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SICUREZZA SUL LAVORO E MODELLI ORGANIZZAZIONE E GESTIONE.

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(1)

I N D I C E

INTRODUZIONE ………..……….p. 4 CAPITOLO I

Excursus normativo in materia di sicurezza del lavoro.

1.1. L’obbligo di sicurezza: principi costituzionali e disciplina codicistica….. p. 14 1.2 L’obbligo di sicurezza: disciplina di settore ………..….p. 22 1.3 Dalla normativa tecnica di settore degli anni ‘50 alla programmazione della

sicurezza del lavoro ……….………...………. p. 29 1.4 Le caratteristiche delle norme di prevenzione: tassatività, natura

prevenzionistica e rilevanza penale ……….………..….. p. 43

CAPITOLO II

Modelli di organizzazione e di gestione

2.1. Il D.lgs 81/08 e il sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro...p. 57 2.2. La valutazione dei rischi……….…...….p. 70 2.3. Criteri di impostazione dei modelli organizzativi………...p. 83 2.4. L’efficacia esimente dalla responsabilità amministrativa dei modelli di

(2)

CAPITOLO III

La responsabilità dell’ente

3.1. La natura della responsabilità dell’ente………..p. 112 3.2. La responsabilità dell’ente in relazione all’autore del reato…………p. 125 3.3. Accertamento della responsabilità dell’ente………....p. 136

CONCLUSIONI……….…p. 142 BIBLIOGRAFIA…..……… p. 152

(3)

INTRODUZIONE

L’inadeguatezza della produzione giuridica, per lentezza e complessità, al dinamismo della realtà socio – economica, ha indotto il legislatore del 1942 a individuare nella materia della sicurezza del lavoro una norma di carattere generale, dotata di forza espansiva.

L’art. 2087 c.c. infatti, tradizionalmente inteso quale fondamento del cosiddetto obbligo di sicurezza, rappresenta una summa di principi essenziali, tanto da essere posto a chiusura del sistema. Una tale generalità emerge dalla capacità riassuntiva di tale norma degli obblighi di facere “scritti e non scritti”, “presenti e futuri” del datore di lavoro vigenti in tema di sicurezza nei confronti dei singoli lavoratori e con riferimento alla loro specifica attività. Inoltre, risulta dagli obiettivi che la norma si prefigge, ossia la tutela della salute del lavoratore complessivamente intesa, così da ricomprendere la sua integrità sia fisica che psichica, dovendo tutelare la sua personalità che nel lavoro si esplica. Infine, la generalità della disposizione si manifesta attraverso i parametri di conformazione dell’obbligo di sicurezza che operano in combinato disposto e dagli obiettivi di tutela quali, rispettivamente: la particolarità del lavoro, l’esperienza, la tecnica, l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

In particolare, una norma aperta - cioé con oggetto non già predeterminato, ma destinato a variare nel tempo - impone al datore di lavoro di adottare non solo le misure di sicurezza previste dalla legislazione vigente, ma anche quelle ritenute necessarie alla luce delle cognizioni della migliore tecnologia

e del patrimonio di esperienza tipici di un determinato momento storico (1).

L’art. 2087 è altresì norma di carattere generale perché pacificamente ritenuta applicabile a qualunque organizzazione di lavoro, pubblica o privata, indipendentemente dalla dimensione e complessità.










(1) Cass. 26 gennaio 1993, n. 937 in Riv. infort. e mal. prof. , 1993, p. 128; Cass. 8 febbraio

1993, n. 1523 in Not. Giur. lav., 1993, 352; Cass. 5 aprile 1993, n. 4083 in Giust. civ. Mass., 1993, p. 619; Cass. 27 settembre 1994, n. 10164 in Dir. prat. lav., 1994, 42, p. 2909; Cass. 16 giugno 1995, n. 6944, ivi, 1995, 32, p. 2120; Cass. 29 marzo1995, n. 3740 in Mass. Giur. lav., 1995, p. 359.


(4)

Tuttavia, proprio per una tale ampiezza, già dal secondo dopoguerra, l’art. 2087 c.c. si è rivelato inadeguato a fornire un quadro precettivo sufficiente a disciplinare la molteplicità delle attività lavorative e dei rischi conseguenti alle stesse, in tema di sicurezza del lavoro.

Più precisamente, a rimanere insoddisfatte erano le esigenze di predisposizione di misure di prevenzione degli specifici rischi di infortunio o malattia professionale.

Si rendeva cioè necessaria un’adeguata regolamentazione delle modalità di esecuzione delle prestazioni pericolose che consentisse di specificare, anche sotto l’aspetto tecnico, il generico obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. .

È su queste premesse e in conseguenza dell’evoluzione dell’industria e delle attività produttive, nonché dell’aumento del peso sociale delle istanze sindacali dei lavoratori, che si è giunti agli interventi legislativi degli anni

cinquanta, poi parzialmente confluiti nel d.lgs. n. 81/2008 (2).

L’art. 2087 c.c. sta, rispetto a tale normativa prevenzionistica, in un rapporto di genus-species nella misura in cui la disciplina speciale ne specifica il

contenuto, in risposta ad esigenze “ratione materiae, personae, loci” (3).

Infatti, la funzione della norma speciale è quella di aggiungere un quid pluris alla norma generale, pur mantenendo quella parte della fattispecie comune ad entrambe.

Sotto il profilo quantitativo, le norme speciali prevenzionistiche consentono di non esaurire l’obbligo di sicurezza in un numero chiuso di adempimenti,

essendo l’art. 2087 c.c. norma aperta e di chiusura (4).

Sotto il profilo qualitativo queste stesse norme accentuano la portata prevenzionistica dell’obbligo di sicurezza, avendo riguardo ad una 








(2) L. FANTINI – A. GIULIANI, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 2011, p. 3.


(3) M. GORGONI, Regole generali e regole speciali nella disciplina del contratto, Torino,

2005, p. 46; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, p. 87.


(4) SMURAGLIA, Sicurezza e igiene del lavoro. Quadro normativo, esperienze attuative e

prospettive in Riv. giur. lav. 2001, I, p. 465; MONTUSCHI, L’incerto cammino della sicurezza sul lavoro fra esigenze di tutela, onerosità e disordine normativo, ivi, pp. 501 ss.; PEDRAZZOLI, Introduzione in PEDRAZZOLI (a cura di), Danno biologico e oltre – La risarcibilità dei pregiudizi alla persona del lavoratore, Torino, 1995, pp. 3 ss.; NATULLO, La tutela dell’ambiente di lavoro in Dottrina e giurisprudenza del lavoro diretta da GIUGNI, Torino, 1995, pp. 5 ss.; BALANDI, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza in Quad. dir. lav. rel. ind., 1993, n. 14, pp. 79 ss.


(5)

molteplicità di aspetti specifici come le particolari caratteristiche dell’ambiente di lavoro, del titolare dell’obbligo, delle modalità di svolgimento della prestazione di lavoro.

Dal canto suo la norma generale orienta le norme speciali prevenzionistiche verso l’obbligo di sicurezza. Si delinea così un sistema circolare predisposto

a tutela della salute della persona che lavora (5).

Il limite della legislazione speciale degli anni cinquanta è rappresentato dalla difficoltà di adattamento delle misure di prevenzione predisposte al sempre più veloce processo di evoluzione delle tecnologie, così da divenire nel tempo obsolete.

Osserva Lepore come il loro carattere rigido e particolareggiato le rende

legate al momento storico in cui vengono ad essere emanate (6), perché

contenenti una serie di prescrizioni tecniche dettate una volta per tutte. In quanto tale la disciplina prevenzionistica non era in grado di adeguarsi ai nuovi processi produttivi e lavorativi introdotti di pari passo con lo sviluppo tecnologico, né al singolo ambiente di lavoro che presenta, inevitabilmente,

caratteristiche specifiche e fattori di rischio peculiari (7).

