• Non ci sono risultati.

Per una "geopolitica umana": il teatro come strumento di prevenzione dei conflitti e superamento dei confini

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Per una "geopolitica umana": il teatro come strumento di prevenzione dei conflitti e superamento dei confini"

Copied!
167
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in Studi Internazionali: Geopolitica

dell’Interesse Europeo nell’Era della Globalizzazione

TESI DI LAUREA

Per una “Geopolitica umana”: il Teatro come strumento di

prevenzione dei conflitti e superamento dei confini

ANNO ACCADEMICO 2017/2018

Candidata:

Alessandra D’Arrigo

Relatore:

Chiar.mo Professor

Francesco Tamburini

(2)

INDICE

INTRODUZIONE – La questione dei confini e delle barriere interafricane ... 1

1. FRONTIERE IN AFRICA: CONCETTO ENDOGENO O ESOGENO? 1.1 Esiste un confine precoloniale? ... 6

1.2 L’Africa coloniale ... 18

1.3 L’Africa indipendente ... 28

2. UN MEDIOEVO DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI? 2.1 La teoria di Pirenne applicata al presente ... 44

2.2 Di chi è il Mar Mediterraneo?...53

2.3 Cina: fattore di paura dall’Oriente ... 71

2.4 Mare di popoli ... 75

3. PER UNA “GEOPOLITICA UMANA” 3.1 Non tutti i cigni sono bianchi ... 83

3.2 Il corpo politico ... 92

3.3 Oltre i confini ... 110

CONCLUSIONI – Incessante è il peregrinare dell’uomo ... 122

Appendice Fotografica ... 129

BIBLIOGRAFIA ... 141

(3)

1

INTRODUZIONE

La questione dei confini e delle barriere interafricane

Cosa si intende quando parliamo di confini? Di che tipo possono essere? Il confine fisico è quello che, per sua natura, si vede, è tangibile, definisce un luogo, ciò che mi appartiene da ciò che mi è estraneo, sconosciuto. Da sempre nella storia l’uomo ha creato e disfatto confini, li ha superati, invadendo territori altrui, li ha modificati non rispettandone la morfologia geografica, unendo popoli per lingua, cultura e tradizioni differenti o ha diviso quest’ultimi che, invece, appartenevano ad una stessa comunità, a uno stesso ceppo religioso, linguistico o etnico. Ma esistono anche altri tipi di confini, causa più profonda della creazione di barriere fisiche, i confini mentali alimentati all’interno della società nella quale siamo nati, nella quale ci identifichiamo e, occidentalmente parlando, riteniamo portatrice di valori universali e assoluti. Una società, quella odierna, che porta all’omologazione e tende ad innalzare barriere contro l’identità culturale del singolo individuo che poi si trasforma in barriera fisica contro lo straniero.

Il mondo è da sempre diviso tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, tra ricchi e poveri ma soprattutto tra paesi benestanti e nazioni sottosviluppate. Esiste un muro invisibile che separa ciò che conosciamo da ciò che non conosciamo, la diversità. Il Sud del mondo guarda costantemente a Nord e a Occidente ma sono quest’ultimi pronti ad accettarlo? Le frontiere, prima di tutto, nascono dentro noi stessi portandoci a rifiutare, allontanandolo, ciò che non conosciamo. Oggigiorno i flussi migratori provenienti dai paesi dell’Africa Sub-Sahariana hanno innescato un fuoco che compromette la coesistenza tra differenti culture e razze, ampliando gli stereotipi occidentali come quelli fisici e culturali.

Nelle età di crisi, mentre tutto sembra incerto, l'impensabile normale, il futuro abolito dal presente, scopriamo l'urgenza di definirci. Tradotto in geopolitica, ridisegnare i confini materiali e mentali che separano Stati, popoli e soprattutto popoli negli Stati. Poiché ogni determinazione è una negazione – io sono io in quanto non sono te – la revisione dei limiti interni ed esterni alle nazioni si rivela conflittuale.

La globalizzazione è la causa di questa conflittualità; mettendo in rilievo le differenze culturali, fa sì che queste ultime diventino fisiche e viceversa. Se la libera

(4)

2

circolazione delle persone, la possibilità di entrare in contatto con culture differenti, di contaminarsi a vicenda è annoverato tra uno degli effetti positivi della globalizzazione, l'abbattimento di una barriera ha paradossalmente come conseguenza l'erigersi di un muro più alto e spesso. In un mondo multietnico nel quale la diversità è punto di forza, se questa non viene contenuta, limitata all'interno di un contesto istituzionale riconosciuto e in grado di attuare politiche pubbliche che integrino le diverse culture, l'egoismo nazionale prevarrà. I muri che non si vedono sono quelli più profondi che si ergono e crescono lentamente sedimentando sentimenti quali l'odio, il rancore, nati dal pregiudizio di non conoscere davvero colui o colei che comunemente chiamiamo straniero o dalla presunzione di considerare il nostro modo di vivere migliore e superiore. Ma tutto dipende da ciò che si considera il "nostro" centro del mondo, il "nostro" ambiente protetto.

Colore della pelle, abilità o imperfezioni fisiche, intolleranze a sfondo culturale, sessuale e religioso si intrecciano alle classiche faglie socio-economiche. Il sorgere di queste barriere mentali porta l’essere umano a chiudersi tra le proprie mura che, geopoliticamente parlando, si traducono in frontiere fisiche alimentate da una forte politica interna nazionalista. La frontiera fisica, oggettivamente inevitabile, è diventata fonte di discussioni politiche sia nazionali che internazionali, economiche con un forte ritorno al protezionismo, e infine culturali con una crescente paura nei confronti di chi non condivide gli stessi valori.

