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Il diritto di accesso alle vittime in situazioni di conflitto è una parte fondamentale del Diritto Internazionale Umanitario. E’ il DIU che permette che avvenga l’incontro tra il personale di soccorso e coloro che si trovano in condizioni di bisogno, garantendo che l’azione si svolga in condizioni di legittimità.

A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, il diritto di accesso alle vittime è stato codificato sulla base del principio che riconosce ad ogni persona il diritto a ricevere cure mediche, principio che è stato rafforzato soprattutto tenendo in considerazione le modalità pratiche con le quali agire. In effetti, il principio dell’accesso alle vittime è un concetto troppo fluido perché possa assicurare da solo una protezione effettiva alle popolazioni in pericolo. L’Art.18 del Secondo Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra stabilisce che l’accesso umanitario alle vittime non possa essere arbitrariamente negato, obbligando le parti belligeranti a concedere alle organizzazioni umanitarie imparziali la possibilità di distribuire beni e cure di prima necessità, in modo da assicurare la sopravvivenza delle vittime. Riconoscendo l’importanza dei soccorritori, le Convenzioni di Ginevra prevedono inoltre una protezione speciale per tutti gli operatori umanitari impegnati nelle crisi, che non devono in alcun modo essere fatti bersaglio delle violenze.

Il Diritto umanitario stabilisce quindi alcune garanzie di protezione ben precise, specificando altresì la natura, la qualità e le condizioni stanti le quali alle organizzazioni umanitarie è concesso di intervenire; viene però stabilito che siano solo le organizzazioni umanitarie imparziali a poter rivendicare questi diritti per sè stesse.

Parallelamente a queste definizione giuridica della questione, si è sviluppata una retorica dell’accesso alle vittime nel quadro delle risoluzioni delle Nazioni Unite adottate nei diversi anni. Nozioni come l’accesso alle vittime, o i c.d. corridoi umanitari sono apparse in seguito al rilancio delle attività di mantenimento della pace da parte dell’Onu. Non sono quindi concetti puramente umanitari ma piuttosto è l’integrazione di elementi umanitari all’interno della nuova politica di gestione della pace e della sicurezza internazionale delle Nazioni Unite. Tale integrazione sembra aver donato una nuova autorità a questi principi, poiché l’utilizzo della forza da parte delle Nazioni Unite, in certi casi è giustificata da considerazioni umanitarie relative proprio all’accesso alle vittime.

Tuttavia quella che poteva apparire solo una semplice integrazione, ha portato a subordinare l’azione umanitaria ai più ampi obiettivi del mantenimento della pace e della stabilità internazionale, facendole perdere quell’indipendenza e quell’imparzialità che la caratterizzavano100. E’ quindi legittimo oggi interrogarsi sull’efficacia dell’evoluzione del

concetto di accesso alle vittime, in particolare riguardo alla capacità ed alla possibilità di proteggere le popolazioni civili. Qual’è il contenuto di questo diritto di intervento che l’Onu pretende talvolta di imporre con la forza? Quali attori sono intitolati per quest’accesso, e relativamente a quali popolazioni? A quali condizioni si deve sottostare per poter intervenire? Qual’è la verità che si cela dietro la protezione delle popolazioni mediante l’uso della forza da parte delle Nazioni Unite?

A causa della nostra sfocatura di confini tra ciò che è puramente umanitario e ciò che lo è “soltanto in parte”, si è prodotta una spaccatura tra organizzazioni internazionali: da una parte le Nazioni Unite, i governi belligeranti e le piccole Ong, dall’altra le organizzazioni umanitarie più grandi, più antiche e più “ortodosse” come l’ICRC e MSF. Mentre le organizzazioni che fanno capo al “sistema Onu” si sono preoccupate di tutelare la sicurezza e la stabilità delle nazioni attraverso la gestione di programmi di sviluppo che spesso hanno a che vedere con il cambio dell’ideologia politica al potere, MSF e l’ICRC rimangono intenzionate a portare avanti delle semplici operazioni di assistenza alle vittime dei conflitti, senza lasciare intendere di avere ulteriori fini.

La sponsorizzazione di temi d’interesse legati al cambiamento, ha alcune volte portato a un blocco delle negoziazioni o degli aiuti da parte dell’Onu. In Afghanistan ad esempio, il regime                                                                                                                

100  Questa perdita di indipendenza dell’azione umanitaria - a causa delle altre componenti politiche e militari delle relazioni

internazionali - si è tradotta concretamente in una perdita d’indipendenza finanziaria per un gran numero di organizzazioni umanitarie.  

dei Talebani chiaramente non condivideva lo stesso interesse dell’Onu per i diritti umani dimostrando anzi di avere degli obiettivi e degli interessi di breve termine del tutto differenti (vincere la guerra al Nord e la chiara volontà di limitare l’istruzione ai soli maschi, privilegiando al contempo il ruolo dominante delle Università su tutte le altre scuole) che mal si conciliavano con un approccio invece basato proprio sul rispetto dei diritti umani. Di conseguenza, le negoziazioni su molti argomenti furono veramente difficili e portarono a pochissimi passi avanti; i programmi umanitari in Afghanistan furono quindi sospesi ed in seguito vennero limitati al solo supporto delle necessità esenziali della popolazione.

