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2. U N MEDIOEVO DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI ?

2.4 Mare di popoli

La Libia, paese di snodo delle migrazioni provenienti dal Sahel dirette in Europa, è contesa dalle Potenze internazionali che si affacciano sul Mediterraneo o vorrebbero affacciarvisi. Serraj non è l’unico rappresentante del governo libico, il generale Haftar, appoggiato e riconosciuto dalla Russia che desidera ardentemente l’accesso ai mari caldi per aggirare il problema del congelamento dei propri porti durante i mesi invernali80, è l’altro esponente. Negli ultimi anni la Russia ha avviato un approccio volto a instaurare rapporti commerciali con i Paesi della regione mediorientale, seguendo due strumenti: quello delle commesse militari e quello della cooperazione energetica. Dopo la morte di Gheddafi è intervenuta in Libia ponendosi quale attore determinante nel riempire il vuoto politico lasciato dagli Stati Uniti a seguito del cambio di amministrazione americana, con Trump assai meno propenso a farsi coinvolgere nel Paese.

Ottenute dalla comunità internazionale le credenziali di interlocutore ineludibile, il generale, partito dalla Cirenaica, si sta attestando sempre più anche nel Fezzan, il sud libico. La Francia stessa appoggia Haftar sempre in nome dei propri interessi strategici nell’area, mentre l’Italia ha investito molto negli attori dell’ovest libico, con un lungo lavoro di mediazione tra i gruppi locali al fine di rafforzare l’asse con Tripoli. Cosa che ha cercato di portare avanti con la Conferenza di Palermo che si è conclusa, però, con un nulla di fatto. «Per la stabilizzazione del quadro politico e di sicurezza del Paese, l’Italia deve necessariamente dialogare con gli attori internazionali che sostengono le fazioni dell’Est e, dunque, con la Russia e la Francia»81.

La Francia è riuscita ad estendere la sua sfera d’influenza attraverso la politica della Françafrique anche alla Libia, senza minimamente tenere in considerazione la presenza italiana, Stato membro dell’Unione Europea e della Nato, a riprova del fatto che esistono 28 (ad oggi) politiche estere differenti all’interno dell’Unione con interessi

80 I rapporti tra la Russia e la Libia risalgono alla metà degli anni Settanta, qualche anno dopo l’ascesa al potere del rais. Così come per molti altri Paesi, tra cui l’Italia, si trattava di rapporti commerciali, centrati sull’esportazione di armi. L’Unione Sovietica, infatti, è stata tra i principali fornitori del colonnello. 81 M. Mercuri, Il ruolo della Russia in Libia. Un possibile alleato strategico per l’Italia?, «Dialoghi Mediterranei», N. 33, settembre 2018 : http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-ruolo-della-russia-in-libia- un-possibile-alleato-strategico-per-litalia/.Ultima consultazione gennaio 2019.

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divergenti. La Françafrique può essere definita il fardello del neocolonialismo francese contemporaneo.

L’Italia non dovrebbe tentare di risolvere la questione migratoria nel momento in cui i migranti arrivano in Libia, bensì dovrebbe andare nel profondo Sahel da dove partono le carovane di esseri umani che attraversano il Sahara. Anche lì la presenza francese è più che consistente: dispone di uomini, mezzi e numerosi politici sul libro paga che se fossero veramente indipendenti, forse, potrebbero intervenire con politiche atte a diminuire la povertà nei loro paesi e a contenere i flussi migratori.