Quello che manca oggi è un ruolo attivo delle istituzioni, la globalizzazione non segue il diritto, segue le leggi del mercato, regole volatili che cambiano a seconda dell’interesse. La demografia da sola non crea una nazione o un impero. Ogni protagonista della storia universale si distingue per il talento di trasformare parte degli alieni in propri cittadini. L'integrazione è segno di suprema egemonia. Per integrare servono confini certi e difendibili; valori forti, condivisi in patria e attraenti fuori; lavoro e status per chi produce, protezione per chi è fuori dal circuito economico; disponibilità al sacrificio per il bene comune; istituzioni legittimate e regole rispettate. Questa è integratio nel duplice senso originario: rinnovamento e accrescimento.

Posta l'impossibilità oggettiva di eliminare totalmente una barriera fisica, politica, ideologica che si copre soltanto di finto buonismo in politiche di accoglienza che non funzionano, ho riscontrato nel teatro la possibilità di superare il primo passo di un muro che si viene a creare, ancor prima di quello tangibile ma che inconsciamente siamo

(5)

3

portati ad avere vuoi per istinto di sopravvivenza, vuoi per egoismo. Perché l'essere umano è profondamente egoista e nella sua ignoranza crede che nonostante la spinta all'apertura verso le altre culture, la contaminazione di idee, lingue tra i diversi popoli, prevalga il senso a chiudersi tra i propri muri.

Tutte le problematiche della geopolitica nascono proprio dalla non conoscenza dell'altro, i confini artificiali creati a tavolino in Africa, per esempio, senza tener conto delle diverse peculiarità di un popolo, spesso non hanno fatto altro che alimentare l'odio dei popoli africani verso gli europei. Altre volte ha prevalso l’assuefazione ma mai la comprensione. La politica internazionale guarda sempre al suo vicino come straniero, come colui che vive al di là del muro, amico solo in caso di bisogno economico. Il confine crea di fatto una barriera tra popoli alimentatrice di forti tensioni, tensioni che degenerano in guerre intestine contro i governi locali, guerre internazionali e conseguenti migrazioni.

Quindi sino a che punto la globalizzazione, la transnazionalità possono funzionare e intrecciarsi l'un l'altro se vi è sia a livello individuale che istituzionale un'ipocrisia di fondo?

La lingua è l'elemento di appartenenza ad una comunità più forte che esista. Il ceppo linguistico identifica un popolo, le sue origini, la sua storia e di conseguenza crea una barriera comunicativa e territoriale verso l'esterno. Il passato ma anche il presente sono ricchi di casi che ben esplicano i muri venutosi a creare tra diverse comunità linguistiche che, se mal integrate, o addirittura ghettizzate, sfociano in violenze. Un esempio è la lingua inglese diffusati a macchia d’olio in tutto il mondo e diventando di conseguenza la lingua veicolare con la quale tutti comunicano. Una lingua che semplifica, che riduce all’essenziale i concetti e quindi strumento perfetto della globalizzazione per arrivare in ogni angolo del mondo. Ma questa semplificazione nasconde le differenze che in realtà esistono tra i popoli, differenze che, sconosciute alle istituzioni politiche, possono diventare pericolose sia all’interno di uno Stato dove vivono minoranze etniche, linguistiche e religiose, sia a livello internazionale nelle politiche chiamate spesso erroneamente di “aiuto allo sviluppo”, nella gestione dei flussi migratori, nella militarizzazione o smilitarizzazione di un’area.

Volendo porre la mia attenzione di suddetta analisi sul continente nero, un esempio di smilitarizzazione di un’area è rappresentata dall’egemonia mondiale degli Stati Uniti che ha deciso di limitare la presenza di Africom (United States African

(6)

4

Command) sul territorio africano. Le operazioni di Africon consistono nel prevenire il

fallimento degli Stati, addestrandone le Forze armate e combattendo i gruppi estremisti violenti che pianificano attentati contro Washington o le sue postazioni nel mondo. Perché questa scelta? Non è in Africa che si gioca il primato mondiale, poiché esso non è un continente geostrategico nonostante le sue immense ricchezze. L’Africa non è decisiva per la supremazia a stelle e strisce perché nessuno è ancora in grado di comandarla nel suo insieme né di farlo in quadranti importanti, come per esempio il Corno d’Africa. L’influenza cinese, nonostante sia galoppante sul territorio africano, è ancora molto lontana dall’esercitare un controllo diretto. Le fragili sovranità locali sono un altro fattore che impedisce la possibilità di creare autentiche alleanze. Combattere i jihadisti, motivo principale della presenza statunitense in Africa non è più la prima preoccupazione del Pentagono che, adesso, è tornato a rivolgere la sua attenzione verso teatri di competizione geostrategica più allettanti tali Russia e Cina. Chi rimane dunque in Africa?

L’Europa, o meglio, l’Unione Europea, nel Mediterraneo trova il suo accesso diretto all’Africa. Ma cosa conosce davvero questo ibrido istituzionale del continente nero?

Il mio lavoro si propone di porre l’analisi sul concetto di confine, inteso come barriera, limite mentale quanto fisico, ampliato dalla non conoscenza e dalla presunzione di superiorità. Quale ruolo si deve riserbare alle istituzioni europee di fronte al problema strutturale dell’immigrazione consistente e persistente dall’Africa Sub-Sahariana? Cosa spinge davvero intere popolazioni a spostarsi? Chi comanda in quegli Stati? Ma cosa più importante possiamo considerarli Stati nel senso occidentale e democratico del termine? Le istituzioni locali sono adeguate a difendere i propri confini e a tutelare le proprie popolazioni? Su cosa bisogna investire?