A ciò si aggiungano le difficoltà applicative conseguenti all’imponente mole di disposizioni specifiche e all’assenza di un sistema regolatorio che consenta di progettare e programmare la sicurezza. Infine, la disciplina contenuta negli interventi normativi degli anni cinquanta non coinvolgeva i lavoratori nelle attività aziendali di programmazione e gestione della prevenzione in azienda, considerandoli piuttosto come meri beneficiari della normativa di salute e sicurezza.

È in reazione ai limiti della legislazione speciale degli anni cinquanta che viene approvato il d.lgs n. 624 del 1994, con cui si ribalta la concezione in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. L’aspetto innovativo è rappresentato da un nuovo modello prevenzionistico che mira a realizzare quest’ultima, attraverso un’azione coordinata di datore di lavoro e lavoratori; nonché in virtù di una vera e propria programmazione della sicurezza da 








(5) P. ALBI, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona. Art. 2087 c.c.,

Milano, 2008, p.p. 81-83.


(6) M. LEPORE, Manuale di diritto della sicurezza sul lavoro, Roma, 2010, p. 21.
 (7) P. SOPRANI, Sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro, Milano, 2001.


(6)

realizzarsi con la previsione di una serie di procedure tipo, da applicarsi a

qualunque ambiente di lavoro (8).

Il decreto dà attuazione ai principi informatori delle direttive comunitarie degli anni ‘80-‘90, che impongono ai Paesi membri il coinvolgimento di tutti i componenti dell’azienda, in particolare dei lavoratori, e l’adozione di prescrizioni minime per migliorare gli ambienti di lavoro.

Queste, appunto nell’ottica di una programmazione della sicurezza, sono fondate sulla valutazione dei rischi cui deve provvedere il datore di lavoro, coadiuvato da apposite strutture come il servizio di prevenzione e protezione, nonché dal medico competente, attraverso l’individuazione e l’eliminazione o riduzione al minimo dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori. Nonostante l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico di tale innovativo corpo normativo, tuttavia il fenomeno degli infortuni sul lavoro ha mantenuto un’elevata criticità in termini di allarme sociale.

Per tale ragione, negli anni successivi all’approvazione del d.lgs. 626/94, il tema del contrasto agli incidenti sul lavoro è stato posto al centro del dibattito politico e giuridico del nostro Paese. In un tale contesto si inserisce la legge 3 agosto 2007, n. 123 che, si prefigge di armonizzare leggi vigenti, in una logica unitaria ed innovativa. Tale legge, all’art. 1 comma 2, individua diciannove criteri di delega attuati con il combinato disposto del d.lgs. n. 81/2008 e del d.lgs. n. 106/2009.

L’obiettivo del Testo Unico di salute e sicurezza sul lavoro è quello di coordinare e razionalizzare buona parte della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro “garantendo l’uniformità della tutela delle lavoratrici e

dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali … nel rispetto delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia”

nonché, dell’assetto delle competenze tra Stato e Regioni (art. 1, secondo capoverso).

Un tratto particolarmente innovativo introdotto dal Testo Unico è rappresentato dall’efficacia esimente della responsabilità amministrativa 








(8) L. FANTINI – A. GIULIANI, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 2011, pp. 6-7.


(7)

degli enti, attribuita dall’art. 30 all’adozione del modello di organizzazione e di gestione (9).

Questa prescrizione è conseguenza della scelta della legge n. 123/2007 di estendere ai reati colposi in tema di salute e sicurezza dei lavoratori, la responsabilità amministrativa dei soggetti giuridici, ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, secondo il criterio descritto, confermato dall’art. 300 dello stesso

d.lgs. 81/2008 (10).

L’art. 2, comma 1, lett. d) definisce “modello di organizzazione e di gestione

il modello organizzativo e gestionale per la definizione e l’attuazione di una politica aziendale per la salute e sicurezza”, ai sensi dell’art. 6, comma 1,

lettera a); mentre il comma 2, lettera b) del d.lgs. n. 231/2001 precisa che i modelli di organizzazione devono prevedere “protocolli diretti a

programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’Ente”(11). La ragion d’essere di tali modelli organizzativi è la realizzazione della politica aziendale, che miri allo stato completo di benessere fisico, mentale e sociale di tutti gli attori coinvolti nell’attività dell’azienda.

Questa consiste nell’insieme delle decisioni strategiche prese dall’Alta Direzione per definire gli obiettivi generali di prevenzione da perseguire e quelle operative, prese successivamente dagli attori gerarchicamente inferiori (dirigenti e preposti) nei confronti dei lavoratori per gestire la sicurezza, ovvero realizzare gli obiettivi gestionali specifici.

Oltre alla finalità, l’art. 30 del d.lgs. 81/2008 indica altri due elementi progettuali necessari a dare concretezza al modello di organizzazione e gestione, quali le attività da organizzare e i criteri di progettazione organizzativa dei modelli.

Tali attività, che devono essere documentate e registrate nei sistemi operativi dedicati, danno luogo a due modelli distinti di cui il primo è diretto alla prevenzione rischi, mentre il secondo a gestire l’eventuale insorgere delle situazioni di crisi.










(9) E. GRAGNOLI, Il quadro normativo per la tutela della salute dei lavoratori dopo il

decreto legislativo n. 81 del 2008 in La prevenzione dei rischi e la tutela della salute in azienda. Il T.U. e decreto correttivo n. 106/2009, IPSOA, p. 409.


(10) V. MARRA, Modelli di organizzazione e di gestione in ZOPPOLI, PASCUCCI,

NATULLO (a cura di), Le nuove regole per la sicurezza e la salute dei lavoratori, Torino, 2008, pp. 483 ss.


(11) L. E. GOLZIO, La prevenzione dei rischi e la tutela della salute in azienda. Il testo unico e le nuove sanzioni, (a cura di) FRANCESCO BESENH, 2008.


(8)

Il modello per la prevenzione dei rischi si articola nella valutazione di questi (c.d. risk assessment); nella politica aziendale del datore di lavoro; nella gestione dei programmi di prevenzione da parte dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori nello svolgersi della gestione corrente (il c.d. safety

management); nella formazione, nell’addestramento e nell’informazione

delle persone titolari di tutti i ruoli aziendali attraverso l’apprendimento di competenze specifiche (la c.d. safety education and training); nell’analisi degli incidenti e dei mancati incidenti (la c.d. accident investigation) da parte dei ruoli specializzati (medico competente, RSSP) nel controllo e nelle sanzioni previste circa l’operato dell’attività effettiva di prevenzione rispetto a quella programmata.

Il modello di organizzazione per la gestione delle crisi invece è l’insieme dei ruoli che intervengono in tale fase; delle loro modalità specifiche di funzionamento, spesso sintetizzate nei piani di emergenza; delle attività (tecniche, di formazione…) da mettere in atto una volta superata la fase acuta della crisi, per garantire il ritorno a condizioni normali di funzionamento.

Per quanto riguarda i criteri di progettazione organizzativa dei modelli, l’art. 30 fa riferimento al concetto di “sistema di gestione della sicurezza del

lavoro” (SGSL) definito dall’OHSAS 18001/199 come “parte del sistema complessivo che facilita la gestione dei rischi per la salute e sicurezza del lavoro associati al business dell’organizzazione. Include la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, le responsabilità, le pratiche, le procedure, i processi e le risorse necessarie per lo sviluppo, l’implementazione, la revisione ed il mantenimento della politica della sicurezza del lavoro dell’organizzazione”.

Nella logica di una proceduralizzazione della sicurezza, affinché un tale modello organizzativo possa efficacemente prevenire i reati di omicidio e lesioni colposi derivanti dall’inosservanza delle norme antinfortunistiche, deve assicurare un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi al rispetto degli standards tecnico-strutturali di legge con riferimento ad attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; alle attività di natura

(9)

organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; alle attività di sorveglianza sanitaria; alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate.

L’efficacia esimente propria dei modelli organizzativi implica l’introduzione della responsabilità dell’ente per i reati di omicidio e lesioni colposi derivanti dall’inosservanza delle norme antinfortunistiche.

