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L’efficacia esimente dalla responsabilità amministrativa dei modelli di organizzazione e di gestione.

Modelli di Gestione

2.4. L’efficacia esimente dalla responsabilità amministrativa dei modelli di organizzazione e di gestione.

Il criterio soggettivo di imputazione della responsabilità all’ente collettivo è individuato agli articoli 6 e 7 del D.lgs 231/01. Tali norme richiedono che il reato (omicidio o lesioni) sia commesso o da un soggetto in posizione apicale o da un subordinato, nell’interesse dell’ente medesimo e che sia

frutto di una “cattiva organizzazione” (168).

È cioè necessario che questo non abbia adottato ed efficacemente attuato i modelli di organizzative, di gestione e di controllo, idonei a scongiurare tali illeciti, così come previsti all’art. 30, D.lgs 81/08.

Tale norma, pur non arrivando a definirne la struttura, ne articola più dettagliatamente il contenuto e l’ambito di estensione rispetto a quanto era previsto prima di detto intervento legislativo. Fino ad allora infatti, il legislatore si era limitato a definire il contenuto minimo dei modelli di organizzazione, che venivano poi adottati sulla base dei codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti (art. 6, comma 3, d.lgs n. 231/01).










(167) Confindustria Assoconsult, L’attuazione del D.lgs 231/01 da parte delle imprese, op.

cit., pp. 284 ss.


(168) DONATO CASTRONUOVO, La responsabilità degli enti collettivi per omicidio e lesioni alla

luce del d.lgs. n. 81 del 2008, in La prevenzione dei rischi e la tutela della salute in azienda, (a cura di) F. Basenghi, Luigi E. Golzio, A. ZINI, Wolters Kluwer Italia, 2009, p. 181.


Ai fini dell’integrazione della responsabilità, non è necessario che l’interesse e il vantaggio per l’ente siano esclusivi, purché dalla commissione del reato lo stesso ricavi un beneficio concorrente.

In quest’ultimo caso però la responsabilità sarà attenuata, con conseguente riduzione della sanzione pecuniaria al 50%.

Si tratta di una responsabilità di tipo amministrativo, di carattere patrimoniale, diretta e autonoma.

Ad assicurare il rispetto del principio di personalità, che esige la colpevolezza del soggetto punibile, è il collegamento tra la persona fisica autrice materiale dell’illecito e l’ente beneficiario. Gli artt. 5 e 7, d.lgs 231/01 richiedono, infatti, che l’autore dell’illecito sia un soggetto che ha agito per l’ente, con funzioni di rappresentanza, amministrazione o di direzione dello stesso, o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, o che ha esercitato di fatto poteri di gestione o di controllo.

In questi casi la colpevolezza dell’ente è presunta, salvo superare la presunzione con la prova, a carico dell’ente medesimo, che il soggetto non abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente, ma, fraudolentemente, nel proprio esclusivo interesse.

Più nello specifico, l’ente deve dimostrare di aver adottato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; di aver vigilato sul loro funzionamento e sulla loro osservanza, attraverso un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo; deve altresì dimostrare che il reato è stato commesso da un soggetto in posizione apicale, eludendo fraudolentemente detti modelli.

Dibattuta è la questione sulla configurabilità della responsabilità amministrativa dei gruppi di società e, in modo particolare, della capogruppo. Merita a questo proposito distinguere i gruppi di società governati da holding, pure che si limitano a detenere e ad amministrare le partecipazioni azionarie, da quelli gestiti da holding operative che esercitano una vera e propria attività di direzione e coordinamento delle partecipazioni.

In quest’ultimo caso, la holding esercita, attraverso le società controllate, una vera e propria attività imprenditoriale, partecipando molto spesso, attraverso i suoi amministratori, alle scelte decisionali del gruppo da essa controllato. Si deve tuttavia escludere che sussista in capo alla società controllante una responsabilità oggettiva, in base alla quale imputare alla holding fatti e reati commessi dalla controllata.

La responsabilità dell’ente è diversamente disciplinata a seconda che del reato sia responsabile un soggetto in posizione apicale o subordinata, poiché l’efficacia dell’ente è chiaramente diversa a seconda del ruolo assolto dal reo nel contesto organizzativo dell’ente.

Nel modello tradizionale di ente collettivo di più ridotte dimensioni con struttura manageriale, i soggetti in posizione apicale sono espressione della volontà sociale; pertanto risulta impossibile una netta separazione di quest’ultima dal loro operato. Si pensi, per esempio, alle società gestite da un amministratore unico, ovvero a quelle dove esistono consigli di amministrazione formati da poche persone, spesso coincidenti con la proprietà sociale.

