta come la prima lettura organica dei crimini in questo ambito. Si tratta di una lettura di particolare pertinenza, soprattutto in seguito all’entrata in vigore dell’art. 25 bis, punto 1, che prevede la responsabilità delle persone giuridiche, anche in relazione ai reati di turbata libertà dell’industria e del commercio e di contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari, di cui agli articoli 513 e 517 quater c.p. (191).










(189) D. CEGLIE, Infortuni sul lavoro e responsabilità delle persone giuridiche, in Il nuovo

diritto della sicurezza sul lavoro, (a cura di) M. PERSIANI, UTET Giuridica 2009.


(190) “Il fatturato del sommerso: la ragnatela del business” in Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2009, n. 184.


Per contrastare la criminalità d’impresa, la legge delega n. 300/2000 e il D.lgs n. 231/2000, recependo le convenzioni internazionali di cui sopra, hanno previsto disposizioni sanzionatorie direttamente per le persone giuridiche, seppur in presenza di determinati presupposti come l’accertamento di fatti di reato perpetrati nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

L’introduzione della responsabilità dell’ente per reati è stata resa possibile dal superamento del dogma della scienza penalistica italiana “societas

delinquere non potest”.

Un tale dogma affonda le sue radici nella teoria della finzione e nell’interpretazione restrittiva dell’art. 27, primo comma, della Costituzione, secondo cui la responsabilità penale è personale.

In base a tale teoria, solo l’uomo ha sia la capacità giuridica che di agire e, dunque è penalmente responsabile. L’interpretazione restrittiva dell’art. 27 della Costituzione prevede, infatti, la personalità della responsabilità penale, che si fonda su una concezione etica e psicologica della colpevolezza, in base alla quale questa può sussistere in relazione a specifici fattori fisici, psicologici e psichici che, evidentemente, possono essere riscontrati solo in capo a persone fisiche.

La persona giuridica invece, agendo tramite rappresentanti, dovrebbe essere

ritenuta una finzione giuridica e pertanto incapace di commettere reati (192).

Inoltre la sentenza 368/1988 della Corte costituzionale ha stabilito l’impossibilità di una sostituzione tra il soggetto che ha commesso il reato e quello che ne patisce le conseguenze e la persona giuridica non si poteva ritenere capace di patire le conseguenze del reato.

In questo senso Licci osserva che il “tendenziale collegamento

dell’imputabilità (art. 85 c.p.) con la sussistenza della capacità d’intendere e di volere non lascia residuare dubbi […]” in ordine alla circostanza che nel

Codice Rocco l’unico soggetto dotato di capacità penale è un essere umano. In realtà il legislatore del 1930 non aveva completamente ignorato il ruolo rivestito dalla persona giuridica nell’episodio criminale, limitandosi, tuttavia, a prevedere nell’art. 197 c.p. una responsabilità sussidiaria dell’ente, in caso 








di insolvibilità del condannato, per il reato commesso nell’interesse della

persona giuridica(193).

Con il diffondersi del fenomeno societario e della criminalità ad essa collegata, si è iniziato a interrogarsi sui costi per la collettività che comportava il dogma “societas delinquere non potest”.

In Italia i primi studi sull’opportunità di sfatare tale dogma relativo alle persone giuridiche, ma anche agli altri enti protagonisti della realtà economica, sebbene privi di personalità giuridica, risalgono agli anni settanta (194).

Sono andate così affermandosi altre teorie che ammettono sia la capacità dell’ente di commettere reati, sia la sua punibilità.

Si tratta della teoria della realtà od organica, in base alla quale una persona giuridica è di per sé un soggetto di diritto senza necessità di finzioni o analogie.

Si deve, infatti, considerare che, se è possibile imputare alla società gli effetti civili di atti compiuti dai suoi rappresentanti, altrettanto dovrebbe valere per le conseguenze del reato.

Nonostante il perdurare di perplessità, soprattutto di ordine costituzionale, il legislatore nel 2001, in attuazione della legge delega n. 300 del 2000, ha introdotto, con il decreto legislativo n. 231 del 2001, la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridiche.

Si è trattato di una “svolta modernizzatrice” impressa al diritto penale dalla c.d. colpevolezza di organizzazione, sulla quale si fondano i criteri di

imputazione della responsabilità delle persone giuridiche (195).

