1. F RONTIERE IN A FRICA : CONCETTO ENDOGENO O ESOGENO ?
1.3 L’Africa indipendente
La congiuntura di decisioni internazionali, di riforme economiche e istituzionali, di accelerati mutamenti sociali e di organizzazione di movimenti politici, di rivolte e tentativi di rivoluzione nelle colonie, di dimostrazioni e scioperi che hanno guidato il processo di decolonizzazione non ebbero una lettura univoca. L’impegno al rilancio delle economie delle Potenze europee postbelliche fu sicuramente un elemento da tenere in considerazione ma fu soprattutto la volontà di modernizzare i propri domini che portò ad un cambiamento.
Subito dopo la fine della guerra furono tentate riforme all’interno dei sistemi coloniali; poi i governi europei, a metà degli anni Cinquanta, ormai in balia del nuovo sistema internazionale, basato sull’autodeterminazione dei popoli, tanto caldeggiato da un bipolarismo che andava sempre più accentuandosi tra Stati Uniti e l’Unione Sovietica66, cercarono di selezionare e appoggiare quelle forze interne alle colonie che avrebbero permesso il mantenimento della continuità dopo le indipendenze. Fu questo approccio che portò allo sviluppo del neocolonialismo e alla crescita del ruolo delle forze politiche nazionaliste africane.
La nuova atmosfera internazionale non era favorevole al mantenimento delle colonie. La Carta atlantica aveva dichiarato che ciascun popolo avesse diritto di scegliere il governo sotto il quale vivere. Il Presidente statunitense Roosevelt non perse mai occasione per esprimere la sua avversione al colonialismo. La Carta verteva su un’internazionalizzazione delle colonie ma il bisogno primario degli Stati Uniti era quello di esportare il suo surplus commerciale e per farlo necessitava di un mondo completamento aperto al commercio. Gli interessi economici spesso vengono mascherati da intenti politici non sempre adeguati agli interessi delle popolazioni.
Nel 1945 venne creata l’organizzazione delle Nazioni Unite da 51 paesi alleati, tra cui Stati Uniti e Unione Sovietica, e alla quale furono ammessi tutte le ex coloniale che a mano a mano diventavano indipendenti. Furono fondamentali i Capitoli XI e XII
66 Per il ruolo degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica rivestito durante la decolonizzazione consultare J. Hanhimaki, B. Schoenborn, B. Zanchetta, Transatlantic Relations since 1945: An Introduction, London, Routledge, 2012.
29
della Carta delle Nazioni Unite67 con i quali quest’ultime si assumevano la responsabilità per i Mandati dell’ormai estinta Società delle Nazioni e si impegnavano ad assicurarne il progresso politico, giuridico e sociale. Al posto dei Mandati subentrò l’istituto del trusteeship (amministrazione fiduciaria), il quale fine doveva essere la rinuncia agli ingrandimenti territoriali da parte delle Potenze e l’arrivo ad una vera e propria autodeterminazione dei popoli. La priorità fu rivolta ai popoli sottomessi che ancora non godevano di autonomia propria.
Come più volte ricordato la storia coloniale fu il frutto del rapporto di dominazione, opposizione, adattamento, reazione e compromesso fra colonizzatori e colonizzati. Gli episodi di opposizione armata furono molti come nel Sudan, nel Corno d’Africa o, per rimanere più vicini all’Europa, in Algeria. Un altro strumento utilizzato come risposta alla colonizzazione furono i movimenti di carattere spirituale, la fede divenne uno strumento per il recupero della propria identità. Tutti i fenomeni di resistenza, protesta, ritiro spirituale furono interpretati in modo negativo dalle autorità coloniali che fecero di tutto per reprimerli, promuovendo, invece, lo sviluppo di valori che continuassero l’impresa civilizzatrice occidentale. Questo punto resta tutt’oggi di fondamentale importanza se consideriamo in primis gli Stati Uniti, che si sono fatti promotori di valori considerati dal loro punto di vista universali come la democrazia, da esportare a tutti i costi in ogni angolo di mondo.
Un altro elemento fu l’organizzazione di movimenti di tipo moderno, ispirati a ideologie di emancipazione e riscatto sociale e politico che usavano lo stesso linguaggio dei colonizzatori, i quali sovvertirono il progetto di riforme che si fondava su una «re- tribalizzazione» delle società africane per mezzo appunto della rinnovata importanza che si concedeva alle autorità tradizionali68.
In questo contesto così frammentato la questione dei confini come venne affrontata?
