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Le Coalizioni NATO segnano la fine del sistema ONU?

Le missioni multi-funzionali lanciate dall’Occidente per promuovere la sicurezza globale, si basano su un presupposto spesso dissimulato dalle stesse parti in causa, poiché in realtà nessuno Stato è ancora preparato a soffermarvisi sopra: la sicurezza globale si potrà ottenere solamente allorquando possederemo un sistema di sicurezza globale, il che significa arrivare al momento in cui tutti gli Stati accetteranno di condividere le stesse norme, valori, principi e ideali, in modo da poter plasmare un modello di comportamento internazionale che sia unico

per tutti.

Purtroppo questo è un traguardo che l’Umanità non ha ancora raggiunto, come è emerso chiaramente negli ultimi 60 anni dalla creazione dell’Onu.

Essendo una creatura sostanzialmente americana, le Nazioni Unite sono sempre più incapaci di fronteggiare la complessità dei moderni scenari d’intervento, finendo spesso per rimanere ingessate in una situazione di stallo che rischia di consegnare l’iniziativa ai singoli governi riuniti all’interno delle Coalizioni della NATO.

L’incapacità delle Nazioni Unite nel rispondere alle crisi che prevedono l’applicazione del Capitolo VII della Carta Onu ha origine dal fallimento delle missioni militari in Somalia nella prima metà degli anni ’90. In seguito alla Battaglia di Mogadiscio – che costò la vita a 18 soldati americani – ed al fallimento delle operazioni UNOSOM I e II, gli Stati Uniti scelsero di cambiare radicalmente il loro approccio alle missioni di pace delle Nazioni Unite. L’Ordine

Esecutivo del Presidente Clinton conosciuto come PDD 2533, è il documento che sancisce il

deciso cambio di rotta statunitense in merito a tutte le future operazioni di peacekeeping condotte in ambito Onu. E’ proprio l’influenza di cui l’America gode all’interno del sistema Nazioni Unite che permette di affermare che gli effetti prodotti da tale documento abbiano

                                                                                                               

avuto pesanti ripercussioni anche sulle capacità di risposta alle crisi propria di tale organo internazionale.

L’esperienza somala ha dimostrato chiaramente quanto l’Onu fosse impreparata a condurre e gestire azioni di peace enforcement, sia a livello di Quartier Generale a New York, sia a livello di comando della forza ONU in Somalia, in parte per mancanza di esperienza del personale civile e militare, in parte per l’inadeguatezza delle risorse umane e dell’equipaggiamento dispiegato. Durante il corso di tutta l’operazione era difatti mancato uno dei principi fondamentali per un sistema credibile ed efficace di comando, ovvero l’unicità: i vari contingenti nazionali tesero infatti ad interpretare lo stesso mandato e le Regole di Ingaggio in modo differente, a causa della diversa capacità operativa, del diverso livello di addestramento, della diversa tradizione militare e delle singole autorizzazioni da parte dei governi nazionali di riferimento. Già prima di iniziare si erano insomma poste le basi per una ignominiosa disfatta collettiva, che avrebbe minato per sempre l’autorevolezza delle Nazioni Unite, delegittimandone il ruolo.

Nonostante l’evidente difficoltà, gli Stati membri non sembravano intenzionati a promuovere una riorganizzazione del sistema di peacekeeping volto ad eliminare le carenze strutturali delle Nazioni Unite, ad esempio dotandola di una forza militare permanente che evitasse di doversi affidare ogni volta, anche in futuro, a contingenti così eterogenei di Caschi Blu. Fintantoché le Nazioni Unite non si saranno dotate di una capacità militare autonoma in grado di sanzionare le aggressioni compiute dagli Stati, continueranno a dipendere dalla volontà e dalla disponibilità dei singoli Stati ad intraprendere nuove operazioni di pace.