C’è chi ha parlato di “rivoluzione copernicana” (196) rispetto all’oramai

anacronistico, ma anche “costoso” (197) principio societas delinquere et










(193) G. LICCI, Figure del diritto penale. Lineamenti di una introduzione al sistema punitivo italiano, Torino, 2008, p. 397F. BRICOLA, Il costo del principio “societas delinquere non potest “ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, Riv. it. dir. e proc. pen., 1970.
 (194) F. BRICOLA, Il costo del principio “societas delinquere non potest” nell’attuale

dimensione del fenomeno societario in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, p. 951; G. MARINUCCI, Il reato come azione, Milano, 1970, p. 175.


(195) PALIERO-PIERGALLI, la colpa di organizzazione in Resp. amm. soc.enti, n. 3, 2006,

p. 167.


(196) CANESTRARI – CORNACCHIA-DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, p.p.297 e ss.. 


puniri non potest; una novità insomma, capace di influire “sul piano dell’immaginario penalistico”, rappresentando così un autentico elemento di

mutazione genetica del sistema penale (198).

Secondo l’opinione prevalente il decreto non è altro che la conseguenza di impegni presi dal nostro paese a livello internazionale e comunitario e dell’influenza di altri Paesi di civil law geograficamente contigui all’Italia, come la Francia.

Qui la responsabilità penale delle persone morales è stata inserita nel Codice penale nel 1994.

Per quanto riguarda la Germania invece, resta ferma l’incapacità penale delle persone giuridiche che, tuttavia, possono essere destinatarie di sanzioni

amministrative in forza della disciplina prevista nel

Ordnungswidrigkeitengesetz (OwiG) del 1975, modificata nel 1986.

Negli ordinamenti di common law, invece, la responsabilità delle persone giuridiche è stata affermata per la prima volta in Gran Bretagna nel 1842 nel caso Birmingham and Gloucester Road Railway Co..

Secondo altra opinione invece, il decreto è frutto di un’autonoma scelta di politica legislativa (199).

La responsabilità degli enti, come testimonia la relazione ministeriale al decreto, è stata definita dal legislatore come amministrativa.

Si è trattato di una scelta di cautela, ritenendo i compilatori eccessivo attribuire esplicitamente ai c.d. enti morali la stessa capacità penale delle persone fisiche; ciò sebbene considerassero superata la tesi sulla non adattabilità del principio di colpevolezza di cui all’art. 27 cost. alle persone giuridiche, vista la sua natura normativa e non psicologica. Si tratta in realtà di una nuova forma di responsabilità con aspetti di carattere penale ed altri di carattere amministrativo. Come osserva Rordorf infatti, “il fatto costituente

reato, commesso da un dipendente o esponente dell’ente, opera su un doppio piano, giacché integra, a un tempo, un reato ascrivibile all’individuo che lo ha commesso (punibile con sanzione penale) e un illecito amministrativo









(197) BRICOLA, Il costo del principio “societas delinquere non potest” nell’attuale dimensione del fenomeno societario in RIDPP, 1970, p. 951.


(198) DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale. la democrazia penale tra differenziazione

e sussidiarietà, Milano, 2004, p. 45.


(199) Il Testo Unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro nell’ottica del cambiamento dei modelli di produzione e organizzazione del lavoro in www.adapt.it.


(punibile con sanzione amministrativa) per l’ente nell’interesse o a vantaggio del quale quel medesimo fatto è stato commesso”( 200).

Ai fini della responsabilità dell’ente occorrerà, tuttavia, non solo che il reato sia ad esso ricollegabile sul piano oggettivo, ma dovrà anche costituire espressione della politica aziendale o quanto meno derivare da una colpa di organizzazione. Deve cioè potersi ravvisare una mancanza di efficaci modelli organizzativi volti a prevenire o a minimizzare gli effetti di eventuali comportamenti colposi o dolosi tenuti dalle persone fisiche.

Nonostante quanto espresso dal legislatore, rimane aperta in dottrina la disputa sulla natura della responsabilità dell’ente, se cioè essa sia penalistica, piuttosto che amministrativa, non essendo arrivati ad interpretazioni universalmente condivise.

Un primo orientamento di giurisprudenza di merito è favorevole alla natura amministrativa della responsabilità dell’ente, c.d. “amministrativa da reato” (201).