Un concetto astratto quello dei confini, che imposti dall’alto come ogni cosa in Africa, stravolse la mentalità africana. A causa di questa astrattezza si creò una barriera tra Stato reale e Stato artificiale. L’elemento di novità e, oserei dire, fuori da qualsiasi
67
Testo completo in The Charter of the United Nations: A Commentary, a cura di Bruno Simma, Oxford University Press, Oxford, 1995; C.E. Toussaint, The Trusteeship System of the United Nations, Praeger, New York, 1956.
30
aspettativa fu che all’indomani della decolonizzazione, i nuovi Stati indipendenti, pur avendo adottato principi e strumenti occidentali, in primis costituzioni molto simili a quelle delle ex Potenze, non furono mai riconosciuti come soggetti internazionali degni dello stesso livello.
L’idea predominante che dominò e domina tutt’oggi le relazioni internazionali fu la considerazione di questi Stati come «sotto-stati», pur essendo stati sottomessi e sfruttati economicamente. Fu così che si sviluppò il neocolonialismo.
Il neocolonialismo si basò sul fatto che dopo gli anni’60 (il 1960 fu appunto denominato «anno dell’Africa» per le 17 indipendenze che si susseguirono) continuò ad esistere ed esiste tutt’ora grazie ai confini. Tutti gli stati africani dal 1963 hanno oggi accettato confini che non esistevano. Molte modifiche furono fatte, accentuando ancora di più gli squilibri tra i diversi Stati artificiali; ad esempio il confine tra il Camerun britannico e Camerun francese perse ogni carattere internazionale, a seguito dell’unione federale fra le due parti della ex colonia tedesca69, analogamente la fusione tra la Somalia italiana e quella britannica annullava il confine tra i due territori. Un caso di rilevante importanza fu la variazione territoriale avvenuta all’indipendenza della Costa d’Oro (che divenne Ghana) che si unì al Togo cancellando il confine tra i due territori aprendo un nuovo contenzioso con la popolazione Ewe70. I britannici applicarono al Ghana un metodo di decolonizzazione ante litteram. Fu una decolonizzazione controllata che nel giro di un secolo portò il Ghana ad una forma di selfgovernment e successivamente all’indipendenza71
. Ma nonostante la volontà di decolonizzazione “indolore” dei britannici, gli scontri lungo il confine non vennero meno.
I nuovi cambiamenti di confine ebbero conseguenze negative che, nella maggior parte dei casi, portarono a violenti conflitti. Nella seconda metà degli anni ’50, tra le accuse mosse al colonialismo vi furono proprio le frontiere. Si imputò alle Potenze coloniali di aver tracciato irrazionalmente i confini fra i diversi territori senza
69 Sull’evoluzione del regime del Camerun e l’accesso all’indipendenza si veda D. E. Gardinier, Cameroon. United Nations Challege to French Policy, Oxford University Press, London, 1963.
70 Per i precedenti si veda p. 19.
71 Nel 1850 fu istituito il primo Consiglio legislativo, nel 1925 grazie alla Costituzione Guggisberg (dal nome del governatore britannico dell’allora Costa d’Oro) per la prima volta gli africani poterono entrare in Parlamento. Nel 1946 con la promulgazione della Costituzione Burns gli africani che vennero eletti al Congresso erano la maggioranza nel Consiglio legislativo e nel 1951 la Gran Bretagna autorizzò il suffragio universale, trasformando il Consiglio in Assemblea legislativa eletta direttamente dalla popolazione locale. Infine nel 1954 con una nuova riforma costituzionale i ghanesi arrivarono ad avere tutte le responsabilità di governo.
31
preoccuparsi, o per deliberato intento, di divedere e meglio dominare le popolazioni africane. La denuncia e la reazione violenta a tale situazione contribuirono ad alimentare l’ideale dell’unità africana72
.
5. “Limes Rivista Italiana di Geopolitica”, «Il Sudafrica in nero e bianco», N.4, 2010.
72
Già nel 1945 al Congresso panafricano di Manchester si iniziò a parlare del problema delle frontiere artificiali «the artificial divisions and territorial boundaries created by the imperialist Powers are deliberate steps to obstruct the political unity of the West African peoples», C. Legum, Panafricanism. A Short Political Guide, Frederick A. Praeger, London, 1962, p. 135.