Allontanandomi dalla classica ricerca scientifica universitaria, ho voluto analizzare, lavorando con bambini e adolescenti, il ruolo del teatro nella crescita di quest’ultimi e del loro rapporto con la società che li circonda. Da questa esperienza, che mi coinvolge direttamente da oltre cinque anni, ho cercato di approfondire il ruolo del teatro nelle scuole, come possibile ponte tra esse e la società. Ciò che manca alle istituzioni europee ma essenziale se vogliamo capire chi vive sull’altra sponda del Mediterraneo, è la conoscenza, l’umiltà di voler conoscere davvero chi abbiamo di fronte cose che invece è prerogativa fondamentale a teatro. Senza di essa nessuna politica economica, culturale, integrativa o militare potrà davvero funzionare. Le

(7)

5

istituzioni sono composte da esseri umani ma sono percepite come lontane dai cittadini, spesso inadeguate a ricoprire il ruolo per le quali sono state istituite. Ripartire dalla base, dalla natura stessa dell’uomo, da quell’essere bambino che vive senza porsi il problema se la persona che ha di fronte è nemica, ma solo se gioca con lui, può essere un investimento a lungo termine.

Quella che io chiamo la “geopolitica umana” è un fattore ancora poco utilizzato dalle potenze globali, al quale si dà poca attenzione, nonostante invece la forza sta proprio nell’importanza data alla collettività, al gruppo di individui, di persone pensanti, quindi di cittadini legittimati a partecipare attivamente alla vita politica e sociale. È, perciò, necessario superare lo scollamento creatosi tra la realtà umana e quella istituzionale, un primo confine che non si vede ma che c’è e forse è più grande di tutti gli altri. Il teatro, come dimostrato anche da studi condotti dall’Unione Europa, ricopre un ruolo fondamentale in questa direzione, dobbiamo, però, imparare a vederlo. Del resto, per individuare gli eventi che altereranno lo status quo internazionale, che sconvolgeranno la gerarchia delle grandi potenze è indispensabile calarsi nella dimensione umana della geopolitica, nelle sue pieghe ineludibili1 e capire così come muoversi. La geopolitica è fatta di uomini, tutti gli uomini sono stati bambini ma spesso se ne dimenticano; eppure sono loro il nostro futuro.

1 D. Fabbri, Per una geopolitica umana applicata ai dati, in «La rete a stelle e strisce», “Limes Rivista Italiana di Geopolitica”, mensile, N. 10, 2018, p. 30.

(8)

6

1.

F

RONTIERE IN

A

FRICA

:

CONCETTO ENDOGENO O ESOGENO

?

1.1 Esiste un confine precoloniale?

Per molto tempo si è ritenuto che i confini africani fossero stati concepiti in modo artificiale e arbitrario costituendo, a livello internazionale, un caso unico. In realtà tutti i confini contengono da sempre una dose di artificiosità che ha danneggiato intere popolazioni o etnie. Allo stesso tempo non è sempre vero che gli africani siano stati un soggetto del tutto passivo di fronte alle decisioni del colonialismo europeo al momento della definizione delle frontiere1. Alla luce di ciò è però innegabile che in Africa la costruzione delle frontiere sia avvenuta in modo arbitrario, anche perché esse erano un concetto sconosciuto alle popolazioni autoctone2 e non vi era stata, da parte dei colonizzatori, un’attenta e preventiva analisi della topografia e delle popolazioni esistenti, ma furono utilizzati criteri astronomici e matematici3. Un caso emblematico di questa artificiosità fu rappresentato dai confini tra Burkina Faso e Mali; le frontiere non erano che decisioni amministrative interne decise dalla Francia e furono tracciate con rapidità e poca decisione. Il carattere arbitrario di queste composizioni e tagli amministrativi, associati ad una forte componente nomade delle popolazioni, avrebbe alimentato nel futuro molti dissidi e incomprensioni4. Tale mancanza di dialogo portò, dopo la decolonizzazione, all’adozione di principi per la definizione di confini uguali a quelli delle ex Potenze coloniali; principi che tutt’oggi si basano sull’intangibilità delle frontiere coloniali. Le popolazioni autoctone africane vennero così private dall’avere propri strumenti legislativi e concettuali riguardo a cosa fosse una frontiera e vi si applicarono principi occidentali.

Ma cosa differenzia una frontiera da un confine? Sulla accezione dei termini «frontiera» e «confine» e sulla distinzione fra l’uno e l’altro si riscontrano posizioni diverse. Per alcuni con il termine frontiera si intende la zona di territorio nei cui caratteri

1 S. Touval, Africa’s frontieres: reactions to a colonial legacy, «International Affairs», Royal Institute of International Affairs. Vol. 42, N. 4, 1996, pp. 641-654; The boundary politics of independent Africa, Harvard University Press, Cambridge, 1972, pp. 3-16.

2 ID., Treaties, borders and the Partition of Africa, «Journal of African History», Vol. 7, N. 2, 1996, pp. 279-293.

3 R. Kapil, On the conflict potential of inherited boundaries in Africa, «World Politics», Vol. 18, N. 4, 1966, pp. 656-673.

(9)

7

si manifesta concretamente la divisone fra due diverse entità territoriali, mentre con il termine confine, la linea di separazione fra le due entità nella sua astrazione5; altri invece si concentrano di più sulla concretezza ed effettività della separazione distinguendo i confini come «imaginary lines which define an area or a territory»6 e la frontiera come «a boundary at which inter-state functions are applied»7. Sulla base di suddette distinzioni e del lungo processo per la delimitazione delle diverse aree del continente africano sottoposte alla sovranità o al controllo dell’una o dell’altra Potenza8

, a proposito dell’Africa, sembrerebbe più corretto parlare di confini anziché di frontiere. Confini che in epoca precoloniale non esistevano.