Invece, nel caso delle situazioni societarie più complesse a struttura orizzontale, con un notevole livello di delega, risulta più difficoltoso identificare la volontà sociale con i soggetti in posizione apicale. In questi casi infatti questi ultimi non risultano rappresentativi dell’ente, per cui l’imputazione a quest’ultimo dei loro comportamenti delittuosi implicherebbe il ricorso a criteri di imputazione oggettiva. In questo modo la responsabilità deriverebbe dall’immedesimazione tra la persona giuridica e le persone fisiche sue esponenti.

Nel novero dei soggetti apicali sono ricompresi gli amministratori, soprattutto quelli con poteri di rappresentanza dell’ente; gli amministratori delegati, ferma restando la responsabilità dell’intero consiglio di amministrazione; gli amministratori dipendenti, cioè quelli con i quali intercorre anche un rapporto di lavoro subordinato, tutti coloro a favore dei quali vi è una delega di funzioni o trasferimento di poteri.

Dall’elenco si devono invece escludere i componenti del collegio sindacale, perché non investiti di ruoli di gestione e controllo e i membri del consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico.

Nel caso in cui il responsabile sia un soggetto in posizione apicale, il modello organizzativo deve essere strutturato in modo da prevenire l’illecito penale maturato in una fase di formazione ed attuazione delle decisioni dell’ente. Esso dovrà essere preventivamente adottato e successivamente efficacemente attuato; dunque già approvato e reso operativo al momento della commissione del reato. Spetta all’Autorità giudiziaria valutare l’idoneità del documento a svolgere la funzione di prevenzione che la legge gli attribuisce; nonché le concrete ed effettive modalità con cui lo stesso è reso operante all’interno dell’ente.

Ne consegue che un modello inidoneo, anche se scrupolosamente attuato, non sarà in grado di sollevare l’ente dalla responsabilità; analoga conclusione se il modello, sebbene idoneo, sia lasciato di fatto sulla carta. Affinché, l’ente vada esente da responsabilità è inoltre necessario che sia stato creato l’organismo di controllo, incaricato della vigilanza sul funzionamento, sull’osservanza e sull’aggiornamento del documento.

In relazione al fatto di reato, in particolare, è necessario che l’organismo di controllo non abbia esercitato la sua funzione negligentemente.

Infine, l’ente andrà esente da responsabilità nel caso in cui il modello organizzativo sia stato fraudolentemente eluso dalla persona responsabile all’atto della commissione di taluno dei reati presupposto.

Ciò si riflette anche sulla ripartizione dell’onere della prova. Infatti, se il reato è commesso da un vertice si presume che la responsabilità soggettiva dell’ente sia accertata; se invece la volontà dell’ente diverge dalla volontà fraudolenta del soggetto apicale, dovrà essere la società stessa a dimostrare la sua estraneità, provando di aver adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi.

L’ente dovrà altresì vigilare sull’effettiva operatività dei modelli avvalendosi di un struttura dotata di poteri autonomi e dimostrare che il comportamento integrante il reato è stato posto in essere dal vertice eludendo fraudolentemente i suddetti modelli.

Se invece, il reato è commesso da soggetti in posizione subordinata, naturalmente destinatari di forme di controllo ad opera dei propri superiori, la responsabilità dell’ente si configura in presenza delle seguenti condizioni:

la colpevolezza del soggetto subordinato; la commissione del reato nell’interesse e a vantaggio dell’ente; l’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza da parte dei soggetti in posizione apicale.

In tale inosservanza l’art. 7, d.lgs 231/2001, individua il criterio di imputazione soggettiva della responsabilità dell’ente (comma 1), da escludersi in caso di adozione ed efficace attuazione di un modello organizzativo idoneo alla prevenzione dei reati (comma 2). Si tratta della responsabilità per culpa in vigilando che nel nostro ordinamento trae origine dalla disciplina sulla responsabilità dei padroni e committenti di cui all’art. 2049 c.c..

A differenza di quanto previsto per la responsabilità per i reati commessi da soggetti in posizione apicale, in questo caso la presunzione è a favore dell’ente, per cui è onere dell’accusa provare la mancata adozione o la non efficace attuazione del modello organizzativo. Quest’ultimo deve inoltre prevedere “misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel

rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio” (art. 7, comma 3). A questo scopo sono richieste due ulteriori

condizioni rappresentate dalla verifica periodica del modello, così da garantire un costante aggiornamento e da scoprire eventuali violazioni; nonché da un sistema disciplinare che ne assicuri l’efficacia.