Recependo la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione e la Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità Europee del 1977, la legge delega n. 300/2000 e il d.lgs. n. 231/2001, hanno previsto disposizioni sanzionatorie direttamente per le persone giuridiche, seppur in presenza di determinati presupposti come l’accertamento di fatti di reato perpetrati nell’interesse o a vantaggio dell’ente. È questa la risposta normativa al sopravanzare della criminalità d’impresa in modo predominante rispetto a

quella delle persone fisiche (12), resa possibile dal superamento del dogma

della scienza penalistica italiana “societas delinquere non potest”.

Un tale dogma affonda le sue radici nella teoria della finzione e nell’interpretazione restrittiva dell’art. 27, primo comma, della Costituzione, secondo cui la responsabilità penale è personale.

In base a tale teoria, solo l’uomo ha sia la capacità giuridica che di agire e, dunque è penalmente responsabile. L’interpretazione restrittiva dell’art. 27 della Costituzione prevede, infatti, la personalità della responsabilità penale, che si fonda su una concezione etica e psicologica della colpevolezza, in base alla quale questa può sussistere in relazione a specifici fattori fisici, psicologici e psichici che, evidentemente, possono essere riscontrati solo in capo a persone fisiche.










(12) D. CEGLIE, Infortuni sul lavoro e responsabilità delle persone giuridiche, da Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro, diretto da Mattina Persiani e Michele Lepore, Utet Giuridica, 2012, Milano.


(10)

La persona giuridica invece, agendo tramite rappresentanti, dovrebbe essere

ritenuta una finzione giuridica e pertanto incapace di commettere reati (13).

Inoltre, la sentenza n. 368/1988 della Corte costituzionale ha stabilito l’impossibilità di una sostituzione tra il soggetto che ha commesso il reato e quello che ne patisce le conseguenze e la persona giuridica non si poteva ritenere capace di patire le conseguenze del reato.

Come osserva Licci, il “tendenziale collegamento dell’imputabilità (art. 85

c.p.) con la sussistenza della capacità d’intendere e di volere non lascia residuare dubbi […]” in ordine alla circostanza che nel Codice Rocco

l’unico soggetto dotato di capacità penale è un essere umano (14).

Con il diffondersi del fenomeno societario e della criminalità ad essa collegata, ci si è interrogati sui costi per la collettività che comportava l’anacronistico dogma “societas delinquere non potest”.

È questa una “rivoluzione copernicana” (15), una “svolta modernizzatrice”

impressa al diritto penale dalla c.d. colpevolezza di organizzazione, sulla quale si fondano i criteri di imputazione della responsabilità delle persone giuridiche (16).

Sono andate così affermandosi altre teorie che ammettono sia la capacità dell’ente di commettere reati, sia la sua punibilità, come la teoria c.d. della realtà od organica, in base alla quale una persona giuridica è di per sé un soggetto di diritto senza necessità di finzioni o analogie.

La responsabilità degli enti, come testimonia la relazione ministeriale al decreto, è stata definita dal legislatore come amministrativa.

Si è trattato di una scelta di cautela, in quanto i compilatori hanno ritenuto eccessivo attribuire esplicitamente ai c.d. enti morali la stessa capacità penale delle persone fisiche; ciò sebbene considerassero superata la tesi sulla non adattabilità del principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. alle persone giuridiche, vista la sua natura normativa e non psicologica. Si tratta 








(13) V. SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, Torino, 1990.


(14) G. LICCI, Figure del diritto penale. Lineamenti di una introduzione al sistema punitivo

italiano, Torino, 2008, p. 397F. BRICOLA, Il costo del principio “societas delinquere non potest “ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, Riv. it. dir. e proc. pen., 1970.
 (15) CANESTRARI – CORNACCHIA-DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte

generale, Bologna, 2007, p.p. 297ss.


(16) PALIERO-PIERGALLI, La colpa di organizzazione in Resp. amm. soc.enti, n. 3, 2006, p. 167.


(11)

in realtà di una nuova forma di responsabilità con aspetti di carattere penale ed altri di carattere amministrativo.

Come osserva Rordorf, infatti, “il fatto costituente reato, commesso da un

dipendente o esponente dell’ente, opera su un doppio piano, giacché integra, a un tempo, un reato ascrivibile all’individuo che lo ha commesso (punibile con sanzione penale) e un illecito amministrativo (punibile con sanzione amministrativa) per l’ente nell’interesse o a vantaggio del quale quel medesimo fatto è stato commesso” (17).

Tuttavia, rimane aperta in dottrina la disputa sulla natura della responsabilità dell’ente, se cioè essa sia penalistica, piuttosto che amministrativa, non essendo arrivati ad interpretazioni universalmente condivise.

Un tale modello organizzativo determina la creazione di un ordinamento giuridico autonomo di natura convenzionale, tanto che alla violazione delle sue norme segue l’applicazione di sanzioni, indipendentemente che il fatto costituisca o meno un illecito per l’ordinamento statuale.

Nella logica del d.lgs. n. 231/2001 tale modello organizzativo serve all’ente “per tracciare la filiera dei comportamenti, per definire il limite tra ciò che è conforme e ciò che non lo è rispetto alle regole di cui lo stesso ente ha deciso di dotarsi [..]” (18).










(17) R. RORDOF, Prime (e sparse) riflessioni sulla responsabilità amministrativa degli enti collettivi per reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio. Atti del convegno “La riforma del diritto societario”, Milano, 28 settembre 2000.


(18) C. MANCINI, Osservazioni a margine di un’interpretazione giurisprudenziale in tema di responsabilità amministrativa degli enti e modelli organizzativi in Rivista di diritto commerciale, 2005, p. 61.


(12)

CAPITOLO I

Excursus normativo in materia di

sicurezza del lavoro

(13)

1.1. L’obbligo di sicurezza: principi costituzionali e disciplina codicistica.

L’obbligo di sicurezza del datore di lavoro nei confronti dei prestatori è sancito all’art. 2087 c.c. la cui formulazione si caratterizza per una

particolare ampiezza, a cui consegue una certa “dinamicità” (19).

Si tratta, infatti, di una norma generale, come si deduce dalla sua completezza, essendo costituita da una fattispecie che descrive una generalità di fattispecie e da un comando.

Spetta alla valutazione discrezionale del giudice valutare se poter ricondurre il caso concreto a tale categoria riassuntiva, senza tuttavia poter produrre o

integrare norme (20).

È questa una discrezionalità che potremmo definire di fatto, la quale - come

sostenuto tra gli altri dal Mazzetta (21) - non consente di riconoscere all’art.

2087 c.c. il ruolo di clausola generale (22).

Una tale configurazione si giustificherebbe in virtù della funzione della norma di “adeguamento permanente dell’ordinamento alla sottostante realtà

socio-economica […]”, considerata l’inadeguatezza dell’uno, per lentezza e

complessità della produzione giuridica, al dinamismo dell’altra(23).

La tesi non convince perché la funzione della clausola generale è quella di indicare al giudice una direttiva per l’individuazione della norma da applicare al caso concreto, senza allontanarlo dal metodo classico della sussunzione, attraverso la formulazione di principi direttivi.

La determinazione della norma di decisione richiede, infatti, un giudizio valutativo del giudice, rispetto al quale la direttiva rappresenta un valore sociale tratto dall’esperienza ed elevato a standard.










(19) L. FANTINI, A. GIULIANI, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 2011, p. 3.


(20) ALBI, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona. Art. 2087 c.c.,

Milano, 2008, p. 79.


(21) O. MAZZOTTA, Diritto del lavoro in Trattato di diritto privato, a cura di IUDICA e

ZATTI, Milano, 2008, pp. 535 e ss.


(22) MENGONI, Spunti per una teoria delle clausole generali in Riv. crit. dir. priv., 1986, pp. 5ss.


(14)

Assimilare l’art. 2087 c.c. alla clausola generale così intesa, ridurrebbe l’attività giurisdizionale ad una funzione meramente ricognitiva, con

carattere recettizio rispetto allo standard enunciato nella norma (24).