A lungo gli europei hanno preferito raccontare l’Africa come priva di passato. Un atteggiamento figlio dell’imperialismo ottocentesco che ha cancellato dalla nostra memoria, e in parte da quella africana, il ricordo delle grandi civiltà precoloniali. L’idea di un continente sine historia deriva dall’immaginario dell’imperialismo, che concepiva il dominio europeo su tutto il resto del mondo come frutto di una presunta superiorità della civiltà «bianca»; nacque così l’idea di una missione civilizzatrice dell’Europa che avrebbe giustificato l’occupazione dei territori, la discriminazione, lo sfruttamento di persone e risorse9.

Così, in quest’ottica, Hegel poteva scrivere che

L’Africa è una parte del mondo che non ha storia, essa non presenta alcun movimento o sviluppo, alcun svolgimento proprio. Vale a dire che la parte settentrionale appartiene al mondo asiatico ed europeo. Ciò che noi intendiamo propriamente come Africa è lo spirito senza storia, lo spirito non sviluppato, ancora avvolto nelle condizioni naturali…10

Una prospettiva totalmente distorta ed eurocentrica della vicenda storica africana che ha animato gli studi sul continente sino ad anni molto recenti. Infatti, con le indipendenze,

5 J.R.V. Prescott, The Geography of Frontiers and Boundaries, Hutchinson University Library, London, 1965, p. 30.

6

A. Allott, Boundaries and the Law in Africa, in «African Boundary Problems», C.G. Widstrand, Uppsala, 1969, p.9.

7 Ibidem.

8 S. Bono, op. cit, p. 2 9

R. Roveda, L’Africa e la sua storia, in «Africa il nostro futuro», “Limes Rivista Italiana di Geopolitica”, mensile, N. 11, 2015, p. 151.

10 G. W. F. HEGEL, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, Duncker und Humblot, 1848. Traduzione a cura di G. Bonacina, L. Sichirollo, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Bari, 2003.

(10)

8

a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, i sistemi statuali e politici africani sono stati analizzati in rapporto ai modelli di modernizzazione e sviluppo dei paesi occidentali; modelli estranei all’esperienza storica di trasformazioni e sconvolgimenti della complessa realtà dell’Africa. Di questo difetto teorico si è nutrita la resistente negazione della storicità dell’Africa; ciò che più colpisce negativamente è il paternalismo con cui si rappresentano le vicende del continente. Un’Africa antica, mitica, da odi etnici ancestrali, da salvare11. Ma l’Africa nera non è solo l’Africa dei neri; rimane l’Africa ignota e incomprensibile perché il mondo occidentale non ne accetta la storicità e accettarla significherebbe mettere in discussione il nostro pregiudizio.

Ci provò a metà del Novecento lo storico e antropologo senegalese Cheikh Anta Diop, la cui semplice constatazione, riguardo la storia dell’Africa che ebbe inizio con l’antico Egitto e che la civiltà dei faraoni fu prettamente africana anche per i legami con la Nubia abitata dagli antichi etiopi, provocò forte sconcerto12. Questa tesi suscitò numerosi dibattiti tra gli studiosi europei, ma fu di vitale importanza perché, per la prima volta, l’Africa venne vista con una storia e una civiltà propria, le cui radici sono antiche quanto e più di quelle europee.

Storia e civiltà non riguardano solo le aree affacciate sul Mar Mediterraneo, ma concernono anche l’Africa subsahariana, quella che gli europei hanno chiamato per troppo tempo continente nero anche per sottolinearne gli aspetti oscuri, misteriosi e «selvaggi». Una vasta area a sud del grande deserto del Sahara che, come mostrano tanti studi recenti13, apparve ai primi esploratori europei del XV e XVI secolo abitata da popoli con usanze e credenze differenti da quelle presenti in Europa. Differenti, non inferiori. Le fonti della prima età moderna, precedenti alla tratta degli schiavi e al colonialismo, parlano infatti di stupore per il lusso e la ricchezza di alcuni sovrani africani, per le loro tante mogli e i numerosi schiavi. Questi primi europei in Africa non si confrontarono con nulla che ai loro occhi potesse apparire incomprensibile, frutto di una «civiltà» inferiore o di un’assenza di civiltà. Vennero in contatto, soprattutto nell’area subsahariana occidentale, con Stati di grandi dimensioni, dediti ai commerci su

11 A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995, p.11. 12

C. A. Diop, Precolonial Black Africa, Lawrence Hill Books, Chicago, 1987.

13 Si faccia riferimento ai lavori dello storico britannico Basil Davidson in «Africa in History, Touchstone, New York», 1995, grazie al quale si ha avuto una prima evoluzione della storiografia africana moderna in chiave anticoloniale.

(11)

9

vasta scala e lunghe distanze come avveniva in Europa. Stati caratterizzati da norme e gerarchie sociali con sovrani dall’autorità semidivina. Insomma, un quadro sociale e politico non lontanissimo da quello dell’Europa al passaggio tra Medioevo ed Età Moderna.

«Non ci fu all’origine del rapporto tra i due continenti alcun impatto immediato tra una civiltà superiore europea e una civiltà inferiore africana. Ci fu un contatto basato sulla similitudine, sulla compatibilità e sulla volontà di instaurare proficue e pacifiche relazioni commerciali»14.

È opinione diffusa che prima dell’arrivo dei colonizzatori europei, il continente fosse una sconfinata distesa di terre popolate da miriadi di gruppi etnici litigiosi e incapaci di adottare le più elementari forme di organizzazione politica. Si tratta di un falso storico. Ci si dimentica che in Africa, a differenza di quanto avvenne nelle Americhe, la potenza degli Stati autoctoni fu tale da scoraggiare sino all’epoca della rivoluzione industriale, all’incirca il XIX secolo, qualsiasi conquista su scala continentale15

.