Fu così che si iniziò ad assistere ad uno stile di intervento alternativo, il c.d. subcontracting, una pratica che prevedeva di evitare la complessità degli interventi assegnando la gestione militare delle singole crisi a singoli Stati membri di volta in volta identificati. L’idea era che tali Stati avrebbero potuto operare secondo i propri standards operazionali, senza dover scendere a patti con quelli di nessun altro. L’unico requisito era quello della disponibilità ad intervenire e il fatto di possedere un contingente ben nutrito di soldati. Negli anni successivi al 1994, il Consiglio di Sicurezza autorizzò l’intervento americano ad Haiti, quello francese in Ruanda, quello russo in Georgia e quello australiano a Timor Est; la tendenza che si andava prefigurando in questi scenari rispecchiava ancora una volta la politica inaugurata dagli Stati Uniti: le grandi potenze decidevano di intervenire militarmente solo quando erano coinvolti i propri interessi nazionali, attuando una soluzione che rischiava di incentivare la messa a disposizione delle truppe solamente per guadagnare maggior prestigio sulla scena internazionale.

In altre occasioni, il Consiglio di Sicurezza affidò gli interventi alle organizzazioni di sicurezza regionali che – dotate di strutture di comando integrate e maggiormente capaci di intervenire in contesti multinazionali, grazie all’esperienza maturata con lo strumento delle esercitazioni congiunte – garantivano una maggiore efficacia degli interventi. Tuttavia, questa seconda opzione esponeva l’Onu e la comunità internazionale ad un pericolo molto concreto: l’organizzazione avrebbe potuto finire con l’esercitare una mera funzione autorizzatrice, e mantenere solo un relativo controllo sulle operazioni che le organizzazioni regionali avrebbero già comunque deciso di intraprendere. Così facendo, la comunità internazionale correva il rischio di precipitare nella vecchia routine della politica di potenza e delle zone di influenza, stavolta resa più accettabile dal fatto di essere inscritta in una logica di sicurezza collettiva a beneficio di tutti gli Stati.

La pratica del subcontracting, pur essendo una conseguenza diretta della mancanza del braccio armato delle Nazioni Unite, seguì il nuovo realismo americano, confermando ancora una volta come l’Organizzazione delle Nazioni Unite fosse alla fin fine pur sempre composta da singoli Stati sovrani, naturalmente impegnati a proteggere i propri interessi nazionali, a tutelare la propria sovranità e sempre più difficilmente disposti a fare grandi concessioni su questioni spinose e delicate come quelle del potere militare, da sempre una delle maggiori espressioni ed ultimo baluardo della sovranità statale.

Come continuano a dimostrare anche gli ultimi scenari di intervento umanitario, la crisi delle Nazioni Unite si aggrava di pari passo con l’ascesa del ruolo della NATO, proprio perchè gli Stati Uniti non sono più disposti a fare affidamento su un sistema di relazioni che li costringe a rispettare le storture di una diplomazia internazionale basata sul multilateralismo. Essendo una loro creatura, gli USA pensano di poter sfruttare l’Onu solamente in quelle occasioni in cui fare ciò gioca a loro vantaggio, mentre è sufficiente salvare le apparenze e cercare di spostare la gestione del potere sulla NATO in tutte le altre situazioni.

La crisi del multilateralismo della governance globale potrebbe paradossalmente arginarsi riscoprendo il ruolo innovatore dei grandi paesi “non allineati” come il Brasile, la Turchia o l’India34. La loro crescente importanza sarà uno dei fattori con il quale gli Stati Occidentali

dovranno presto o tardi fare i conti nel prossimo futuro. Concedere più spazio a questi attori all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sarebbe il modo più intelligente per cooptarli in un sistema di relazioni realmente capace di migliorare la stabilità globale, ma purtroppo fare ciò significherebbe anche riconoscere che l’effettiva importanza del loro ruolo strategico

                                                                                                               

equivale alla perdita di rappresentatività dei protagonisti tradizionali: un’ammissione che avrebbe il sapore della resa, e perciò tutt’altro che allettante.