In quanto generale l’art. 2087 c.c. si pone in un rapporto di genus-species con la normativa prevenzionistica contenuta nella disciplina di derivazione comunitaria e con quella degli anni cinquanta, parzialmente confluita nel d.lgs. n. 81/2008.

In quanto norme speciali, quelle prevenzionistiche non sono eccezionali, cioè non derogano alla norma generale, ma ne specificano il contenuto, in

risposta ad esigenze “ratione materiae, personae, loci” (25).

L’effetto derogatorio è escluso dalla funzione della norma speciale, che è quella di aggiungere un quid pluris alla norma generale, pur mantenendo

quella parte della fattispecie comune ad entrambe (26).

Su questa premessa è evidente come una corretta configurazione dell’obbligo di sicurezza possa derivare solo da una esatta interazione tra le due norme: non c’è norma prevenzionistica speciale che possa prescindere

dal quadro generale di riferimento (27); al pari non è possibile cogliere la

portata dell’obbligo di sicurezza, senza tener di conto dell’arricchimento, in termini quantitativi e qualitativi, prodotto dalla legislazione prevenzionistica. Significativa al riguardo è l’osservazione di Lipari, per il quale il diritto “è

all’un tempo sempre generale e sempre speciale”, così che non si può non “cogliere nella differenza l’identità, nella frammentarietà la coerenza, nella molteplicità l’unità” (28).

Sotto il profilo quantitativo, le norme speciali prevenzionistiche consentono di non esaurire l’obbligo di sicurezza in un numero chiuso di adempimenti,

essendo l’art. 2087 c.c. norma aperta e di chiusura (29).










(24) P. ALBI, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona. Art. 2087 c.c.,

Milano, 2008, p. 80.


(25) GORGONI, Regole generali e regole speciali nella disciplina del contratto, Torino, 2005, p. 46; BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, p. 87. (26) GORGONI, Regole generali e regole speciali nella disciplina del contratto, op. cit. p.

46; BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, pp. 48.49.
 (27) LIPARI, Parte generale del contratto e norme di settore nel quadro del procedimento interprativo, p. 2.


(28) Ult. op. cit., p. 1


(29) SMURAGLIA, Sicurezza e igiene del lavoro. Quadro normativo, esperienze attuative e prospettive in Riv. giur. lav. 2001, I, p. 465; MONTUSCHI, L’incerto cammino della sicurezza sul lavoro fra esigenze di tutela, onerosità e disordine normativo, ivi, pp. 501 ss.;

(15)

Sotto il profilo qualitativo queste stesse norme accentuano la portata prevenzionistica dell’obbligo di sicurezza, avendo riguardo ad una molteplicità di aspetti specifici come le particolari caratteristiche dell’ambiente di lavoro, del titolare dell’obbligo, delle modalità di svolgimento della prestazione di lavoro.

Dal canto suo, la norma generale orienta le norme speciali prevenzionistiche verso l’obbligo di sicurezza. Si delinea così un sistema circolare predisposto

a tutela della salute della persona che lavora (30).

Il carattere generale della norma inteso nel senso della sua completezza, né fa una summa dei principi essenziali in materia di sicurezza del lavoro e le attribuisce una funzione di chiusura del sistema, considerata la sua forza espansiva.

Tale funzione è espletata con riferimento sia al sistema civilistico, che alle specifiche sanzioni di carattere penale, trattandosi di un obbligo “bi

frontale”, cioè di natura privatistica verso il lavoratore e pubblicistica verso

lo Stato, tanto da prevedere un’obbligazione a carico del datore di lavoro di natura contrattuale e al contempo da apprestare una tutela di carattere

generale alla sicurezza (31).

L’illecito consumato in sua violazione, infatti, si specifica sia rispetto alla colpa generica richiamata nell’art. 2043 c.c., che rispetto a quella di rilievo penalistico.

L’art. 2087 c.c. dunque, “pur non contenendo prescrizioni di dettaglio come

quelle rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una norma di principio ma deve considerarsi inserita a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui costituisce norma di chiusura […]”(32).









PEDRAZZOLI, Introduzione in PEDRAZZOLI (a cura di), Danno biologico e oltre – La risarcibilità dei pregiudizi alla persona del lavoratore, Torino, 1995, pp. 3 ss.; NATULLO, La tutela dell’ambiente di lavoro in Dottrina e giurisprudenza del lavoro diretta da GIUGNI, Torino, 1995, pp. 5 ss.; BALANDI, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza in Quad. dir. lav. rel. ind., 1993, n. 14, pp. 79 ss.


(30) P.ALBI, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona. Art. 2087 c.c.,

Milano, 2008, p.p. 81-83.


(31) A. PADULA, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro, Padova, 2003, p. 75.
 (32) Cass., 21 maggio 1996, n. 5114, in Guida al diritto, 27 luglio 1996, n. 30.


(16)

È, altresì, norma di carattere generale anche perché pacificamente ritenuta applicabile a qualunque organizzazione di lavoro, pubblica o privata, indipendentemente dalla loro dimensione e complessità.

Si deve, infatti, considerare superato l’orientamento, soprattutto dottrinale e basato sul dato testuale dell’art. 2087 c.c., che riteneva la norma non

applicabile ai rapporti di lavoro non inerenti all’esercizio di impresa (33).

Come osservato da alcuni autori, il rinvio alla disciplina codicistica operato dall’art. 2, comma 2 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 sulla c.d. prima privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, deve comprendere anche l’art. 2087 c.c. “che non appare condizionato dalla natura d’impresa del

datore di lavoro, essendo applicabile anche ai datori di lavoro non imprenditori”(34).

La generalità della norma emerge altresì dal suo essere riassuntiva degli obblighi di facere “scritti e non scritti”, “presenti e futuri” del datore di lavoro vigenti in tema di sicurezza nei confronti dei singoli lavoratori e con riferimento alla loro specifica attività.

Le misure di sicurezza da adottare, infatti, sono quelle richieste sia dalle caratteristiche oggettive dell’attività di lavoro, sia dalla condizione soggettiva dei singoli lavoratori.

Ciò implica l’affidamento dell’attività lavorativa a persone di idonea

professionalità (35) e una particolare attenzione per il loro stato di salute.

Così disponendo, il legislatore ha voluto sancire “il principio di diritto

comune del “dovere di sicurezza del lavoro” a carico dell’imprenditore e, quindi, il corrispettivo “diritto dei lavoratori alla tutela dell’integrità psico – fisica” (36).

Tale diritto, secondo la prevalente interpretazione, legittima forme di rifiuto della prestazione fondate sull’eccezione di inadempimento del contratto ex










(33) C. ASSANTI, Considerazioni sui principi generali in tema di misure di sicurezza in

Securitas, 1965, p. 110; R. CORRADO, Trattato di diritto del lavoro, III, Torino, 1969, p. 484 ss.


(34) M. NAPOLI, Il rapporto di lavoro con le Amministrazioni Pubbliche. Lineamenti interpretativi del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni, in M .Napoli, Questioni di diritto del lavoro (1992-1996), Torino, 1996, p. 81.


(35) Cass. 17 maggio 1993, n. 5064 in Mass. Giur. lav., 1993 in Mass. giur. lav., 1993, Suppl. N. 4/5, p. 61; Cass. 5 luglio 1993, n. 6576 in Dir. Prat. Lav, 1993, 34, p. 2285.
 (36) M. LEPORE, Manuale di diritto della sicurezza sul lavoro, Roma, 2010, p. 16.


(17)

art. 1460 c.c. (37); secondo altri si fonda sulla mora accipiendi, con il riconoscimento per il lavoratore del diritto al mantenimento della retribuzione e del posto di lavoro.

