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Combattere per sopravvivere o sopravvivere per combattere?

Combattere contro un avversario che non si rende individuabile non è mai facile e la lotta globale al terrorismo ha insegnato agli eserciti della coalizione NATO che saper distinguere i terroristi separandoli dalla gente comune, è un compito che presume una certa abilità di mettersi dei panni del nemico, e richiede comunque un notevole dispendio di energie. In termini di forze in campo, verrebbe logico pensare che gli eserciti occidentali abbiano gioco facile nel vincere la guerra, trattandosi in effetti di uno scontro del tutto asimmetrico, ma le ultime campagne militari delle coalizioni occidentali ci hanno dimostrato con i fatti che non è così.

Non esistono soluzioni o rimedi rapidi quando si tratta della guerra tra la gente, e gli eserciti dei nostri giorni sono impreparati ad affrontare una realtà che è cambiata; essi stessi sono divenuti un bersaglio, perché faticano a comprendere la realtà che cambia. Oggigiorno, più che essere coinvolti negli scontri, i civili sono la causa e il terreno stesso dei conflitti. La gente nelle città, nei villaggi, sulle strade e nelle case – chiunque, dovunque – può trovarsi sul campo di battaglia. I combattimenti possono aver luogo contro gruppi organizzati e riconoscibili di nemici che si muovono tra i civili, contro nemici travestiti da civili e, intenzionalmente o meno, contro i civili stessi, poiché questi possono sia essere obiettivi, sia costituire la forza avversaria da annientare.

Il terrorista, o il mujahid, ha bisogno della popolazione civile per riuscire a nascondersi efficacemente e non cercherà mai lo scontro con le forze militari; si sposta tra la gente come se si trovasse tra gli alberi di una foresta, e a tal fine cercherà di apparire come una persona normale agli occhi di coloro tra cui si muove, anche se lui e i suoi compagni sono una minoranza all’interno della società. Egli ha bisogno che il popolo in generale lo sostenga e, come un parassita, dipende dal suo ospite per le proprie esigenze di trasporto, riscaldamento, illuminazione, entrate, informazioni e comunicazioni. Per vincere le operazioni tra la gente, riuscendo a conquistare la volontà di un popolo, dobbiamo per prima cosa sforzarci di capire il popolo stesso. Il popolo segue quel leader che ritiene più capace di assicurargli la libertà dalle proprie paure o in grado di ribaltare una situazione di incertezza in una di sicurezza. Per questo il guerrigliero vuole creare una situazione in cui lui, o un suo rappresentante, sia in grado di soddisfare meglio di chiunque altro i bisogni del popolo: più riesce a dipingere il suo avversario come un aggressore che minaccia direttamente il popolo, più è probabile che la gente gli rimanga fedele per ricevere protezione. In questo modo egli disporrà di una “zona santuario” nella quale si sentirà sufficientemente al sicuro per riunirsi con altri che condividono le sue stesse idee. Non dichiarerà apertamente la sua identità e il suo scopo, ma si muoverà molto in prossimità, o anche all’interno, dei gruppi che rappresentano legalmente il movimento: ad esempio, sotto il regime talebano in Afghanistan, al-Qa’eda si sentiva sufficientemente sicura per muoversi nei propri ambienti, sebbene non necessariamente per dichiarare pubblicamente la sua presenza nella società civile. Nella normale latenza quindi, il terrorista apparirà nelle sue vesti quotidiane di contadino o pastore, tassista o fattorino, si incontrerà in gruppi segreti in particolari momenti, e le sue armi saranno nascoste. Uno dei dogmi fondamentali del guerrigliero o del terrorista è che egli combatte soltanto quando le circostanze gli sono favorevoli, quando esistono i presupposti per il suo successo, e non prima, evitando sempre lo scontro decisivo, se non alle sue condizioni.