Quali furono le civiltà che determinarono la storia africana in epoca precoloniale? Prendendo come punto di partenza i primi secoli della storia occidentale il Sahara, a quell’epoca, rappresentò (come in parte oggi) il grande spartiacque del continente africano, dividendo l’area mediterranea dalle savane e dalle foreste delle zone a meridione del deserto. Per molti secoli il Sahara, che era andato sempre più desertificandosi, aveva rappresentato una barriera quasi del tutto insormontabile. Le cose cambiarono con la diffusione, a partire dal III secolo d.C., nelle zone sahariane del dromedario, animale che consentì ai nomadi berberi del Nord di instaurare relazioni commerciali durevoli con i regni dell’Africa subsahariana. Queste relazioni diventarono ancora più fitte quando gli arabi si insediarono nella fascia mediterranea dell’Africa a partire dal VII secolo d.C. Gli arabi e i loro intermediari berberi, negli otto secoli che intercorsero prima dell’arrivo degli europei, si confrontarono con Stati organizzati, vasti, straordinariamente ricchi e potenti, soprattutto perché in grado di controllare l’estrazione e il commercio dell’oro16

. I sovrani africani, dai quali i negrieri

14 R. Roveda, op.cit, p. 152. 15

G. Albanese, Una storia tutta da conoscere, «Africana», marzo 2015: http://www.vita.it/it/blog/africana/2015/03/11/una-storia-tutta-da-conoscere/705/. Ultima consultazione novembre 2018.

(12)

10

acquistarono la merce umana a partire dalla fine del Quattrocento, governavano imperi più vasti di qualsiasi moderna nazione europea.

Tra questi vi era l’impero del Ghana (vale a dire la «terra del signore dell’oro»), esteso fin dal V secolo nell’attuale Sud-Est della Mauritania e in parte del Mali. Si trattava di un regno molto ricco: oltre all’oro, lo sfruttamento dell’avorio dalle zanne degli elefanti, le pietre preziose e le pellicce di animali esotici permettevano ai sovrani del Ghana intensi scambi commerciali con gli arabi, che pagavano le merci con un prodotto che scarseggiava nella regione equatoriale, il sale. Nell’XI secolo il Ghana divenne un regno vassallo della dinastia berbera degli Almoravidi17 per poi venire assorbito attorno al 1240 dall’impero del Mali, un altro regno africano islamizzato che sorgeva lungo l’alto corso dei fiumi Senegal e Niger.

Nel corso del Trecento il Mali decadde per l’emergere di un altro Stato-guida dell’Africa subsahariana occidentale: l’impero Songhai di Gao, che si estendeva su un territorio vastissimo lungo il corso del fiume Niger; alla fine del XV secolo esso divenne il più grande stato dell’Africa precoloniale e controllò i traffici commerciali nell’area a sud del Sahara fino alla fine del Cinquecento. Secondo gli storici era diviso in province rette da governatori di nomina imperiale, alle cui dipendenze vi erano pubblici funzionari incaricati della pianificazione economica del territorio, della gestione delle entrate e della giustizia. La sicurezza delle vie commerciali era affidata a due forze armate, esercito e marina, composte prevalentemente da soldati regolari18.

Alla fine del Seicento, si impose il potente impero degli Ashanti19 sotto la guida carismatica di Osei Tutu: questo regno estese il suo controllo lungo tutte le coste degli odierni stati del Ghana e della Costa d’Avorio grazie al controllo della produzione e del commercio di oro. Fu l’impero più potente nella storia dell’Africa precoloniale. Quello che gli storici chiamano Grande Asante consisteva di un nucleo centrale attorno al quale, con gradi diversi di dipendenza dal potere centrale, erano organizzate una serie di

17 Dinastia musulmana berbera nata ai confini del Sahara che regnò in Africa del Nord e in Spagna tra l’X e il XII secolo. Dall’arabo al-Murābiṭūn “quelli dei ribāṭ”, sorta di mistici combattenti che si raccoglievano in strutture di tipo conventuale e militare denominate appunto ribāṭ. Per ulteriori approfondimenti si veda M. Di Branco, Il califfo di Dio, storia del califfato dalle origini all’ISIS, Viella, Roma, 2017, pp 252-255.

18 D. Conrad, The Songhay Empire, Library Binding, London, 1998. 19 A.M. Gentili, op. cit, pp. 69-70.

(13)

11

province periferiche20. La partecipazione alla gerarchia del potere era la principale via di arricchimento che venne meno negli anni Venti del XIX secolo a causa dell’abolizione della tratta degli schiavi21

. Non esistendo più il monopolio statale sul controllo della ricchezza, bensì dipendendo quest’ultima da relazioni esterne, con gli anni l’impero perse prestigio e potere, dissolvendosi del tutto con la conquista militare inglese alla fine del secolo.

Con la fine della tratta atlantica si aprì un’area di conflitti tra gli Stati di cultura yoruba22, causati dalle rivalità per il controllo delle vie commerciali e dal commercio degli schiavi. Stessa cosa accadde agli Stati del delta del Niger che sino alla metà del XIX secolo erano stati fra i principali trafficanti di schiavi; Calabar, Nembe, Bonni, Okrika, Elem, Calabari furono regni costieri organizzati come vere e proprie imprese commerciali23. Furono tra i primi ad entrare in contatto con i commercianti europei che sino alla fine del secolo non riuscirono a penetrare nell’interno del continente africano.

L’ultimo dei grandi regni della costa fu quello del Benin, che raggiunse il periodo di massimo splendore a cavallo tra il XV e il XVII secolo. Retto da integerrimi sovrani «Oba», questo stato sorgeva a ridosso del vasto delta del Niger e si estendeva su un’area di densa foresta tropicale di circa 300mila chilometri quadrati24.

20 I. Wilks, Asante in the Nineteenth Century: The Structure and Evolution of a Political Order, Cambridge University Press, Cambridge, 1975.