L’obbligo di tutela dell’integrità psico–fisica del prestatore è ricompreso tra gli obblighi di protezione relativi al datore di lavoro, in quanto anch’esso nasce dal contatto sociale che si produce tra le parti del suddetto rapporto. Il datore di lavoro cioè immette il lavoratore nella propria sfera, dando “corporeità” al rapporto contrattuale e facendo così dipendere, proprio per effetto di questo inserimento, l’integrità psico–fisica del lavoratore

dall’adempimento dell’obbligo di sicurezza (38).

Quest’ultimo è un obbligo di protezione anche nella misura in cui ha un contenuto diverso dall’obbligo di prestazione principale e il suo adempimento non ne pregiudica la perfetta esecuzione.

Si tratta cioè, di un obbligo autonomo rispetto all’obbligazione principale di lavorare, tant’è che per potersi configurare una sua violazione è necessario che l’eventuale danno provocato dal contatto sociale, pur dovendo essere causalmente connesso con l’esecuzione del rapporto, non riguardi in alcun

modo la prestazione in esso dedotta (39).

Il carattere generale dell’art. 2087 c.c. emerge anche dai parametri di conformazione dell’obbligo di sicurezza che operano in combinato disposto e dagli obiettivi di tutela quali, rispettivamente: la particolarità del lavoro, l’esperienza, la tecnica, l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Al datore di lavoro è dunque richiesta una diligenza particolarmente qualificata ex art. 1176, comma 2, c.c., dovendo egli adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di

lavoro, secondo i suddetti parametri (40).










(37) SUPPIEJ, Il diritto dei lavoratori alla salubrità dell’ambiente di lavoro in Riv. it. dir.

lav., 1988, p. 445; MONTUSCHI, la tutela dell’ambiente di lavoro e direttive CEE, (a cura di) BIAGI, Rimini, 1991, p. 11 – 12; NICOLINI, Tutela delle condizioni di lavoro, Padova, 1991, p. 74; Pret. Torino 18 dicembre 1992 in Rass. giur. Enel, 1994, p. 505.


(38) G. F. MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957,

pp. 132 – 133.


(39) L. MENGONI, Obbligazioni << di risultato >> e obbligazioni << di mezzi >> (studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, I, p. 478.


(18)

Tali misure non sono solo quelle tipiche, risultanti dalla legislazione speciale o da apposite prescrizione amministrative, ma altresì anche quelle generiche di prudenza, diligenza e osservanza delle norme tecniche e di esperienza

conosciute (41).

Dall’altro lato, non qualsiasi misura nuova e non ancora sperimentata dovrà essere adottata, ma solo quelle acquisite dall’esperienza e dalla tecnica, che si rendono necessarie in base al particolare tipo di lavorazione e alla

pericolosità dell’ambiente in cui essa si svolge (42).

La particolarità del lavoro da un lato, l’esperienza e la tecnica dall’altro, sono parametri che meritano una lettura separata, poiché il primo funge da riferimento interno ed è collegato alla specifica organizzazione produttiva; gli altri, invece, sono parametri esterni di carattere generale che consentono

di individuare le misure che si siano già rivelate idonee ai fini preventivi (43).

È evidente che si tratta di una norma aperta, cioè con oggetto non già

predeterminato, ma destinato a variare nel tempo (44).

In tale prospettiva il datore di lavoro deve adottare non solo le misure di sicurezza previste dalla legislazione vigente, ma anche quelle ritenute necessarie alla luce delle cognizioni della migliore tecnologia e del

patrimonio di esperienza tipici di un determinato momento storico (45).

A lui spetta, dunque, “dotare le macchine utilizzate dei nuovi e più

sofisticati presidi infortunistici ed aggiornare la strumentazione aziendale per renderla più sicura e protettiva” (46).

La particolarità del lavoro e il patrimonio di esperienza di un determinato momento storico, infatti, sono due dei parametri con cui l’imprenditore deve adempiere l’obbligo di sicurezza, ora adeguando le relative misure alle caratteristiche e ai rischi specifici dell’attività imprenditoriale, tenendo conto del loro mutare nel tempo; ora integrando le norme antinfortunistiche con gli 








(41) C. SMURAGLIA, La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, III, Milano, 1974, pp.

83 e ss.


(42) Ult. op. cit., p. 85.


(43) G. NATULLO, La tutela dell’ambiente di lavoro, Torino, 1995, pp. 24 – 25.

(44) Pret., Torino 8 febbraio 1993 in Giur. it., 1994, I, 2, p. 281.

(45) Cass. 26 gennaio 1993, n. 937 in Riv. infort. e mal. prof. , 1993, p. 128; Cass. 8 febbraio 1993, n. 1523 in Not. Giur. lav., 1993, 352; Cass. 5 aprile 1993, n. 4083 in Giust. civ. Mass., 1993, p. 619; Cass. 27 settembre 1994, n. 10164 in Dir. prat. lav., 1994, 42, p. 2909; Cass. 16 giugno 1995, n. 6944, ivi, 1995, 32, p. 2120; Cass. 29 marzo1995, n. 3740 in Mass. Giur. lav., 1995, p. 359.


(19)

accorgimenti necessari a supplire a eventuale lacune normative, non essendo queste in grado di prevedere qualsiasi fattore di rischio; ora evitando, in particolare attraverso la conoscenza dell’evoluzione tecnica, l’obsolescenza delle misure di sicurezza, attraverso un loro adeguamento automatico al progresso scientifico e tecnologico.

Come afferma la Suprema Corte “in materia di sicurezza del lavoro il datore

di lavoro è tenuto ad uniformarsi alla migliore scienza ed esperienza del momento storico in quello specifico settore; nel caso in cui per i suoi limiti individuali non sia in grado di conoscere la migliore scienza ed esperienza, consapevole di tali limiti, deve avere l’accortezza di far risolvere da altri i problemi tecnici che non è in grado di affrontare personalmente” (47). Viene, dunque, individuato nell’imprenditore il destinatario diretto ed immediato degli obblighi di facere all’interno dell’azienda, e nel lavoratore il beneficiario degli interventi di prevenzione e di tutela. Quella del datore di lavoro è quindi una posizione di garanzia, inoltre l’obbligazione da lui assunta è di risultato, per la sua dimensione teleologica, sebbene il mancato conseguimento di questo non determina in via oggettiva ed automatica la sua

responsabilità (48).

Il contenuto dell’obbligo è rappresentato da ogni azione e omissione diretta a tutelare la sicurezza e la dignità del lavoratore, il cui adempimento presuppone la conoscenza dei pericoli necessaria per l’individuazione delle regole cautelari.

La comprensione dei rischi a sua volta implica una pianificazione della struttura aziendale, vale a dire un intervento organizzativo che stabilisca un collegamento fra le articolazioni dell’azienda. Un tale nesso tra tutela della sicurezza ed organizzazione imposto dall’art. 2087 c.c. presuppone una presenza attiva del datore di lavoro, da intendersi sia in senso fisico, sia in relazione ad una gestione oculata, con il ricorso alla prudenza e a tutte le misure imposte per legge (informazione, formazione, uso di attrezzature idonee).










(47) Cass. pen., sez. VI, 16 giugno 1995, n. 6944.


(48) MENGONI, Obbligazioni << di risultato >> e obbligazioni << di mezzi >> (studio critico ) in Riv. dir. comm., 1954, I, pp. 368 ss.


(20)

L’imprenditore, infatti, in base all’art. 2087 c.c., è responsabile non solo per

culpa in eligendo, ma anche per che per culpa in vigilando, ossia per la

mancata vigilanza sul rispetto da parte dei lavoratori delle misure di sicurezza. L’aspetto dell’organizzazione trova specifico riconoscimento nell’art. 28, d.lgs. n. 81 del 2008 che ha ad oggetto la valutazione dei rischi. La generalità e dunque l’ampiezza dell’art. 2087 c.c. emerge anche dagli obiettivi che la norma si prefigge, ossia la tutela della salute del lavoratore complessivamente intesa, così da ricomprendere la sua integrità sia fisica che psichica, dovendo tutelare la sua personalità che nel lavoro si esplica.