32
Il Presidente del Ghana Kwame Nkrumah, uno dei principali esponenti del nazionalismo africano, nel 1958 avvertì contro i pericoli insiti nel colonialismo «legacies of irredentism and tribalism»73: i gruppi etnici e tribali divisi durante l’epoca coloniale volevano diventare membri di uno stesso Stato. Inoltre le spinte irredentiste e secessioniste dei movimenti in Europa portarono al pericolo di una possibile «balcanizzazione» africana.
Cosa si intende per balcanizzazione? Espressione impiegata in geopolitica per indicare un processo di frammentazione di una regione, di una unità politico-geografica o di una entità statale in altre più piccole regioni o Stati, spesso in rivalità tra di loro, ed il cui risultato è quello di provocare instabilità politica e conflitti, venne usata per la prima volta in riferimento alla divisione della penisola balcanica, governata per la maggior parte dall’Impero Ottomano, in piccoli Stati dal 1817 al 1912. Il primo autore a comparare i Balcani con l’Africa fu negli anni Venti lo scrittore nazionalista della Costa d’Oro Kobina Sekyi, il quale rifiutava l’idea di sviluppo e la concezione dello Stato proposta dai colonizzatori74. Fu Burghadt Du Bois che riprese il termine nel 1945 mettendo in evidenza come il colonialismo europeo sfruttasse lo strumento della balcanizzazione per tenere soggiogate le proprie colonie75.
Il primo impiego si ebbe nei Territori d’Oltremare francesi in Africa occidentale ed equatoriale con l’applicazione della Loi-Cadre Defferre nel 1956 e il passaggio dalla IV alla V Repubblica Francese nel 1958 che sancirono, di fatto, la scomparsa dell’A.O.F. e dell’A.E.F. La legge attribuì più poteri alle Assemblee Territoriali favorendo l’autonomia dei singoli territori a discapito della federazione di queste due entità. Ciò fu vissuto da molti ideologici del panafricanismo come il primo passo verso la distruzione dell’unità africana e la balcanizzazione, poiché si sarebbero risvegliati i tribalismi. In più la balcanizzazione, secondo alcuni, sarebbe stata anche economica, producendo effetti deleteri sulla federazione data l’introduzione di dazi differenti da territorio a territorio. Ma la V Repubblica Francese spazzò via le federazioni non lasciando più spazio a questi timori. Infatti con la V Repubblica nacque la Communauté
française che portò ad un’evoluzione nel rapporto tra madrepatria e colonie le quali, il
73 S. Touval, The Boundary Politics…cit, p. 7 prefazione. 74
J. A. Langley, Pan-Africanism and nationalism in West Africa (1900-1945) a study in ideology and social classes, Clarendon, Oxford, 1973, pp.100-101.
75 W. E. Burghadt du Bois, Color and democracy. Colonies and peace, Brace and Company, Harcourt, 1945, p. 72.
33
28 settembre 1958, furono chiamate al voto. Attraverso un referendum pluricontinentale le colonie dovettero decidere se fare parte come Stato autonomo della communauté, se divenire indipendenti e non entrare nella Communautè o rimanere così com’erano cioè all’interno dell’A.O.F o dell’A.E.F. La maggioranza votò per la prima opzione ad eccezione della Guinea Francese che voleva la totale e immediata indipendenza. De Gaulle, Presidente della V Repubblica, prima del referendum fece un lungo viaggio in Africa minacciando i governanti delle colonie che se non avessero accettato la
Communautè la Francia avrebbe tolto gli aiuti economici e militari, cosa che infatti fece
con la Guinea di Sékou Touré. Ciò dimostra come i semi del neocolonialismo erano ben evidenti ancor prima delle indipendenze effettive.
Il senegalese Léopold Sedar Senghor, il quale divenne uno dei maggiori utilizzatori del termine balcanizzazione, dichiarò che
[…] Car c’est l’évidence, les frontières actuelles des territories ne sont que les fruits des hasards militaires et des intrigues de bureaux. Elles ne correspondent à aucune réalité: ni géographie, ni économique, ni ethnique, ni linguistique. […] Accepter la balkanisation de l’Afrique, c’est accepter avec notre misère, l’aliénation de nos raisons de vivre 76.