L’Onu ha sempre tentato di gestire un tipo di aiuto basato sull’alternanza tra “il bastone e la carota”, che fosse in grado cioè di promuovere il cambiamento anche nei casi più disperati; altre volte si concedono gli aiuti umanitari in cambio di intelligence. Ciononostante, questa parcellizzazione dell’aiuto volta comunque ad ottenere concessioni da parte delle autorità, diventa eticamente discutibile in tutti i casi in cui essa pone restrizioni agli aiuti destinati alle popolazioni che ne abbisognano, poichè si finisce inevitabilmente per giocare con la vita delle persone più deboli.

L’ICRC e MSF invece, hanno fatto della negoziazione con le parti belligeranti il loro cavallo di battaglia. Secondo il loro approccio, la negoziazione nella sua forma più elementare non è altro che un dare e un avere, un trovare o un creare, le possibili opzioni in grado di assicurare una vittoria win/win per tutte le parti coinvolte nel processo. Qui la sfida sta nel trovare la strategia più adatta per convincere la controparte che la “sua” vittoria si raggiunge anche a partire dalla possibilità di farci ottenere la “nostra” vittoria.

Per avere successo, è necessario però tenere a mente la distinzione che esiste tra il concetto di advocacy e quello di negoziazione, soprattutto per quanto riguarda i diritti umani. L’advocacy prevede che si debba convincere la controparte ad uniformarsi a quello che – a torto o a ragione – si ritiene essere il corretto modo di comportarsi relativamente ad un tema generale (ad es. la fine della tortura, l’abolizione della pena di morte, il diritto all’istruzione universale) aiutandosi con una serie di strumenti che spaziano dalle campagne di sensibilizzazione, agli incontri quotidiani, alle discussioni, fino talvolta alla denuncia pubblica sugli organi di informazione. La negoziazione è invece relativa a questioni molto più specifiche, ad esempio si negozia l’accesso ai servizi sanitari di una determinata zona, la liberazione di determinati prigionieri, la possibilità di fare formazione a gruppi specifici di persone, o le specifiche protezioni da accordare a determinate categorie di individui. Fare confusione tra questi due

concetti porta inevitabilmente a dei forti contrasti durante le trattative per l’accesso alle vittime.

Bisogna tenere a mente che l’advocacy è uno strumento molto potente, soprattutto quando riesce a galvanizzare su larga scala l'opinione pubblica per promuovere il cambiamento; ogni abuso determina quasi sicuramente un’alienazione irrimediabile dei propri interlocutori di riferimento. La stessa tutela dei diritti umani è strettamente legata alla questione della neutralità. L’ICRC ha scelto di impostare il tono dell’azione umanitaria a partire dai propri principi di imparzialità e neutralità. Questa presa di posizione - e più precisamente, la sua attuazione rigorosa - è stata spesso criticata da altre organizzazioni umanitarie come del tutto “ingenua”. Tuttavia, questo approccio caratterizzato da una forte consapevolezza circa la peculiarità del proprio ruolo, ha consentito all’ICRC di lavorare all’interno di spazi umanitari a cui le altre agenzie non hanno nemmeno potuto accedere.

Questa forte acceptance organizzativa, ha anche contribuito a porre dei limiti di intervento chiari e ad identificare degli obiettivi intermedi che fossero in grado di segnalare i casi in cui l'assistenza umanitaria dovesse essere sospesa; non sempre infatti vengono soddisfatte le condizioni minime che garantiscono che l'assistenza fornita è totalmente neutrale, ed allora bisogna correre ai ripari.

In tali situazioni di violenza, le organizzazioni umanitarie hanno la responsabilità scegliere se aprire o forzare la strada per spingere la Nazioni a trovare delle soluzioni che possono anche non prevedere affatto l’azione umanitaria. In altre parole - perchè possa emergere una migliore definizione delle responsabilità militari e politiche, sia degli Stati, che della comunità internazionale, e scongiurare “sfocature del confine” tra i rispettivi ruoli - è necessario che si sviluppi, in modo simmetrico, una più chiara responsabilità umanitaria da parte delle organizzazioni attive nel settore. Ciò implica un rafforzamento della loro indipendenza di fronte all’ingerenza delle diverse potenze statali, ma anche una migliore capacità a rendere conto dei limiti della propria azione, per evitare che si oltrepassi la frontiera che separa, in certi casi, la responsabilità umanitaria dalla complicità umanitaria.