Un’argomentazione a sostegno della tesi è rappresentata dal dato formale della qualificazione normativa, vincolante per l’interprete, a meno di non

voler indulgere a un “ontologismo fuori luogo” (202).

Una tale indicazione normativa avrebbe, inoltre, valore dirimente (203).

Si tratta però di un’etichetta legislativa discordante con la maggior parte dei profili della disciplina alla quale si riferisce. Si pensi al regime della prescrizione che è ispirato al modello della “legge fondamentale” sugli illeciti amministrativi (art. 28, l. 24 novembre 1981, n. 689) ed è dunque

diverso da quello penalistico (204).










(200) R. RORDOF, Prime (e sparse) riflessioni sulla responsabilità amministrativa degli enti collettivi per reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio. Atti del convegno “ La riforma del diritto societario”, Milano, 28 settembre 2000.


(201) Trib. Milano, ord. 9 marzo 2004 in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1333 (con nota di

C.F. GROSSO, Sulla costituzione di parte civile nei confronti degli enti collettivi chiamati a rispondere ai sensi del d.lgs n. 231 del 2001 davanti al giudice penale, p.p.1335 ss.); Trib. Milano, ord. 25 gennaio 2005 in Soc., 2005, p. 1441, con commento di BARTOLOMUCCI, ivi, p.p. 1443 ss.; Trib. Milano, ord. 18 gennaio 2008 in Cass. pen., 2008, ivi, p.p. 3858 ss.
 (202) G. MARINUCCI, Societas puniri potest: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1201 ss., p. 1202.


(203) Il Testo Unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro nell’ottica del cambiamento

dei modelli di produzione e organizzazione del lavoro in www.adapt.it


(204) G. MARINUCCI, Societas puniri potest: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1201 ss..


Esso è di cinque anni per tutti gli illeciti amministrativi da reato e decorre dalla consumazione dello stesso (art. 22, comma 1, dlgs 231); inoltre si interrompe con la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e con la contestazione dell’illecito amministrativo. Nel primo caso resta sospeso per tutta la durata del processo, fino al momento del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio. Dissonante con la tesi penalista è anche la disciplina delle vicende modificative dell’ente (sezione II del capo II, dlgs 231) che, essendo di stampo civilistico, mal si concilia

con il principio di personalità della responsabilità (205).

Si pensi alla norma relativa alla fusione (art. 29, dlgs 231) che prevede una sorta di responsabilità per fatto altrui, o a quella relativa alla scissione (art. 30, dlgs 231), che prevede un’obbligazione solidale per il pagamento delle sanzioni pecuniarie a carico degli enti beneficiari della scissione medesima. Questa, ove si tratti di ente al quale è stato trasferito il ramo di attività nell’ambito del quale è stato commesso il reato, non è limitata al valore effettivo del patrimonio netto trasferito, in deroga alla regola sancita all’art. 27 Cost., ossia al principio della personalità.

Si tratta di scelte normative dettate da esigenze criminali, il cui scopo è quello di evitare di agevolare modalità di elusione della responsabilità. Del resto, anche l’appellativo “amministrative” attribuito dal Codice Rocco alle misure di sicurezza è andato, via via, perdendo di significato, tanto che più a nessuno verrebbe in mente di dubitare della loro natura sostanzialmente penale.

Se si accoglie la tesi amministrativista non possono porsi questioni di legittimità della relativa disciplina con riferimento ai principi che la Costituzione riserva alla materia penale.

Significativa al riguardo è la sentenza “Thyssenkrupp”, la quale, ha dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo alla presunzione di colpevolezza emergente dagli artt. 5, 6 e 7 d.lgs 231 e alla asserita indeterminatezza dei modelli organizzativi previsti dagli artt. 6 e 7, proprio perché esse 








(205) A. ALESSANDRI, Riflessioni penalistiche sulla nuova disciplina in AA. V.V., La responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002, p. 25.


presupporrebbero la natura sostanzialmente penale della responsabilità che la Corte, invece, ha escluso.

Su questa stessa premessa il Tribunale di Milano ha negato rilevanza, in questo ambito di disciplina, all’art. 25, comma 2, Cost., come parametro del

giudizio di legittimità costituzionale (206).

In tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite della Cassazione penale che, in una pronuncia del 2010, ne hanno escluso la sussistenza, con riferimento alla fattispecie di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione.