Le forze in campo in Libia, soprattutto le novità che provengono da Oriente (Russia e Cina), dimostrano l’importanza che ricopre il Mediterraneo nella geopolitica delle grandi Potenze: un vero e proprio scramble for Africa del terzo millennio. Ma ancora una volta l’Unione Europea dov’è? Come nel Medioevo di Pirenne la civiltà occidentale si chiuse tra i suoi feudi così oggi i singoli Stati pensano di poter dettare la propria agenda politica indisturbati, senza cercare soluzioni comuni a problemi comuni. Riguardo la questione migratoria, l’11 dicembre 2018 a Marrakech si è svolta la Conferenza sul «Global Compact, per una migrazione sicura, ordinata e regolare» fortemente volute dalle Nazioni Unite82. Un primo passo da parte dell’intera comunità internazionale per affrontare a livello mondiale una questione molto delicata e difficile quale le migrazioni. Con la defezione nel 2017 da parte degli Stati Uniti e la successiva reazione a catena di altri Stati del Nord del mondo, l’impronta voluta dall’ONU in nome di una cooperazione globale è andata sfumandosi. La missione degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, pochi giorni prima dell’incontro di Marrakech, in una dichiarazione ufficiale, ha sostenuto che «il Global Compact implica una sorta di globalizzazione della migrazione, a spese della sovranità nazionale e i suoi obiettivi saranno utilizzati, a lungo andare, per costruire una sorta di diritto internazionale consuetudinario della migrazione, scavalcando la sovranità nazionale»83. Di fronte a queste dichiarazioni, i 12 paesi dissidenti, tra i quali rientra anche l’Italia, come pensano di poter gestire i fenomeni migratori in proprio, isolandosi dal contesto internazionale? È impossibile

82 Testo completo: https://refugeesmigrants.un.org/sites/default/files/180711_final_draft_0.pdf. Ultima consultazione gennaio 2019.

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M. Livi Bacci, Gestire in proprio le migrazioni è pura follia, in «Geodemos, Che cosa dice il patto globale sulle migrazioni dell’Onu e perché 12 paesi – fra cui l’Italia – hanno deciso di non firmarlo», “Limes Rivista Italiana di Geopolitica”, 7/01/2019: http://www.limesonline.com/rubrica/che-cosa-dice-il- global-compact-sulle-migrazioni-onu. Ultima consultazione gennaio 2019.

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gestire la pressione migratoria dal Sud del mondo senza accordi tra paesi di partenza e paesi di arrivo, senza una sintesi intelligente di aiuti economici, senza rafforzare i rapporti politici, culturali e sociali, senza attivare canali migratori legali, rifiutando regole e normative comuni, trascurando i diritti delle persone84.

Nonostante sia un dato di fatto che le sfide globali non possono essere affrontate in maniera autonoma, sembra che gli Stati oggi abbiano scelto questa strada, in nome di una geopolitica che non guarda mai all’essere umano, all’individuo, bensì al puro interesse economico, politico e strategico. Di fronte ad una realtà così complessa c’è da chiedersi cosa manchi a quelle stesse Istituzioni che regolano conflitti, stipulano trattati, cercano intese. La risposta è stata: l’umanità. Il paradosso sta nel fatto che le istituzioni politiche sono fondate da esseri umani, non da entità astratte o robot che agiscono per nostro conto. Da qui l’importanza dell’educazione, di creare consapevolezza e dare valore alla memoria abbattendo i muri, i confini che prima di essere fisici sono mentali e si chiamano “paura” e “pregiudizio”. Senza una conoscenza attenta del nostro interlocutore, soprattutto in ambito internazionale dove si giocano partite di interesse comunitario, nessuna strategia politica, a mio avviso, potrà mai davvero funzionare. Sempre la Libia è un esempio calzante: nel 2011 sotto pressione della Francia85 Gheddafi fu deposto, ma non si pensò minimamente a un “dopo Gheddafi”, facendo sprofondare il paese nel caos e provocando un vuoto politico che tutt’oggi, come visto, rimane86. Dialogare con questo Stato, o meglio, non-Stato, soprattutto per la questione migratoria, come ha cercato di fare l’Italia, non è semplice se manca un governo che abbia un controllo effettivo su tutto il suo territorio. Questo è quanto successo in Libia e in Afghanistan, potrebbe concretizzarsi in Siria e si sta verificando in Libia: la presunta superiorità occidentale che si arroga il diritto di intervenire in altri Stati in nome di principi tali la democrazia e il rispetto dei diritti umani o per preservare i propri interessi economici nella zona d’interesse.

Il pressappochismo dilagante e la superficialità che accompagna l’opinione pubblica, crea mostri sia tra i confini domestici, come il dilagarsi di sovranismi e nazionalismi in Italia ed in Europa, che fuori. L’obiettivo al quale ho cercato di arrivare

84 Ibidem. 85

C. Bassiouni, Lybia from repression to devolution: a record of armed conflict and International law violations, Koninklijke, Leiden, 2013.