21 Si veda L.A. Lindsay, Il commercio degli schiavi, Il Mulino, Bologna, 2011.

22 J. F. Ajavi, R.S. Smith, Yoruba Warfare in the Nineteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge, 1964.

23 E. J. Alagoa, Long-Distance Trade and States in the Niger Delta, in «Journal of African History», 11, 3, 1970, pp. 319-329.

(14)

12

1. Imperi Africani in epoca precoloniale, Wikipedia the free encyclopedia:

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27Africa. Ultima consultazione novembre 2018.

Ciò che accumunò tutti questi imperi fu la presenza di organismi statuali ben strutturati, dominati solitamente da una élite militare di cui il sovrano era la massima espressione. Organismi capaci di riunire sotto un unico controllo regioni anche molto estese così da poter garantire la presenza di mercati, merci, circolazione di denaro e prosperità di commerci che si irradiavano per tutta l’Africa occidentale e oltre.

(15)

13

Le forme statuali presenti in Africa nelle diverse epoche precoloniali sopra analizzate sono quelle società in cui si può fare una chiara distinzione di ruoli, in cui l’autorità è centralizzata e dove sono presenti sistemi amministrativi e istituzioni che applicano una giustizia consuetudinaria formalizzata25. Non tutte le «tribù», genericamente identificate come tali da viaggiatori, missionari o più tardi amministratori coloniali, sono traducibili quindi in Stati, poiché in molti casi non erano dotate di sistemi centralizzati e il potere prevalente rimaneva segmentario. Nella storia dell’Africa si trovano successioni di Stati diversi, ma anche di società che per convenzione sono chiamate «senza Stato» o acefale o decentralizzate, società in cui potere e autorità sono gestiti da sistemi di discendenza, o da alleanze territoriali26.

Se consideriamo queste realtà con il significato che Max Weber dà allo Stato moderno, vale a dire l’espropriazione da parte del principe dei poteri e terreni di tutti i signori locali, imponendosi come detentore del monopolio della forza e del sistema tributario, faremmo un grosso errore di valutazione27.

Le strutture amministrative di Stati e regni dell’Africa precoloniale erano raramente uniformi: differivano a seconda della forza e del significato delle tradizioni locali, della maniera delle loro strutture interne, dell’interesse economico e strategico per il potere centrale. Non fu mai presa in considerazione la figura del singolo, né tanto meno si arrivò mai a supporre il concetto d’impresa capitalistica. Gli Stati che erano dotati di un potere centrale forte potevano essere paragonati alla nostra medievale società feudale, come ad esempio i feudi dei Grandi Laghi (Rwanda, Burundi, Uganda);

25 J. Vansina, Stati precoloniali, in A. Triulzi, Storia dell’Africa e del Vicino Oriente, La Nuova Italia, Firenze, 1979, pp. 15-36.

26

A.M. Gentili, op. cit, p. 23.

27 «Lo sviluppo dello stato moderno ha ovunque inizio nel momento in cui il principe mette in moto il processo di espropriazione di quei «privati» che accanto a lui esercitano un potere amministrativo indipendente: di coloro cioè che possiedono in proprio i mezzi dell'amministrazione, della guerra, delle finanze e beni di ogni genere che siano utilizzabili in senso politico. L'intero processo rappresenta un perfetto parallelo con lo sviluppo dell'impresa capitalistica attraverso la progressiva espropriazione dei produttori indipendenti. Alla fine vediamo che nello stato moderno il controllo di tutti i mezzi dell'impresa politica viene di fatto a concentrarsi in un unico vertice e che nessun funzionario singolo è più proprietario personale del denaro che spende o degli edifici, delle scorte, degli strumenti e delle attrezzature militari di cui dispone. In tal modo si è oggi compiutamente realizzata nello «stato» -ciò che è essenziale per il suo stesso concetto- la «separazione» dell'apparato amministrativo, vale a dire dei funzionari e dei lavoratori dell'amministrazione, dai mezzi oggettivi dell'impresa. Prendono avvio proprio da qui gli sviluppi più recenti, vale a dire il tentativo, che si sta compiendo sotto i nostri occhi, di procedere all'espropriazione di questo espropriatore dei mezzi politici e, dunque, dello stesso potere politico», M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, trad. P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino, 2001.

(16)

14

nelle società africane acefale, invece, l’organizzazione sociale si concentrava nei gruppi di parentela, un insieme di lignaggi apparentati gli uni agli altri in seno ad un vasto sistema genealogico28. Le variazioni nei sistemi non statuali africani includevano anche strutture fondati sulle classi d’età (kikuyu, kamba, masai), sui poteri mitico-religiosi, sui consigli di villaggio dei capi considerati alla stregua di divinità. Questo era il sistema che trovarono i colonizzatori europei al loro arrivo; non vi era quindi una concezione di Stato all’occidentale, con confini precisi e suddivisione dei poteri. Alla luce di ciò cosa poteva essere considerato confine in epoca precoloniale? I termini «etnia» e «tribù» descrivono bene quello che fu l’Africa, in quanto furono parti essenziali dell’analisi della società; erroneamente, invece, si è parlato di «nazione» forma considerata non come una costruzione endogena, ma l’imitazione di forme e ideologie importate dall’esterno per mezzo dell’imposizione di forme statuali coloniali29

.

I termini «etnia» e «tribù» vennero utilizzati indifferentemente come sinonimi per definire e classificare i popoli dei continenti extraeuropei che, si riteneva, non avessero elaborato forme di civiltà politica avanzate.

Il termine «nazione» venne invece riservato alle società che avevano raggiunto, per mezzo del consolidamento dello Stato moderno, la dignità di polis «civilizzate». La definizione delle società africane, come società formate da etnie e tribù, sottintendeva una gerarchia con all’apice le società occidentali.