La posizione dei federalisti come Senghor sulla balcanizzazione fu fatta propria anche dalla prima All African People’s Conference (AAPC) che si tenne ad Accra (Ghana) dall’8 al 13 dicembre 1958 durante la quale i 28 paesi africani, indipendenti e non, che vi parteciparono furono dello stesso avviso nell’impegnarsi per la «avoidance of the balkanization of West Africa»77. La seconda edizione dell’AAPC, tenutasi a Tunisi dal 25 al 31 gennaio 1960 insistette sui pericoli del neocolonialismo, pericolo che fu denunciato anche ad Accra dove si svolse dal 7 al 10 Aprile del 1960 la
Conference on Positive Action and Security in Africa; secondo Nkrumah la
balcanizzazione era lo strumento più importante del neocolonialismo. Questa condanna venne ripresa anche durante la terza Conferenza tenutasi al Cairo dal 25 al 31 marzo 1961 nella quale si definì la balcanizzazione come una deliberata politica di frammentazione degli Stati operata mediante la creazione di Stati artificiali come il Katanga nella Repubblica Democratica del Congo.
76 J.R. De Benoist, La Balkanization de l’Afrique Occidentale Française, Les Nouvelles Éditions Africaines, Dakar, 1979, p. 148.
34
Nonostante ciò la teoria della balcanizzazione in quegli anni rimase un concetto ancora poco chiaro e molto impreciso, dato che non veniva chiarito sino a che punto i confini lasciati dalle potenze coloniali, e pertanto lo status quo, costituivano una balcanizzazione78. Durante la Conferenza di Accra venne dedicata una risoluzione ai problemi concernenti «Frontiers, Boundaries and Federations» nella quale si affermava
Whereas artificial barriers and frontiers drawn by imperlialists to divide African peoples operate to the detriment of Africans and should therefore be abolished or adjusted;
Whereas frontiers which cut across ethnic groups or divide peoples of the same stock are unnatural and are not conductive to peace or stability;
Whereas leaders of neighbouring countries should co-operate towards a permanent solution of such problems which accords with the best interests of the people affected and enhances the prospects of realisation of the ideal of a Pan-African Commonwealth of Free States 79.
Nella parte immediatamente successiva, cappeggiata dai leaders africani più progressisti e rivoluzionari, secondo i quali i confini africani lasciati in eredità dal colonialismo non erano che una massima espressione della balcanizzazione, si affermava che «The Conference denounces artificial frontiers drawn by imperialist Powers to divide the peoples of Africa, particularly those which cut across ethnic groups and divide people of the same stock; calls for the abolition or adjustment of such frontiers at an early date»80.
Tutto ciò lasciò insoluta, però, la questione dell’assetto lasciato dai colonizzatori e l’intangibilità o meno delle frontiere, considerate un frutto degli oppressori. Il caso della guerra civile congolese e la secessione del Katanga impressionarono molto il panafricanismo che dovette trovare soluzioni alla paura di una balcanizzazione africana. Tali soluzioni vennero trovate nel maggio 1963 ad Addis Abeba con la creazione della Carta dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), dove tutte le velleità riferite alle frontiere, per troppe divergenze di vedute, vennero abbandonate. In questa carta, dunque, non vi fu alcun esplicito riferimento al problema dei confini, si cercò piuttosto di preservare lo status quo. L’Art. II affermò che «l’Organizzazione si impegnava a
78
F. Tamburini, Il mito della balcanizzazione africana tra secessionismo e autodeterminazione, “Africana Rivista di Studi Extraeuropei”, N. XIX, 2013, p. 135.
79 S. Touval, op. cit, p. 56. 80 S. Bono, op. cit, p. 166.
35
difendere la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza degli Stati contraenti»81
, mentre l’Art. III che questi ultimi vi aderivano. Il principio dell’Art. III fu ripreso e rafforzato in occasione del vertice dei capi di Stato e di governo dell’OUA tenutosi al Cairo dal 17 al 21 luglio 1964, durante il quale venne introdotta la Risoluzione 16 che stabilì l’intangibilità delle frontiere coloniali: «All members States pledge themselves to respect the borders existing on their achievement on national independence»82. Con questa Risoluzione si affermò in campo africano l’uti possidetis, nato dalla prassi in America Latina.
L’uti possidetis affermava che lo Stato successore conservava i limiti territoriali dello Stato predecessore, di conseguenza quelli imposti dalle Potenze europee. Poteva essere uti possidetis iuris cioè i diritti dello Stato successore erano confermati da un testo o da documenti giuridici oppure uti possidetis de facto vale a dire che era la situazione di fatto sul terreno che convalidava lo Stato successore.