Un avversario simile è difficile da battere in tempi brevi; eppure quello che già di per sé sarebbe un processo lento, diventa ancor più lungo se si tiene conto che spesso questi individui sono portatori di un paradigma di lotta che è diverso da quello proprio delle consuetudini di guerra degli eserciti occidentali. Nei casi di guerra industriale, ci si impegnava in un conflitto avendo già la necessità di giungere rapidamente alla vittoria156, poiché l’intera società e

l’intero stato venivano messi al servizio della causa: tutto l’apparato dello stato era concentrato su questo compito, mentre la società civile e l’economia sospendevano il loro flusso naturale per convertirlo interamente alle necessità belliche. La guerra doveva essere

                                                                                                               

dunque vinta nel minor tempo possibile, in vista del ristabilimento della vita normale e del commercio in tempi brevi; in caso contrario il prezzo da pagare sarebbe stato eccezionalmente alto, come poi hanno dimostrato le due guerre mondiali. Perché fosse di successo, il processo doveva quindi necessariamente seguire l’iter PACE-CRISI-GUERRA-RISOLUZIONE e – citando Clausewitz – la guerra non era che “la continuazione della politica con altri mezzi”. La guerra industriale ha per finalità generale il raggiungimento del risultato politico desiderato attraverso la distruzione della capacità di resistenza dell’avversario, in una prova di forza che conduce alla cessazione della volontà di resistere. In altre parole, il vecchio paradigma prevedeva che qualora si fosse giunti ad una situazione di stallo nelle relazioni diplomatiche di politica internazionale, la guerra sarebbe divenuta l’unico modo per spingere il confronto ad una nuova fase, più capace di ottenere un risultato specifico predeterminato – una nuova condizione di pace – attraverso l’utilizzo calibrato, ma decisivo, della forza militare. Nel nuovo paradigma della guerra tra la gente, non c’è alcuna sequenza predefinita, ma piuttosto un continuo intersecarsi tra la fase del confronto e la fase del conflitto. La pace non è necessariamente né il punto iniziale né quello d’arrivo e se in qualche modo i conflitti alla fine si risolvono, lo stesso non accade necessariamente per i confronti: la Guerra Fredda è un esempio di confronto che ebbe un epilogo, ma soltanto dopo quarantacinque anni, mentre il confronto israelo-palestinese non si è ancora risolto, dopo oltre sessant’anni.

Se ci affidiamo alla triade di Clausewitz tra stato, esercito e popolo, vediamo come nella guerra industriale l’obiettivo consista nel distruggere l’esercito dell’avversario, nell’evitare che il suo governo riesca a proseguire la guerra e sia in grado di proteggere la popolazione; sbaragliando l’esercito, si riesce a rompere la triade e a porre le condizioni per la vittoria. Secondo il paradigma contemporaneo invece, l’obiettivo è indebolire costantemente e pesantemente l’esercito più forte, fiaccando la volontà del suo governo e del suo popolo di portare avanti la guerra. Il rovesciamento del paradigma permette alla parte militarmente più debole (svantaggiata numericamente), di impegnare senza troppi danni quella più forte, poiché la propria forza militare viene utilizzata esclusivamente in azioni tattiche in condizioni di vantaggio, con l’obiettivo finale di erodere la capacità di governare del nemico e guidare gli orientamenti del popolo. In questo senso, mentre gli eserciti occidentali ormai sono convinti che combattere il terrorismo sia il loro unico modo per sopravvivere al Male e poter ristabilire una “pace perpetua” di stampo Kantiano, per i terroristi il fatto di sopravvivere ad ogni battaglia tattica contro un nemico decisamente più forte, serve invece per poter continuare a combattere senza riposo, dal momento che l’obiettivo strategico da conquistare non è la pace,

ma la “giustizia” – che è ottenuta mediante l’annientamento totale, sia morale che fisico, dell’avversario ideologico.

Mutuando Samuel Huntington, per vincere questo “scontro di paradigmi”157 è necessario

ripensare l’intera logica che sta dietro al “militarismo umanitario” occidentale, sforzandosi al contempo di capire le ragioni che sottendono alla radicalizzazione profonda degli avversari ideologici favorendo la reciproca conoscenza, l’ecumenismo ed il dialogo interconfessionale, la concertazione comune delle politiche energetiche planetarie, l’abbattimento delle sperequazioni del sistema capitalistico dominante, il ritorno ad un’armonia più condivisa tra le genti. Come ebbe e dire Sun Tzu, per vincere la battaglia è necessario tenere vicini gli amici ma – ancora più vicino – risulta necessario tenere i nemici, con l’obiettivo di mettere in discussione sé stessi per poter riscoprire l’Altro. Solo così facendo potremo salvarci dalla violenza continua e salvare in nostro mondo.