86 A. Pargeter, Lybia: from reform to devolution, in Y. Zoubir, G. White (a cura di), North African politics: change and continuity, Routledge, New York, 2016.

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è che solo conoscendo si crea consapevolezza perché la guerra non si abolisce con i trattati bensì con l’educazione.

Harrāga è un termine in uso in tutto il Maghreb e letteralmente vuol dire «coloro

che bruciano»87. Sono coloro che decidono di prendere il mare con mezzi di fortuna per raggiungere le coste europee. A Tunisi, Algeri o Tangeri dicono «bruciare la frontiera» per chi prende la scorciatoia del mare spesso dopo aver ricevuto un diniego alla richiesta di visto in qualche ambasciata europea. Bruciare i documenti per bruciare una frontiera, una frontiera che come detto nel primo capitolo non esisteva prima dell’arrivo degli occidentali. L’idea dunque è quella di violare consapevolmente una norma, di buttare il proprio corpo oltre il confine per riprendersi un diritto elementare, quello alla mobilità.88

L’Europa invece ha la forma del suo cimitero Mediterraneo, afferma Gabriele Del Grande:

Io il mio lavoro l’ho iniziato così dodici anni fa: contando i morti alle porte del vecchio continente, lungo le rotte del contrabbando in frontiera. Ad oggi le stime più caute parlano di trentamila morti fra Libia e Sicilia, Turchia e Grecia, Marocco e Spagna. E il dato reale è probabilmente molto più grande, perché buona parte dei naufragi sono avvenuti in alto mare senza che stampa e autorità ne abbiano mai ricevuto notizia.

Quella grande fossa comune ci interroga sulla nostra indifferenza, non tanto e non solo dei nostri governi, ma in primis delle nostre società che hanno ormai imparato a convivere con questi numeri da guerra in frontiera. È imparare a convivere con questi numeri, come in passato si conviveva con gli ebrei deportati, che si arriva all’assuefazione della memoria. L’indifferenza che ogni giorno il cittadino medio

87 Dall’arabo dialettale ةـﻗﺍﺮﺣ, letteralmente «coloro che bruciano» (i documenti). Gli immigrati irregolari provenienti dall’Algeria e dal Marocco se arrestati bruciano i documenti perdendo di fatto la propria identità. Senza documenti risulta infatti più difficile per le autorità francesi e spagnole rimpatriare questi immigrati clandestini.

88 Intervista a G. Del Grande, in «Potere è cessare di temere la morte»: Gabriele del Grande ha scritto il Guerra e Pace dello Stato Islamico, Gli ho chiesto di redigere il vocabolario della gloria e dell’orrore, “Pangea rivista avventuriera di culture e idee”, 12/01/2019: http://www.pangea.news/potere-e-cessare-di- temere-la-morte-gabriele-del-grande-ha-scritto-il-guerra-e-pace-dello-stato-islamico-gli-ho-chiesto-di- redigere-il-vocabolario-della-gloria-

e/?fbclid=IwAR3SLanF9PicY9egw6Se8JLTvXsqCBvwgXfcGVXgJEVCEWQV1rB4Chss-GY. Ultima consultazione gennaio 2019.

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dimostra nei confronti dei suoi diritti, che dà troppo spesso per scontati, dei suoi doveri e soprattutto di ciò che lo circonda, ha distrutto il pensiero critico, la capacità di confronto piuttosto che di scontro verso l’altro. La guerra nasce da qui: i muri e le bombe sono solo la conseguenza più atroce. Allo stesso tempo quei morti nel mare stanno scrivendo una storia che legherà per i secoli a venire l’Europa all’Africa. È una storia potente di mescolamenti di popoli e di culture. Una storia più forte delle paure e delle narrazioni contro la mobilità umana. «Se le relazioni umane fossero fili saremmo davanti ad una rete di milioni di nodi intessuta fra l’Europa e l’Africa. Il destino di milioni di noi si è intrecciato con quello di altrettanti abitanti della riva sud. Sono storie di amici, di parenti acquisiti, di amori, di affari, di viaggi, di scoperte»89.