Sebbene la responsabilità dell’ente presupponga la commissione di un reato da parte di una persona operante al suo interno, nel suo interesse e a suo vantaggio, tuttavia, quello dell’ente è un titolo autonomo di responsabilità rispetto a quella dell’autore del reato, non solidale con quest’ultimo. Così si deduce dall’art. 8, idem, che prevede la responsabilità dell’ente anche quando l’autore del reato non sia identificato o non sia imputabile, per evitare la sua impunità ogniqualvolta la complessità della struttura organizzativa sia di ostacolo all’accertamento della responsabilità dell’autore dell’illecito.

Dal carattere autonomo del titolo di responsabilità dell’ente ne discende la sua responsabilità, anche nel caso in cui il reato sussista, ma si estingua, con la sola eccezione per l’amnistia che non consente di procedere neanche nei confronti dell’ente.

A quest’ultimo è però consentito rinunciare ad un tale effetto estintivo, qualora abbia un interesse a un’assoluzione nel merito; allo stesso modo la rinuncia all’amnistia può provenire dalla persona fisica, senza che questo pregiudichi la posizione dell’ente.

Il sistema della responsabilità di quest’ultimo corre il rischio di essere eluso in caso di trasformazione, fusione, scissione e cessione.

Il d.lgs 231/2001 nel disciplinare queste vicende modificative ha, da un lato tentato di evitare questo effetto elusivo, dall’altro di escludere effetti eccessivamente penalizzanti, per evitare di disincentivare quegli interventi riorganizzativi privi di intenti elusivi.

Nel caso della trasformazione, resta ferma la responsabilità dell’ente trasformato per i fatti di reato anteriormente commessi (art. 28, idem); dunque permane la responsabilità per le obbligazioni sociali e l’assoggettamento alle sanzioni amministrative per gli illeciti dipendenti da reato, commessi anteriormente alla trasformazione.

Nell’ipotesi della fusione per incorporazione invece, in applicazione del principio di successione universale dei diritti e degli obblighi, l’ente incorporante risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti all’operazione (art. 29, idem).

Nel caso specifico delle sanzioni interdittive, per evitare che le misure punitive possano coinvolgere aziende sane, si è stabilito di circoscriverle alla

specifica attività alla quale si riferisce l’illecito (art. 14, comma 1, idem) (169)

e si è consentito all’ente risultante dalla fusione di chiederne la sostituzione con la sanzione pecuniaria, seppur in presenza di determinate condizioni. La disciplina della scissione invece, varia a seconda che questa sia parziale o totale.

È parziale se caratterizzata dal trasferimento di una parte del patrimonio della società scissa; è totale in caso di trasferimento dell’intero patrimonio a favore di una o più società preesistenti o di nuova costituzione.

In caso di scissione parziale, non comportando questa l’estinzione della società scissa, che continua ad esistere seppur con un patrimonio ridotto, le 








(169) S. GENNAI, A. TRAVERSI, La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano, 2001.


sanzioni interdittive potranno applicarsi agli enti beneficiari della scissione medesima (art. 30, comma 1, idem).

Questi ultimi, sia la scissione totale o parziale, sono solidamente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per reati anteriormente commessi, con il limite del valore effettivo del patrimonio netto trasferito a ciascuno di essi. Tale limite non si applica agli enti risultanti dalla scissione, beneficiari, anche solo in parte, del ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il reato (art. 30, comma 2, idem).

Quanto alla disciplina sull’applicabilità, le sanzioni interdittive, relative ai reati commessi anteriormente alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto, sono riferibili ai soli enti ai quali è rimasto, anche solo in parte, il ramo di attività nel cui ambito è stato commesso il reato.

Per quanto riguarda la commisurazione della sanzione pecuniaria, si deve aver riguardo alle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente originariamente responsabile e non a quelle dell’ente cui la sanzione stessa è posta a carico dopo la scissione (art. 31, idem).

Nel caso della cessione dell’azienda nella cui attività è stato commesso il reato, il cessionario è solidamente obbligato al pagamento della sanzione pecuniaria, nei limiti del valore dell’azienda acquistata e salvo il beneficio della preventiva escussione dell’ente cedente (art. 33, comma 1, idem). Al cessionario non si applicano le sanzioni interdittive (art. 33, comma 2,

idem).