Per tale ragione il modello secondo il quale gli africani erano usi vivere in entità tribali dai confini ben definiti ed etnicamente omogenee, è un’astrazione astorica. È errata la nozione che i gruppi etnici fossero in epoca precoloniale gruppi culturalmente omogenei. I confini etnici furono e sono tutt’oggi il risultato di interazione e sono quindi per definizione mutevoli, prodotto della storia in cui s’intrecciano dinamiche politiche e scelte individuali. Le tradizioni e di conseguenza le identità di gruppo ed etniche furono continuamente manipolate da chi deteneva il potere.

I confini naturali quali i fiumi vennero spazzati via con l’arrivo dei colonizzatori. La geografia politica dell’Africa non rispecchiò più quella fisica rappresentata dalle montagne, dai fiumi, dai laghi. Al momento delle indipendenze, poi, quasi tutti gli Stati

28 J. Vansina, Les anciens royaumes de la savane, Universitè de Louvain, Louvain, 1965.

29 Sulla questione etnica in Africa si veda L. Vail (ed.), The Creation of Tribalism in Southern Africa, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, 1989.

(17)

15

del continente africano si trovarono con confini poco definiti e incerti che furono anche causa di conflitti diplomatici e armati. Quale fu una delle cause di questa arbitrarietà delle frontiere tangibile anche oggi ma spesso dimenticata?

Il concetto di confine politico era estraneo al pensiero arabo-islamico, predominante nelle regioni del Nord Africa, che sosteneva l’indivisibilità del territorio abitato dai credenti musulmani. Questo perché nell’Islām non è concepito lo Stato nazione caratterizzato da una autorità che ha una base territoriale, ma lo spazio islamico è un qualche cosa di universalistico ed extraterritoriale30. Esiste solo una vasta nazione che è la comunità dei credenti, ʻumma31, che non è definita né da termini etnici, né territoriali. Il concetto territoriale si applica teoricamente a qualunque paese dove abitino dei musulmani32. La ʻumma crea il popolo, qawmiyya, che a sua volta dà origine a watan, la nazione. Si basa tutto su questi tre termini, non esiste un confine politico, geografico che possa mettere fine alla ʻumma; dove c’è anche solo un musulmano c’è la ʻumma perché essa unifica tutti i musulmani al di là dei confini culturali, etnici o nazionali. Lentamente l’Islām si diffuse anche nelle regioni subsahariane, soprattutto tra le classi dominanti dato che offriva un quadro di grande stabilità sociale, permetteva di sentirsi parte di una grande comunità (ʻumma) estesa a nord e a sud del Sahara e rendeva più semplici relazioni e traffici, anche da un punto di vista meramente pratico, grazie a standard di misura e monetizzazione uniformi in tutti i vastissimi territori arabi. Alla fine del XIV secolo imperi come il Mali o Songhai erano considerati a tutti gli effetti Stati islamici33. Il connubio tra civiltà e culture autoctone, relazioni commerciali e cultura islamica caratterizzò anche le zone orientali dell’Africa subsahariana, in particolare quelle affacciate sull’Oceano Indiano. A favorire gli scambi tra queste zone dell’Africa e la Penisola Arabica, ma anche con il subcontinente indiano e la Persia, fu la presenza di una serie di grandi città portuali presenti lungo la costa orientale, dall’attuale Somalia fino al Mozambico. Si trattava di centri prosperi come Zanzibar, Malindi, Mogadiscio oppure Mombasa. Questi centri erano abitati originariamente da

30 F. Tamburini, Il Maghreb dalle indipendenze dalle rivolte arabe: storia e istituzioni, Pisa University Press, Pisa, 2016, p. 12.

31

La parola ʻumma nel Corano assume sia un valore etnico che morale.

32 P.J. Vatikiotis, Islam: Stati senza nazioni. Politica e coscienza religiosa: le ragioni di fondo dei conflitti nell’area musulmana, Il Saggiatore, Milano, 1998, p. 20 e p.64.

(18)

16

popolazioni di origine bantu e ospitavano quartieri destinati ai mercanti arabi, indiani e persiani. Si trattava di città molto attive dove lo scambio culturale era decisamente aperto, tanto da dare origine alla cultura e all’idioma swahili, «lingua della costa».

Nonostante la diffusione a grappolo della religione islamica e della lingua araba un confine netto si venne a creare con i ceti più bassi dove la penetrazione risultò nettamente più difficile, date le usanze ancestrali ed i tribalismi ben radicati.

Il tribalismo in epoca precoloniale è un altro elemento che merita attenzione, in quanto rivestì un ruolo essenziale nel definire le società nordafricane. Le autorità tradizionali, i capi villaggio, erano costituite da una componente laica e una religiosa. La componente laica era ed è tutt’oggi rappresentata dal legame tribale, nel quale gli individui sono legati da una stessa lingua, religione, stessi simboli e tradizioni. La tribù costituiva un centro autosufficiente per quanto riguardava l’amministrazione della giustizia, all’interno di un proprio sistema legale, il controllo sociale e la difesa. Con tali caratteristiche, pertanto, le tribù si contrapponevano al concetto di Stato nazione occidentale34. Il legame tribale può essere definito come «spirito di corpo», «solidarietà tribale» o «coesione sociale», cioè come un insieme di individui che condividono la stessa identità comunitaria35.

Un ultimo elemento da tenere in considerazione per quanto concerne il termine confine nella società e nella cultura africana è la lingua araba. Nelle regioni nord-africane questa lingua definì un confine netto con tutte le popolazioni e gli imperi sopra ricordati dell’Africa subsahariana. Fu l’islamizzazione a provocare l’arabizzazione che a sua volta fece affievolire la lingua berbera, ancora oggi teatro di scontro politico sul suo riconoscimento come lingua ufficiale nazionale36.