Il Mar Mediterraneo è quindi prima di tutto un mare di popoli, quegli stessi popoli del Sud che nel Medioevo continuarono a tenere aperti i contatti con il mondo arabo- islamico invece di fuggire il nemico. Oggi il Medioevo è nella testa dell’uomo e come in ogni relazione umana, quando si crea chiusura non può esserci dialogo, quando la paura e l’insicurezza prevalgono sulla possibilità di trovare un punto di contatto, le politiche d’odio riportano indietro nel tempo. L’Impero Romano fu il simbolo di un’epoca di sfarzo, conquiste intellettuali, ingegneristiche e militari e solo con il Rinascimento ci fu una ripresa della ragione. Il mondo tornò ad aprirsi: furono fatte nuove scoperte in campo scientifico e il Mediterraneo riprese a fiorire. Il Mediterraneo precedentemente descritto è invece un mare chiuso, nel quale le Potenze cercano il loro posto, è voluto da tutti ma nessuno è riuscito a dare attenzione all’elemento essenziale: i popoli che lo abitano.

In tempi di crisi come questi prevale però il meccanismo dell’obbedienza totale e della sottomissione incondizionata ad un’idea, senza aver indagato sul suo significato. In tempi di pace la sottomissione è all’immaginario collettivo, al controllo sociale, alla morale, al pensiero debole come alle ideologie forti. In questo senso il concetto di bene e di male sono importanti perché definiscono «da che parte della trincea posizionarsi»90.

Per dire «mai più» bisognerebbe indagare i meccanismi della violenza, dell’odio, dei totalitarismi, della propaganda, della guerra e del potere. Farlo ci costringerebbe ad abbandonare il comodo e illusorio punto di vista della lotta fra il bene e il male, ci

89 Ibidem. 90 Ibidem.

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costringerebbe a osservare gli aspetti più oscuri della nostra imperfetta umanità. É scomodo perché non ci assolve. «Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti» cantava Fabrizio De André, perché non ci sarà mai la certezza che al posto di altri saremmo stati vittime e non invece carnefici. Questa scomoda consapevolezza è stato il punto di partenza per la mia ricerca che, andando oltre l’ambito puramente accademico, ha voluto indagare, lavorando a contatto con i più giovani, cosa muovesse quest’ultimi a rapportarsi con gli altri coetanei e quali muri erano portati a creare in un contesto completamente avulso dal quotidiano: il teatro. A teatro le idee sono la soluzione alla situazione di conflitto che si viene a creare. Con il tempo arrivai a chiedermi se queste stesse idee potessero essere applicate alla geopolitica, dal momento che un’idea non si sconfigge con una bomba ma con un’altra idea.

I muri e le frontiere che oggi l’Occidente continua a costruire, in Africa e nel Mediterraneo nel caso specifico, gli ho sempre visti come un’umiliazione dello spazio: «la mia patria è dove poggio i piedi»91 mi disse Nabil Salameh92 «perché la nostra cultura dev’essere uguale alla vostra? Solo perché i vostri eserciti hanno vinto?».

Volevo interrogarmi sul mare, frontiera fluida di popoli e culture. Ho sentito l’esigenza di capire e così da lì partì definitivamente il mio viaggio.

Quasi dieci anni fa Amin Maalouf, scrittore franco-libanese e arabo-cristiano, ammoniva: «ridurre l’identità a un singolo senso di appartenenza instilla negli uomini un atteggiamento parziale, settario, intollerante, dominatore, a volte suicida, e li trasforma in assassini, o in sostenitori di assassini»93. Semplificare il senso di appartenenza apre pericolosamente la via all’eccesso dell’intolleranza verso l’altro. Le generalizzazioni e quindi la non conoscenza dell’altro sono la causa primaria di incomprensioni e intolleranze che portano all’attuazione di politiche inadeguate e avulse dal contesto. Le barriere più grandi sono quelle dentro ciascun essere umano, sono il segno di una memoria che non esiste più. Ma allo stesso tempo è proprio dalla memoria

91 Intervista con Nabil Salameh rilasciata il 27/07/2018 a Sestri di Levante (Teatro Conchiglia), «Rassegna Teatri di Levante», a seguito dello spettacolo Teatrale Mediterraneo.