Al momento dell’introduzione di questa innovativa forma di responsabilità, il legislatore – fino all’intervento legislativo del 2007 - assunse un atteggiamento minimalista, escludendo dal catalogo dei reati presupposto i delitti contro l’incolumità pubblica del titolo VI del Codice penale; quindi neppure quelli previsti dagli artt. 437 e 451 c.p. (rimozione od omissione dolosa e colposa di cautele contro gli infortuni sul lavoro); né i delitti colposi di omicidio e lesioni ex artt. 589 e 590 c.p. commessi con violazione delle norme lavoristiche.

Un tale atteggiamento, sebbene in contrasto con le esigenze preventive legate al rango primario dei beni giuridici coinvolti in materia di sicurezza del lavoro (vita e integrità fisica), ha avuto comunque dei sostenitori. Taluni Autori erano infatti orientati a valutare positivamente il self-restraint iniziale

del legislatore, in quanto consistente in una sorta di “applicazione” “sul

campo” del principio di frammentarietà (170).

La lacuna relativa al sistema di tutela della sicurezza del lavoro è stata in parte colmata con il nuovo art. 25 septies, introdotto con l’art. 9 della legge 3 agosto 2007, n. 123, che sanziona le persone giuridiche in caso di “omicidio

colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro”

(rispettivamente, art. 589 e 590, comma 3, c.p.).

Tale norma è stata poi sostituita dall’art. 300 del d.lgs 81/01, che contiene altre importanti disposizioni relative alla responsabilità degli enti per i delitti colposi in questione. Nonostante un tale allargamento del catalogo dei reati presupposto, rimangono alcune insufficienze residue. Per ragioni di coerenza interna e di completezza del sistema prevenzionistico, resta, infatti, auspicabile un’estensione della responsabilità dell’impresa anche ai delitti di comune pericolo contro la salute o l’incolumità pubblica, rilevanti in materia

lavoristica (art. 437 e 451 c.p. (171).

Significativa al riguardo è la proposta di un reato di “esposizione a pericolo

dei lavoratori per effetto di violazione di misure a tutela della sicurezza o della salute sul lavoro”, in sostituzione degli attuali artt. 437 e 451 c.p., con

estensione della responsabilità anche agli enti collettivi(172).

Altra possibilità da valutare è rappresentata dall’estensione della responsabilità dell’ente anche nei confronti delle contravvenzioni prevenzionistiche, le quali costituiscono sia il possibile contenuto normativo della colpa dei delitti di evento morte o lesioni, sia un elemento significativo

della “colpa di organizzazione” dell’ente collettivo(173).










(170) DE VERO, La responsabilità dell’ente collettivo dipendente da reato: criteri di imputazione e qualificazione giuridica in GARUTI, Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, Padova, 2002, pp. 6, ss.


(171) DONATO CASTRONUOVO, La responsabilità degli enti collettivi per omicidio e

lesioni alla luce del d.lgs. n. 81 del 2008, op. cit., p.p. 159, ss.


(172) DONINI, Modelli di illecito penale minore in DONINI-CASTRONUOVO, La riforma

dei reati contro la salute pubblica. Sicurezza del lavoro, sicurezza alimentare, sicurezza del prodotto, Padova, 2007, pp. 297, ss.

(173) CASTRONUOVO, Sicurezza del lavoro in DONINI-CASTRONUOVO, La riforma dei reati contro la salute pubblica. Sicurezza del lavoro, sicurezza alimentare, sicurezza del prodotto, Padova, 2007, pp. 17-19; CASTRONUOVO, salute e sicurezza sul lavoro. Un breve studio di diritto penale comparato ed europeo in FOFFANI, Diritto penale comparato e internazionale: prospettive per il XXI secolo. Omaggio a HANS-Heinrich Jescheck per il 92° compleanno, Milano, 2006, pp. 243 ss.


Di notevole interesse è anche il progetto Pisapia, nella versione definitiva consegnata al Ministro della giustizia il 21 marzo 2008, contenuto nello “Schema di disegno di legge recante delega legislativa al Governo della

Repubblica per l’emanazione della parte generale di un nuovo codice penale”.

L’art. 56 del progetto – intitolato Responsabilità degli enti – estende il novero dei reati presupposto “dei quali debba rispondere la persona

giuridica se commessi nel suo interesse” ai reati in materia di sicurezza del

lavoro e ambientale” (art. 56, lett. e).

Deve però trattarsi di illeciti penali resi possibili da una lacuna organizzativa o dalla carenza di sorveglianza o controllo, ovvero commessi su indicazione dei vertici organizzativi o gestionali (art. 56, lett. d)); debbono inoltre essere commessi nell’interesse dell’impresa, mentre sparisce il riferimento al vantaggio come criterio di imputazione della responsabilità degli enti collettivi (art. 56, lett. c)).