Con un’altra pronuncia invece la Cassazione ha affermato, ad onta del

nomen iuris, che “la nuova responsabilità dissimula la sua natura sostanzialmente penale, forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale, di rango costituzionale (art. 27 cost.)”( 207).

A questa tesi la Cassazione aveva aderito implicitamente già con una precedente sentenza. Infatti, nel definire l’ambito soggettivo di applicazione della nuova disciplina, ne aveva escluso l’operatività nei confronti delle imprese individuali, facendo appello al divieto di analogia in malam partem, di cui all’art. 25 Cost. (208).

In un’altra decisione successiva, invece, la Corte è pervenuta ad una conclusione opposta, con ogni probabilità attraverso un procedimento analogico in malam partem.

Per i Giudici di legittimità, infatti, “una lettura costituzionalmente orientata

della norma […]dovrebbe indurre a conferire al disposto di cui al comma 2 dell’art.1 del d.lvo in parola una portata più ampia, tanto più che, non cogliendosi nel testo alcun cenno riguardante le imprese individuali, la loro mancata indicazione non equivale ad esclusione, ma, semmi, ad una implicita inclusione nell’area dei destinatari della norma” (209).










(206) Trib. di Milano, ord. 8 marzo 2012, pp. 6 ss. in Cass. pen., 2008, ivi, p.p. 3858 ss.


(207) Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2005 (30 gennaio 2006), n. 3615, Jolly Mediterraneo srl

in Cass. pen., 2007, pp. 74 ss e in Soc.,pp. 756 ss., con commento di S.BARTOLOMUCCI, p. 759 ss.


(208) Cass. pen., sez. VI, 3 marzo 2004 (22 aprile 2004), Ribera in Cass. pen., 2004, p. 4046.


(209) Cass. pen., sez. III, 15 dicembre 2010 (20 aprile 2011), n. 15657 in Cass. pen., 2011, pp. 2556 ss. Con nota di L. PISTORELLI, L’insostenibile leggerezza della responsabilità da reato delle imprese individuali, ivi, pp. 2560 ss.


Una parte della giurisprudenza e della dottrina deduce la natura penale della responsabilità in questione dalle regole di validità mutuate dalla parte generale del Codice penale (articoli 2,3,4) e dalla astratta minaccia di sanzioni materialmente punitive (articolo 9 e seguenti), la cui applicazione è

demandata alla competenza del giudice penale (articolo 36) (210).

Merita ricordare in senso contrario un’altra pronuncia della Cassazione, secondo la quale gli enti “non essendo suscettibili di responsabilità penale” possono soltanto subire gli effetti patrimoniali derivanti dall’attività illecita realizzata dagli organi che ne hanno la rappresentanza, purché, si tratti di attività afferente alla gestione della persona giuridica.

La prima argomentazione a favore della tesi penalista riguarda la natura dell’illecito presupposto, che è appunto quella di reato.

Di conseguenza, sarebbe singolare qualificare come amministrativa la responsabilità che ne consegue, a prescindere dalla natura del soggetto a cui la medesima viene attribuita.

Come osserva Falzea cioè, “a decidere della qualificazione giuridica di un

comportamento illecito sta la natura dell’interesse violato, non la natura del soggetto che ha commesso la violazione” ( 211).

Altro parametro di valutazione è rappresentato dall’autorità competente all’accertamento della responsabilità e dalle modalità procedurali.

Difatti, lo svolgimento di indagini e l’esercizio dell’azione penale spettano al pubblico ministero, mentre la cognizione dell’illecito amministrativo è attribuita al giudice competente per il reato presupposto (art. 36, dlgs 231). Quest’ultimo applica le sanzioni con un provvedimento giurisdizionale emesso all’esito di un processo penale, che si svolge con tutte le garanzie sue proprie.

Ulteriori profili normativi a conferma della lettura in chiave penalistica sono rappresentati dalla previsione espressa della punibilità dell’ente anche per le ipotesi tentate (art. 26, dlgs 231), che non trova alcun riscontro nel campo del diritto sanzionatorio amministrativo; dalla rilevanza extraterritoriale attribuita all’illecito penale; dalla disciplina della successione di leggi nel 








(210) Cass., II, sez. pen., 20 dicembre 2005, n. 3615 in Le Società, 2006, p. 756.