L’altra implicazione di una tale formulazione sta nella funzione di specificazione della legislazione speciale rispetto all’obbligo di sicurezza, sia in senso oggettivo che soggettivo, cioè sia in termini di contenuto che di destinatari dell’obbligo.

(21)

1.2. L’obbligo di sicurezza: disciplina di settore.

La specificazione è volta a coinvolgere tutti i soggetti interessati all’attività dell’impresa nell’attuazione delle misure di prevenzione, secondo il modello di una sicurezza diffusa, tipico della legislazione degli anni cinquanta.

Questo si caratterizza per la suddivisione del carico prevenzionistico su tutti coloro che in azienda sono titolari di una quota dei poteri di intervento e di organizzazione influenti, anche se marginalmente, sulle scelte di prevenzione.

Si tratta di un modello che commisura la quota del debito di sicurezza al

tantum di attribuzioni assegnate alle singole figure soggettive, secondo la

struttura gerarchica di impresa tipica del contesto socio–economico di quegli anni. In essa le competenze prevenzionistiche seguono la ripartizione dei poteri organizzativi e gestionali dall’alto verso il basso, in linea con il c.d. “principio di effettività” diretto all’attuazione prevenzionale delle misure necessarie di sicurezza e all’adattamento automatico della legislazione vigente ai mutamenti tecnologici, oltre che alla ricerca concreta delle singole responsabilità in materia di prevenzione all’interno dell’azienda.

La prevenzione rappresenta una species rispetto al genus della sicurezza, essendo ad essa strumentale.

Si tratta. infatti, di un complesso di disposizioni e accorgimenti applicati nei vari cicli lavorativi a difesa della salute del lavoratore e dell’integrità ambientale, allo scopo di rimuovere i fattori di rischio e tentando anche di far

fronte agli elementi di causalità, fatalità ed imprevedibilità (49).

Più nello specifico quello di prevenzione è un concetto polivalente dalla natura interdisciplinare, tanto da poter distinguere la prevenzione tecnica contro il verificarsi degli infortuni e delle malattie professionali; di prevenzione biologico–terapeutica diretta a proteggere gli individui già

infortunati (50); di prevenzione tecnologica, riferita all’istruzione e alla

qualificazione professionale del lavoratore, nell’ottica di una prevenzione di










(49) SMURAGLIA, La sicurezza del lavoro e la tutela penale, Milano, 1974.


(50) MIRALDI, Assicurazione e prevenzione nella lotta contro gli infortuni, in Rivista di diritto del lavoro, Milano, 1964, p. 360.


(22)

massa ed educativa, attuata fin dall’età scolare per creare una cultura della sicurezza (51).

Altri autori, distinguono tra cause oggettive e soggettive degli infortuni(52).

La nozione tradizionale di prevenzione tecnica è stata poi ulteriormente ampliata dalle innovazioni normative intervenute in attuazione delle direttive comunitarie e recepite dal d.lgs. n. 624/1994. Si sono così affermate nuove figure prevenzionali come quella informativa diretta a fornire ai lavoratori le necessarie istruzioni sui rischi dell’ambiente di lavoro e sulle misure di sicurezza, nonché sui pericoli specifici delle mansioni svolte ex art. 21 d.lgs. n. 624/1994; quella formativa diretta alla preparazione dei prestatori nel campo della sicurezza e salute; quella vigilata relativa alle ipotesi in cui appositi organi svolgono un controllo specifico, come il responsabile del servizio di prevenzione e protezione per la sicurezza ex artt. 8, 17 e 18 d.lgs. n. 624/1994. La prevenzione si caratterizza dunque per un “dinamismo

evolutivo” che comporta “il continuo emergere dal suo vecchio ceppo di sempre nuove ramificazioni” (53), tanto da dover ritenere le descritte distinzioni insufficienti e inidonee ad una visione completa degli elementi della prevenzione. Si tratta inoltre di una categoria interdisciplinare perché studiata dal diritto, dalla medicina, dalla sociologia e dalla statistica

Una tale complessità è però riconducibile a delle “esigenze unitarie e di

globalità” per il comune obiettivo rappresentato dalla protezione dell’uomo

contro ogni pregiudizio alla salute che possa scaturire dal lavoro (54).

La polivalenza della prevenzione coesiste con la presenza di due elementi costanti, quali l’evitabilità, intesa come possibilità di impedire il verificarsi dell’infortunio o quanto meno di differirlo e di attenuarne la gravità effettuale; nonché, con la prevedibilità intesa come possibilità di conoscenza anticipata del fatto verificabile.

Non sono, quindi, prevenibili i fatti imprevedibili e quelli inevitabili, cioè al di fuori della comune scienza ed esperienza.










(51) LEGA, Introduzione al diritto prevenzionistico, Milano, 1965, p. 3.

(52) PANCHERI, gli infortuni sul lavoro in Rassegna di medicina industriale, Milano, p. 180.


(53) A. PADULA, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro, Padova, 2003, p. 7.


(54) DI CERBO – SALERNO, La prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nella giurisprudenza, Padova, 1980 in Raccolta sistematica di giurisprudenza commentata, diretta dal Prof. Rotondi.


(23)

È proprio sul piano prevenzionale, inteso come profilo dell’effettività, che l’art. 2087 c.c. ha fallito il raggiungimento del suo scopo.

Piuttosto, il precetto è stato utilizzato a posteriori, cioè in sede di azione giudiziaria promossa dal lavoratore per chiedere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’inadempimento dell’obbligo di sicurezza da parte del

datore di lavoro (55).

In termini di onere della prova, come ha stabilito la giurisprudenza valorizzando al massimo le potenzialità operative della norma, al lavoratore spetta provare il danno ed il nesso causale; al datore di lavoro di aver fatto

tutto il possibile per evitare lo stesso (56).

Ciò implica lo svolgimento di un’attività di controllo e di vigilanza costante volta ad impedire comportamenti del lavoratore che potrebbero rendere inutili od insufficienti le cautele tecniche apprestate.

Così si stabilisce all’art. 4 sia del D.P.R. n. 547 del 1955 che del D.P.R. n. 303 del 1956 che sanciscono l’obbligo per datori di lavoro, dirigenti e preposti - nell’ambito delle rispettive competenze -, di “disporre ed esigere

che i lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”.

La prescritta vigilanza ha carattere sia impositivo che dispositivo, in quanto l’imprenditore deve pretendere l’applicazione delle misure di sicurezza usando l’autorità di cui è investito, ma anche adottando provvedimenti

sanzionatori a carico di lavoratori “riottosi” (57), arrivando fino all’estrema

conseguenza del licenziamento.

Per effetto di un tale obbligo di vigilanza, la colpa del lavoratore non è necessariamente un motivo sufficiente per esonerare il datore di lavoro da

responsabilità (58).

Infatti, “solo l’effettiva interruzione del rapporto di causalità tra infortunio e

un comportamento colpevole dell’imprenditore esclude la responsabilità di costui, non essendo sufficiente un semplice concorso di colpa del lavoratore,










(55) MONTUSCHI, La tutela della salute e la normativa comunitaria: l’esperienza italiana

in Tutela dell’ambiente di lavoro e direttive CEE, (a cura di) BIAGI, Rimini, 1991, p. 74.
 (56) Cass. 8 febbraio 1993, n. 1523 in Not. Giur. lav., 1993, p. 353; Cass. 6 aprile 1993, n. 3160 in Mass. giur. lav., 1993, p. 398.


(57) Cass. pen., sez. IV, 23 febbraio 1989, n. 2977 in Dir. prat. Lav. 1984, 14, p. 939.


(58) Cass. 18 gennaio 1991, n. 430 in Dir. prat. lav., 1991, p. 910; Cass. 8 febbraio 1993, n. 1523 in Not. Giur. lav., 1993, p. 352; Cass. 17 novembre 1993, n. 11351 in Dir. prat. lav., 1994, 6, p. 365.


(24)

ma occorrendo o una di lui condotta dolosa ovvero la presenza di un rischio effettivo generato da un’attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso”(59).