La formulazione adottata nell’art. 56 sembra estendere la categoria dei reati- presupposto, almeno in parte, anche alle attuali contravvenzioni in materia di sicurezza, sebbene Pisapia abbandoni la tradizionale bipartizione tra delitti e

contravvenzioni (174).

Infine e più in generale, sembrerebbe opportuna una responsabilità degli enti collettivi con riferimento a tutti gli ambiti di attività, che implichino la gestione organizzata di fattori di rischio per i beni della vita e incolumità (175).

L’estensione del tutto prevedibile verso i reati presupposto dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose introdotta dall’art. 9, L. n. 123 del 2007 richiede un’adeguata riflessione da parte degli interpreti.

In particolare, diverse disposizioni della parte generale della disciplina della responsabilità degli enti collettivi (in particolare del capo I, sezione I, del d.lgs n. 231 del 2001) necessitano di in coordinamento con il profilo










(174) Il Progetto Pisapia in www.giustizia.it.


(175) DONATO CASTRONUOVO, responsabilità degli enti collettivi per omicidio e lesioni alla luce del d.lgs. n. 81 del 2008, op. cit., p. 164.


soggettivo colposo dei nuovi reati – presupposto e, più in generale, con gli

aspetti peculiari della sottostante normativa in materia di sicurezza (176).

Più nello specifico, l’intervento legislativo del 2007 presenta come punti critici: il significato che i criteri oggettivi d’imputazione dell’interesse e del vantaggio – previsti dall’art. 5, d.lgs n. 231/2001 – possono assumere con riferimento alla natura colposa dei reati-presupposto; la necessità di un coordinamento tra le disposizioni del d.lgs 231/2001 riguardanti i modelli organizzativi con la disciplina prevenzionistica, di cui al d.lgs. n. 626 del 1994; l’interpretazione delle rigorosissime conseguenze sanzionatorie, in particolare con riferimento alla sanzione pecuniaria prevista in misura fissa e nel massimo consentito in via generale dall’art. 10, d.lgs 231/2001.

Quanto al primo dei suddetti punti critici, è evidente come i requisiti dell’interesse (che implica una proiezione finalistica ex ante) e del vantaggio (risultato apprezzabile ex post), mal si prestano a costituire il presupposto della responsabilità dell’ente per un reato colposo, in quanto strutturalmente fondato sull’inosservanza di una cautela e sulla prevedibilità ed evitabilità del risultato (177).

In questo senso si è espresso Santoriello, per il quale “il criterio

dell’interesse risulta [...]incompatibile con i reati di natura colposa, proprio perché non è configurabile rispetto ad essi una finalizzazione soggettiva dell’azione” (178).

Il legislatore ha, infatti, mancato di adeguare i criteri oggettivi di imputazione di cui all’art. 5 del d.lgs 231/01 ai nuovi reati presupposto. Ne deriva una configurabilità della responsabilità dell’ente solo nelle ipotesi in cui l’omicidio colposo o le lesioni colpose siano stati commessi – dal 








(176) PALIERO, Per ambiente e lavoro il rebus della colpa in Il Sole-24 Ore, 26 aprile 2007, p. 27; ALDROVANDI, Responsabilità amministrativa degli enti per i delitti in violazione di norme antinfortunistiche in ISL, n.10, 2007, p. 571; ZANALDA, La responsabilità degli enti per gli infortuni sul lavoro, prevista dalla legge 3 agosto 2007, n. 123 in Resp. amm. soc. enti, n. 4, 2007, pp. 97 ss.; BRICCHETTI-PISTORELLI, Esclusione solo in caso di lesioni lievi in Guida al dir., n. 35, 2007, pp. 42 ss.; SAMTORIELLO, Violazioni amm. soc. enti, n. 1, 2008, pp. 161 ss. 


(177) PALIERO, Per ambiente e lavoro il rebus della colpa in Il Sole – 24 Ore, 26 aprile

2007, p. 27; ALDROVANDI, Responsabilità amministrativa degli enti per i delitti in violazione di norme antinfortunistiche in ISL, n. 10, 2007, p. 571.


(178) SANTORIELLO, Violazioni delle norme antinfortunistiche e reati commessi

nell’interesse o a vantaggio della società in Resp. amm. soc. enti, n. 1, 2008, pp. 161 ss.. Anche nelle Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.lgs n. 231/2001 pubblicate da Confindustria il 31 marzo 2008, p. 139; anche in www.confindustria.it.


soggetto in posizione apicale o da quello sottoposto – nell’interesse o a