(211) A. FALZEA, La responsabilità penale delle persone giuridiche in AA.VV:, La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario, Milano, 1981, p. 141.


tempo (art. 3, dlgs 231); dall’affermazione del principio di irretroattività della norma più favorevole.

Al di là di tali appigli normativi, la soluzione del problema dipende dal retroterra culturale ed ideologico del singolo interprete. Considera penale la natura della responsabilità del’ente chi ritiene di poter rispondere affermativamente a determinate domande relative a delle questioni di fondo. Se cioè la colpevolezza dell’organizzazione sia davvero in grado di fornire una sufficiente legittimazione dogmatica ad una responsabilità autenticamente penale delle societas e se le risposte sanzionatorie messe a punto nel d.lgs 231 siano davvero in grado di svolgere funzioni equiparabili a quelle di vere e proprie pene.

Nella Relazione al d.lgs 231 si affaccia l’ipotesi di un tertium genus di responsabilità “che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello

amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia” (212). Ciò trova conferma nella previsione contenuta nella relazione ministeriale di un tertium genus di paradigma sanzionatorio, alternativo al sistema penale classico e al sottosistema degli illeciti depenalizzati delineato dalla legge n. 689 del 1981, che hanno come destinatario del precetto e della sanzione la persona fisica.

Pur escludendo di attribuire agli enti la stessa capacità penale delle persone fisiche, tuttavia, considerata la materiale afflittività delle sanzioni ad essi comminate, si è ritenuto, in un’ottica garantistica, di estendere al sottosistema punitivo configurato dal d.lgs 231 del 2001 le garanzie che punteggiano il diritto penale sostanziale e processuale. In particolare si tratta del principio di legalità e del c.d. simultaneus processus, cioè dell’attribuzione al giudice penale, competente per i reati commessi dalla persona fisica nell’interesse o vantaggio dell’ente, del giudizio sugli illeciti amministrativi ascrivibili a questo.

La tesi del tertium genus è stata sostenuta da giurisprudenza di merito, 213

che in taluni casi invece ha ritenuto di poter prescindere del tutto dalla 








(212) Relazione al d.lgs 8 giugno 2001, n. 231, p. 12.


questione, considerata ininfluente sul thema decidendum (214); talvolta anche

dalla Cassazione (215).

Per i Giudici di legittimità, la responsabilità dell’ente così configurata è ricompresa nel raggio d’azione dei principi costituzionali riguardanti la materia penale.

Dunque, assumono rilevanza le questioni relative alla legittimità costituzionale della disciplina dettata nel d.lgs 231; come del resto è stato sostenuto anche dal Trib. Milano per il quale, “quale che sia la natura della

responsabilità da reato degli enti, è certo che ad essa si applicano i principi affermati nell’art. 27 Cost.” (216).

A favore del tertium genus si è espressa anche la dottrina (217).

Tra i vari Autori, c’è chi ha abbracciato la tesi favorevole al tertium genus di responsabilità con accenti critici, ora ritenendo questa visuale “più

attendibile di quella monistica anche se in qualche misura fuorviante per la sua genericità” (218); ora considerando questa soluzione “centauresca” e dunque, da adottare come extrema ratio, quando non residua alcun altra

possibilità alternativa (219).

Ci troviamo così di fronte ad un sistema “geneticamente modificato con

sembianze ibride”, perché composto di elementi eterogenei e collocato a

metà strada tra il diritto vero e proprio e il sistema sanzionatorio

amministrativo (220).










(214) Trib. Torino, ord. 26 gennaio 2006, p. 1 in www.rivista231.it.


(215) Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 2010 (16 luglio 2010), n. 27735; Brill River; Cass. pen.,

sez. VI, 9 luglio 2009 (17 luglòio 2009), n. 36083, Mussolini in Cass. pen., 2010, p. 1938 ss.
 (216) Trib. di Milano, sentenza 20 ottobre 2011.


(217) E.M. AMBROSETTI, Efficacia della legge penale nei confronti delle persone. Persone

giuridiche e responsabilità amministrativa da reato in M. RONCO, Commentario sistematico al codice penale. La legge penale, Bologna, 2006, p. 191; I CARACCIOLI, Osservazioni sulla responsabilità penale “propria” delle persone giuridiche in A.A. V.V.,