L’uti possidetis fu considerato con voto unanime l’unico rimedio possibile ed efficace contro i conflitti di frontiera che si stavano svolgendo; in primis la Guerra delle Sabbie tra Marocco e Algeria. Nonostante ciò l’applicazione di questo istituto in Africa, a mio avviso, non fu un elemento completamente chiarificatore; in America Latina si trattò di accettare termini astratti di una ripartizione che sul territorio e sulle carte non era ancora stata definita, mentre in Africa i confini, al momento delle indipendenze, erano già stati ben definiti. A conferma di ciò si espresse anche Alec McEwen, secondo il quale «as a result, most African countries, as they attained independence, inherited stable, well-established boundaries wich the vast majority have been willing, even anxious, to accept»83.
La questione confinaria tra il Mali e l’Alto Volta è un esempio di questa situazione in quanto dimostrò come l’OUA non fu capace di imporre la propria volontà alle parti in conflitto e di far prevalere la prassi dell’intangibilità delle frontiere coloniali. Questa vertenza comportò veti per l’entrata del Mali nell’UMOA (Union Monétaire Ouest-Africaine), rese precaria la sopravvivenza della CEAO (Communauté Économique de l’Afrique de l’Ouest) della quale facevano parte sia il Mali che l’Alto
81 O. Kamanu, Secession and the right of self-detemination: an O.A.U dilemma, «The Journal of Modern African Studies», Vol. 12, N. 3, 1974, pp. 355-476;
82 R. Loremont (a c. di), Borders, Nationalism and the African State, Boulder, Lynne Rienner, 2005, pp. 2-32.
36
Volta e la stessa CEDEAO (Communauté Économique des États de l’Afrique de l’Ouest)84
. Tutte queste organizzazioni regionali, prova schiacciante del neocolonialismo, dato che le ex Potenze colonizzatrici ne detenevano il controllo, di fronte alla questione dei confini si trovarono impreparate.
Solo nel 1983 con la sottomissione di questa questione alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja si giunse ad un accordo definitivo. Senza entrare nel merito degli accordi raggiunti, è importante sottolineare la portata di questo avvenimento per due ragioni; per la prima volta nella storia due Stati africani ricorsero alla Corte dell’Aja per regolare una controversia relativa alle frontiere terrestri e si affermò che il principio dell’uti possidetis fosse un principio generale avente per scopo «di evitare che l’indipendenza e la stabilità dei nuovi Stati siano messe in pericolo a causa di lotte fratricide nate dalla contestazione di frontiere ed in seguito al ritirarsi della potenza amministrativa»85.
La Risoluzione 16 è considerata tutt’oggi il punto cardine delle relazioni interafricane, tanto che si trova nell’Art. 4, par. 2 dell’Atto costitutivo dell’Unione Africa del 2002, come nelle sue conferenze specifiche relative alla questione delle frontiere africane86. Nonostante ciò, queste carte non impedirono lo svilupparsi di guerre confinarie con il rischio di una possibile secessione e successiva balcanizzazione. L’uti possidetis, infatti, poteva entrare in conflitto con il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Questo complesso rapporto tra intangibilità delle frontiere coloniali, integrità territoriale e autodeterminazione dei popoli non fu mai chiarito del tutto dai giuristi. L’unica cosa alla quale si può giungere è che l’integrità territoriale sovrasta il principio dell’autodeterminazione di uno Stato indipendente e sovrano, mentre nel caso contrario è l’autodeterminazione ad avere il sopravvento. Di conseguenza mantenere lo status quo come venne votato, fu la scelta più adeguata per raggiungere l’obiettivo della «stability in order to survive»87
. Il desiderio di evitare conflitti di frontiera era valido allora come oggi, basti pensare al Mali e al Burkina Faso,
84 A. Tollimi, Les résolution des conflicts frontaliers en Afrique, l’Harmattan, Paris, 2010.
85 G. Naldi, The Case concerning the Frontier Dispute (Burkina Faso/ Republic of Mali): Uti Possidetis in an Africa Perspective, «The International and Comparative Law Quarterly», Vol. 36, N. 4, 1987, pp. 893-903.
86 Si veda per dettagli J. Akokpari, A. Ndinga-Muvumba, T. Murithi, The African Union and its institutions, Jacava Media, Auckland Park, 2009.
37
al Niger, alla Costa d’Avorio, alla Guinea, al Senegal e all’Algeria che costituiscono quell’insieme denominato «Pays- Frontière», ossia quello spazio geografico a cavallo delle linee di divisione di due o più Stati limitrofi, dove vivono popolazioni legate da grandi rapporti socio-economici e culturali88. Questo spazio, creato per favorire l’integrazione regionale ebbe l’effetto opposto a causa dell’enorme flusso migratorio e degli scambi commerciali: da qui l’esigenza di avere una certezza assoluta riguardo ai