La Cassazione pone dunque una presunzione di colpa a carico del datore di lavoro il quale, per scagionarsi, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.

Detto rapporto si interrompe se l’evento dannoso è concretamente non prevedibile, come accade qualora il lavoratore esegua il proprio lavoro con modalità del tutto anomale, atipiche ed inconsuete e dunque assolutamente

imprevedibili (60).

Sempre nell’intento di specificare il generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., la legislazione degli anni cinquanta procede ad una sua ripartizione quadripartita individuando come obbligati pro quota le figure del datore di lavoro – principale garante della sicurezza -, del dirigente, del preposto e, infine, dello stesso lavoratore.

La ripartizione soggettiva del debito di sicurezza così profondamente articolata è una manifestazione dell’onere di programmazione della sicurezza introdotto dal D.lgs 624/1994 emanato sulla scorta dei principi elaborati in sede comunitaria.

È il c.d. modello di “gestione concertata della sicurezza” basato, piuttosto che su interventi specifici, su una visione globale della stessa che implica una conoscenza complessiva dei rischi nell’ottica di un progressivo miglioramento e adeguamento delle misure di prevenzione.

La conseguenza di una tale visione di insieme è il coinvolgimento di tutti i soggetti che gravitano nell’azienda e l’individuazione di figure diverse, anche esterne all’impresa, cui imputare compiti ora attuativi ora consultiva, nella prospettiva della massima efficienza e completezza dell’apparato

prevenzionistico (61).










(59) Cass. pen. Sez. IV, 27 settmbre 1994, n. 10164 in Dir. prat. lav.,1994, 42, p. 2909.
 (60) Cass. 15 febbraio 1991 in Riv. pen. 1991, p. 910; Cass. 17 novembre 1993, n. 11351 in

Dir. prat. lav., 1994, 6, p. 365; Cass. 23 marzo 1994, n. 3483 in Mass. giur. lav., 1994, p. 440.


(61) L. GALANTINO, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza in la sicurezza del lavoro,Roma, 1999, p. 34. 


(25)

Al contempo all’art. 2087 c.c. è stata attribuita anche una funzione sussidiaria rispetto alle successive norme delle leggi speciali ogniqualvolta

queste si rivelino insufficienti od obsolete (62).

È, invece, da considerarsi superata la posizione della dottrina meno recente che prevede l’applicazione di principi di buona fede e correttezza in questo ambito, apparendo superfluo un tale richiamo, visto che l’obbligo di

protezione è direttamente sancito all’art. 2087 c.c. (63).

Altrettanto riduttiva è la tesi che attribuisce all’art. 2087 c.c. funzione rafforzativa del generico dovere di sicurezza sancito dai principi di buona fede e correttezza; piuttosto questi dovrebbero essere utilizzati quali

strumenti per la sua correttezza applicazione (64).

Infine, grazie all’ampiezza e alla dinamicità dell’art. 2087 c.c., ai principi costituzionali sulla salute e sicurezza del lavoro è consentito di attagliarsi a ogni possibile situazione.

Le norme costituzionali tradizionalmente rilevanti in questo ambito sono gli art. 2, 4, 32, 35 e 41. L’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali tra, le quali, è ricompreso il luogo di lavoro, essendo la prestazione di lavoro, non solo il momento di maggiore esposizione al rischio, ma anche di maggiore espressione della personalità dell’individuo. Inoltre la norma, in virtù del principio di solidarietà politica, economica e sociale che pone a fondamento dell’attività delle diverse formazioni sociali, esprime un’esigenza di tutela delle categorie più deboli anche all’interno delle aziende.

L’art. 4 Cost., nell’attribuire alla Repubblica il compito di promuovere le condizioni necessarie a rendere effettivo il diritto al lavoro, ricomprende implicitamente tra queste la garanzia di un idoneo ambiente di lavoro.

Sempre generica è la protezione disposta dall’art. 35 Cost., il quale, implicitamente ricomprende tra le forme del lavoro anche quella relativa alla sua esplicazione nelle condizioni di massima sicurezza.

L’art. 32 Cost. rileva nella misura in cui tutela la salute come “diritto

fondamentale dell’individuo e interesse della collettività”, concepito dunque










(62) G. DE FALCO, Sicurezza del lavoro, Roma, 1999, p.p. 12 – 13.


(63) LOY, linee di tendenza della normativa italiana in materia di tutela della salute, in Quad. dir. lav. rel. ind., Torino, 1993, p. 12. 


(26)

in una prospettiva soggettivistica e oggettivistica o pubblicistica, cioè, sia

come diritto soggettivo che come interesse della collettività (65). Il raccordo

tra la tutela della sicurezza sul lavoro e la tutela della salute sta nel ritenere la prima un momento essenziale della seconda.

L’attenzione che il datore di lavoro deve avere per lo stato di salute del lavoratore si traduce nell’obbligo di adottare le misure prevenzionistiche necessarie a tutelare la personalità sia fisica che morale del prestatore di lavoro. In via esemplificativa ciò implica il divieto di forme di lavoro alienante o ripetitivo; o l’obbligo di adozione da parte del datore di lavoro, in caso di impedimento fisico del lavoratore, di diverse modalità di esecuzione del lavoro con esso compatibili, oltre che con l’organizzazione aziendale. Si

pensi alla possibilità di svolgere l’attività lavorativa in posizione seduta (66).

Poiché il bene della salute è oggetto di un autonomo diritto primario assoluto, il risarcimento del danno per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono sull’idoneità a produrre reddito, ma deve ricomprendere il danno biologico, anche qualora questo derivi dalla violazione dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c..

Si deve cioè aver riguardo alla menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua dimensione e in tutte le sue funzioni: sociale, culturale ed estetica.

Dal combinato disposto dell’art. 32 cost. e dell’art. 2043 c.c. deriva la responsabilità aquiliana del datore di lavoro, ogniqualvolta da un infortunio o da una malattia deriva una patologia.

L’azione per violazione del principio del neminem laedere concorre con quella contrattuale, come confermato da una copiosa casistica di giurisprudenza.

Si pensi, in via esemplificativa, alla costruzione e alla vendita di un apparecchio difettoso, costruito in violazione delle norme di legge sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Il venditore ha in tal caso una responsabilità contrattuale nei confronti del compratore ed extracontrattuale verso il terzo per i danni che siano derivati 








(65) G. DE FALCO, Sicurezza del lavoro, Roma, 1999, p. 11.
 (66) Cass. 22 luglio 1993, n. 8152 in Mass. giur. lav., 1994, p. 63.


(27)

dall’uso dell’apparecchio (67); come anche l’impresa che ha imbottigliato ed ha immesso nel mercato una bibita gassata che abbia provocato danni al

rivenditore finale (68).

La peculiarità dell’azione extracontrattuale è quella di porre a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva. L’azione contrattuale invece si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c. e limita il risarcimento ai danni prevedibili al momento

della nascita dell’obbligazione (69).

L’art. 41 Cost., infine, impone di contemperare l’iniziativa imprenditoriale con l’esigenza indefettibile di salvaguardia della salute del lavoratore, vietando di esercitare la libera iniziativa economica privata in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

I suddetti principi hanno rappresentato e rappresentano una linea guida per il successivo legislatore, soprattutto nella misura in cui fanno della prevenzione un interesse pubblico e di conseguenza un obiettivo essenziale della comunità, in grado di trascendere la sfera soggettiva del singolo lavoratore.

1.3 Dalla normativa tecnica di settore degli anni ‘50 alla programmazione della sicurezza del lavoro.

Il legislatore del 1942 nel formulare l’art. 2087 c.c., ha fissato in poche battute concetti essenziali, di ampio respiro e ancora oggi attuali, in materia di tutela della sicurezza del lavoro.

La norma è, infatti, tradizionalmente intesa quale fondamento del cosiddetto obbligo di sicurezza, in quanto rappresenta la summa dei principi essenziali in materia di sicurezza del lavoro ed è posta a chiusura del sistema per la sua

forza espansiva (70).