92 Cantautore e giornalista è nato a Tripoli del Libano da rifugiati palestinesi. Dal 1998 al 2007 ha lavorato come corrispondente dall’Italia per al-Jazeera. È fondatore del gruppo Radiodervish, una delle realtà più affermate di World Music in Italia. Dal 2014 è docente di storia della musica araba al Conservatorio Nino Rota di Monopoli. Relatore in molte conferenze sulla cultura e sulla musica del mondo arabo, è attualmente anche membro del comitato UNRWA-Italia.

93 G. Querini, Identità Europea: verso uno ius valoris, “La Nuova Europa: economia, politica e società”, 12/07/2017: http://www.lanuovaeuropa.it/identita-europea-verso-uno-ius-valoris/. Ultima consultazione gennaio 2019.

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che dovremmo partire per costruire una coscienza europea e un’identità. Le migrazioni possono essere un aiuto dal momento che fanno parte della storia europea. Una memoria che si libera dai rancori e dai conti in sospeso generatori soltanto di rabbia, vendetta, violenza. A partire dai colonialismi, che in Italia soprattutto sono stati dimenticati, stimolando tutti a uscire dalle logiche di vittima e carnefice di cui parlava Gabriele Del Grande. In questo modo tutti sarebbero portati a guardare avanti, senza alibi, assumendosi la responsabilità della nuova Europa, nessuno escluso. Considero il teatro uno degli strumenti più potenti per riuscire in questo intento.

Amnesia e ansia di conservazione del passato possono leggersi come facce della stessa medaglia. Paesi che nell’accelerazione di fenomeni complessi di trasformazione sono in crisi di identità, giovani che non sono più depositari di narrazioni familiari che quella storia avevano vissuto in prima persona, rappresentanze politiche in debito di rappresentanza, compongono un insieme in cui la memoria storica non fa più, autenticamente, da collante94. La cristallizzazione di una memoria incapace di essere fattore di innovazione, di crescita, portatrice di futuro più che cassaforte del passato è causa di immobilismo. Qui s’innestano le strumentalizzazioni a fini politici, elettorali, di cui sono responsabili le Istituzioni. «Istituzioni deboli producono una memoria debole (ritualizzata); istituzioni forti, sorrette da una coscienza civile altrettanto forte, producono una memoria consapevole e partecipata»95.

La memoria è qualcosa di mobile non statico, plurale non uniforme. In Italia vincitori e vinti non sono mai usciti dall’atteggiamento vittimario, le ferite restano sanguinanti, la risposta al negazionismo per anni è stata la codificazione di una narrazione eroica. Tutto quello che esisteva prima del secondo dopoguerra fu eliminato. Ad oggi non c’è da stupirsi se somali ed eritrei muoiono nel Mar Mediterraneo senza un minimo di rispetto da parte degli italiani i quali si meravigliano che sappiano parlare italiano. La rimozione del colonialismo e di quello che comportò dalla memoria nazionale ha lasciato nelle persone un’incapacità di ascolto e comprensione verso chi viene etichettato ancora come “diverso” quindi pericoloso96.

94 E. Banfo, Una memoria europea per costruire una coscienza europea, «Affari Internazionali», 1/01/2019: https://www.affarinternazionali.it/2019/01/memoria-europea-coscienza/. Ultima consultazione gennaio 2019.

95 Ibidem.

96 Sulla rimozione del colonialismo italiano N. Labanca, Oltremare, Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 427-471; G. Calchi Novati, L'Africa d'Italia- Una storia coloniale

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Questa mancanza di conoscenza, di consapevolezza non può che portare le Istituzioni ad attuare politiche e a stipulare trattati che, come analizzato in questo capitolo, portano ad innalzare muri d’intolleranza e a costruire barriere fisiche. Il teatro, strumento di apertura verso l’altro può diventare un primo passo per superare il gap geopolitico: la mancanza d’umanità.

e postcoloniale, Carrocci, Roma, 2011; J. Andall, D. Duncan, Italian Colonialism. Legacy and Memory, Peter Lang, Oxford, 2005.

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