(67) Cass. civ. 10 novembre 1970, n. 2337 in Giur. it. 1973, I, p. 1206.


(68) Cass. civ. 13 marzo 1980, n. 1696 in Giust. civ. 1980, I, p. 1915; conforme: Cass. civ. 27

febbraio 1980, n. 1376 in Giur. it. 1980, I, 1, p. 1459.


(69) A. PADULA, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro, Padova, 2003, p. 87.
 (70) G. DE FALCO, Sicurezza sul lavoro, Roma, 1999, p. 12. 


(28)

Tuttavia, proprio una tale ampiezza, già dal secondo dopoguerra, si è rivelata inadeguata a fornire un quadro precettivo sufficiente a disciplinare la molteplicità delle attività lavorative e dei rischi conseguenti alle stesse, in tema di sicurezza del lavoro.

Più precisamente, a rimanere insoddisfatte erano le esigenze di predisposizione di misure di prevenzione degli specifici rischi di infortunio o malattia professionale. Si rendeva cioè necessaria un’adeguata regolamentazione delle modalità di esecuzione delle prestazioni pericolose che consentisse di specificare, anche sotto l’aspetto tecnico, il generico obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. .

È su queste premesse e in conseguenza dell’evoluzione dell’industria e delle attività produttive, nonché dell’aumento del peso sociale delle istanze sindacali dei lavoratori, che si è giunti agli interventi legislativi degli anni

cinquanta (71).

Con la legge 112 febbraio 1955, n. 51, il Governo è stato delegato ad emanare norme generali e speciali in materia di prevenzione degli infortuni, quali: il d.p.r. 27 aprile 1955, n. 547, recante norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; il d.p.r. 19 marzo 1956, n. 302, contenente norme integrative delle precedenti; il d.p.r. 19 marzo 1956, n. 303, recante norme generali per l’igiene del lavoro; il d.p.r. 7 gennaio 1956, n. 164, per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni; il d.p.r. 20 marzo 1956, n. 320 per la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro in sotterraneo; il d.p.r. 20 marzo 1956, n. 321, per la prevenzione degli infortuni e l’igiene nei cassoni ad aria compressa; il d.p.r. 20 marzo 1956, n. 322 per la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nell’industria della cinematografia e della televisione; il d.p.r. 20 marzo 1956, n. 323 per la prevenzione degli infortuni sul lavoro negli impianti telefonici.

Successivamente, con la legge delega 31 dicembre 1962, n. 1860 e il d.p.r. 13 febbraio 1964, n. 185 sono state dettate norme sulla sicurezza degli impianti e la protezione sanitaria dei lavoratori e delle popolazioni, contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti derivanti dall’impiego pacifico dell’energia nucleare.










(71) L. FANTINI – A. GIULIANI, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 2011, p. 3.


(29)

Si tratta di una legislazione speciale contenente norme di settore, che ha specificato tale obbligo sotto il profilo oggettivo e soggettivo, cioè per quanto riguarda il contenuto dell’obbligo di sicurezza e ampliando la sfera dei suoi destinatari, allo scopo di coinvolgere tutti i soggetti interessati all’attività di impresa nell’attuazione delle misure di prevenzione.

Vengono, infatti, assoggettati alla nuova disciplina tutte le attività industriali, agricole e commerciali alle quali sono addetti i lavoratori subordinati o ad essi equiparati; in particolare l’obbligo d sicurezza viene riferito anche ai costruttori di macchine, attrezzature e impianti.

Più in generale nella sua attuazione, la prima volta, vengono coinvolti anche i lavoratori e non solo i datori di lavoro, dirigenti e preposti.

In particolare i d.p.r. n. 547/1955 e n. 303/1956 sono stati i primi provvedimenti a stabilire obblighi a carico dei lavoratori in materia di sicurezza, superando così l’impostazione del codice civile incentrata sull’obbligo di sicurezza dell’imprenditore.

Le disposizioni più significative in questo senso sono l’art. 6 del d.p.r. n. 547/1955 e l’art. 5 del d.pr. n. 303 del 1956, di cui il primo prevedeva l’obbligo di osservare le misure di sicurezza previste dalla legge o impartite dal datore, di usare con cura i dispositivi di sicurezza e segnalare immediatamente le deficienze di detti dispositivi e gli altri pericoli di cui venisse a conoscenza; il divieto di rimuovere o modificare i dispositivi di sicurezza e di compiere di propria iniziativa operazioni o manovre non di propria competenza, che possano compromettere la sicurezza; il secondo riproponeva sostanzialmente il medesimo contenuto.

La necessità di coinvolgere i lavoratori nell’attività di salvaguardia della sicurezza si giustifica con l’esigenza di proteggerli dalla loro stessa imprudenza e di impedire loro di mettere in pericolo la salute degli altri lavoratori o dei terzi; nonché con il carattere generale degli interessi posti a

tutela delle disposizioni in questa materia (72).










(72) C. SMURAGLIA, La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, Milano, 1974, p. 92; L.

RIVA – SANSEVERINO, Libro Quinto del lavoro, sub art. 2087 in Commentario del Codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1969, p. 100; G. PERA, Responsabilità dell’imprenditore per omessa tutela della personalità del lavoratore in AA.VV:, L’organizzazione di lavoro nell’impresa e le responsabilità dell’imprenditore, Milano, 1970, p. 198; V. MARINO, La responsabilità del datore per infortuni e malattie da lavoro, Milano, 1990, p. 145. 


(30)

È questa un’impostazione di natura pubblicistica che non contempla la rilevanza disciplinare delle violazioni degli obblighi di cui agli artt. 6 del d.p.r. n. 547/1995 e 5 del d.p.r. n. 303/1956, considerati nell’ambito del contratto individuale di lavoro.

L’inserimento di tali violazioni tra i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare è avvenuta in primis ad opera della dottrina, già nei tempi

immediatamente successivi all’emanazione delle norme (73).

Più recentemente, ma sempre prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 624/1994 e con esclusivo riferimento alle norme dei d.p.r. del 1955 – 56, il Marino ha ammesso la responsabilità disciplinare del lavoratore per la violazione degli

obblighi di sicurezza (74).

In senso contrario, lo Smuraglia, il quale fa espresso riferimento solo all’eventuale responsabilità penale del lavoratore per i reati di cui agli artt.

451 e 437 c.p. (75).

Una tale necessità in verità era già stata posta in risalto in dottrina molti anni prima da autori come Baldi, il quale osservava come “i congegni protettivi a

nulla servono se sono rimossi; gli ordini nulla governano se non sono eseguiti; i regolamenti di fabbrica, in quella parte in cui disciplinano il comportamento degli operai in relazione a rischi e a processi dati, a nulla giovano e si possono impunemente violare”(76).

Tali conclusioni sono state fatte proprie dalla giurisprudenza con ritardo, poiché è solo a partire dai primi anni settanta che questa ha iniziato a statuire in materia di sanzioni disciplinari.

Una decisione significativa è quella che ha legittimato il licenziamento disciplinare di un lavoratore che si era più volte rifiutato di indossare un

dispositivo di protezione, quale la mascherina antipolveri (77).










(73) L. RIVA - SANSEVERINO, Libro Quinto del lavoro, sub art. 2087 in Commentario del

Codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna –Roma, 1969, p. 100.


(74) V. MARINO, la responsabilità del datore per infortuni e malattie da lavoro, Milano,

1990, p. 145.


(75) C. SMURAGLIA, La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, Milano, 1974, p. 92; L.

RIVA – SANSEVERINO, Libro Quinto del lavoro, sub art. 2087 in Commentario del Codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna –Roma, 1969, p. p. 92-93.


(76) G.M. BALDI, Il diritto degli infortuni e il problema politico in Dir. prat. comm., I,

1932, p. 340.


(77) Sentenza Cassazione 26 gennaio 1994, n. 774 in Riv. it. dir. lav.,1995, p. 118 ss. con nota di O. BONARDI, Rifiuto da parte del lavoratore di misure di protezione e

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