In conclusione, presso le popolazioni africane nell’epoca precoloniale, quale nozione e quali concrete espressioni si avevano delle separazioni fra entità statali o fra gruppi politicamente organizzati? Alle società tradizionali africane, il concetto di

34 F. Tamburini, op. cit, p. 24.

35 P. Bonte, Tribus, hiérarchies et pouvoirs dans le nord de l’Afrique, in Tribus et l’État dans le monde arabe, Armand Colin, Paris, 2004, pp-81-101.

36

Si veda V. Brugnatelli, Non solo arabi: le radici berbere nel nuovo Nordafrica, in «Israele più solo, più forte», “Limes Rivista Italiana di Geopolitica”, mensile, N.5, 2011: http://www.limesonline.com/cartaceo/non-solo-arabi-le-radici-berbere-nel-nuovo-nordafrica. Ultima consultazione novembre 2018.

(19)

17

frontiera fu del tutto estraneo37 o si trattò di limiti imprecisi e mutevoli. Sull’influenza dei confini coloniali sulla società africana, invece, sembra lecito affermare che gli Africani abbiano ignorato o siano rimasti indifferenti nei riguardi dei confini in quanto espressione d’una realtà politica, quella del dominio coloniale, ad essi imposta ma sostanzialmente estranea come afferma P. Henry «On the other hand, the great masses of the Africans prove themselves to be superbly unconcerned with the frontiers established by the European powers»38.

Tuttavia nelle zone o regioni di confine, dove si instaurò un controllo della frontiera da parte delle autorità coloniali, ciò provocò un costante contrasto con le popolazioni locali che non tenendo conto di quei confini continuavano a proseguire secondo le abitudini tradizionali. Con l’entrata in funzione degli uffici doganali e di altri controlli di frontiera come al confine tra l’allora Dahomey (dal 1975 Benin) e la Nigeria si verificarono scontri tali da dover modificare le abitudini tradizionali. Altro esempio sono le frontiere del mandato di Ruanda e Urundi lungo le quali erano presenti speciali «frontier tribunals», formati da capi tribù residenti da un lato e dall’altro dei confini39

. Per altre frontiere, invece, operarono commissioni bilaterali, composte da funzionari che si occupavano di amministrare le zone di confine. In ogni caso, qualunque fosse il metodo, il confine di tipo occidentale divenne di fatto l’unico criterio di demarcazione delle frontiere africane.

37 A.P. Brigham, Principles in the delimitation of boundaries, in «The Geographical Review», VII, 1919, p.201, il quale dice che nella fase tribale non sorgerebbe la necessità di confini perché l’attività di un gruppo potrebbe espandersi in uno spazio adeguato alle proprie esigenze senza incontrare atri gruppi, senza percepire il senso di un limite alla propria libertà di movimento.

38 P. Henry, The European Heritage: approaches to african development, in C. Grove Haines, Africa Today, New York, 1968, pp.131-132.

(20)

18

1.2 L’Africa coloniale

Il diffuso disprezzo degli occidentali per i neri d’Africa fu un prodotto della tratta atlantica degli schiavi e poi della cultura dell’imperialismo europeo. Man mano che crebbe il valore degli africani come «merce» venne meno la loro immagine di esseri umani e sulla base di questa svalutazione e disumanizzazione gli europei costruirono il loro immaginario e la loro storiografia dell’Africa.

Gli africani diventarono esseri inferiori, valutazione che forniva il pretesto ideologico alla loro riduzione in schiavitù in un momento in cui l’Europa affermava, con l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese, i princìpi di uguaglianza e libertà. Questo disprezzo crebbe a dismisura con l’aumento della disparità tecnologica ed economica dovuto alla rivoluzione industriale e all’affermarsi del capitalismo imprenditoriale. E il disprezzo fornì le basi per il razzismo basato sul colore della pelle che fece da sostrato teorico al colonialismo imperialista40.

L’Africa divenne così un continente primitivo, sanguinario e selvaggio, e la sua storia venne riletta in un’ottica completamente eurocentrica. Una visuale priva di fondamento ma che con il tempo sostituì la realtà stessa, tanto da essere introiettata anche dagli africani stessi, soprattutto tra le élite dominanti. Ritengo per tale ragione fondamentale ripercorrere la storia dell’Africa coloniale e le vicende delle singole unità che compongono il continente nero che «possono essere comprese pienamente solo se studiate in sé, con le proprie fonti e le proprie ragioni» come scrisse Albert Adu Boahen41. Per lo storico ghanese la storia dell’Africa è la somma di storie locali differenziate. Il solo fattore comune è una stessa metodologia. La storia del continente deve essere gradualmente rimpiazzata da storie dell’Africa o delle Afriche42

.

L’attuale carta geopolitica dell’Africa rispecchia le linee fondamentali della spartizione del continente fra le diverse Potenze coloniali e delle conseguenti divisioni amministrative che furono effettuate dalle Potenze nelle regioni e nelle zone sotto la loro influenza.

40

R. Roveda, op.cit, p.157.

41A. A. Boahen, African Perspectives on Colonialism, The Johns Hopkins Symposia in Comparative History, Baltimora, 1987.

(21)

19

I confini correnti africani ebbero origine con le vicende della spartizione coloniale, nella cosiddetta «scramble for Africa» 43.

Furono diverse le tendenze che contribuirono a rendere i governi occidentali sensibili all'espansione africana, tra cui il declino industriale britannico (le industrie a partire dal 1760 avevano dominato l'economia inglese), la caduta dei prezzi dei manufatti, il passaggio da imperialismo informale a imperialismo formale e l'opera filantropico-religiosa che si rispecchiava nell'ideologia dell'uomo bianco delle tre “C”; cristianità, civilizzazione e commercio. A rendere ancora più stabile la penetrazione in Africa fu la proclamazione dell'Atto Generale di Berlino durante la Conferenza di Berlino, detta anche Conferenza dell'Africa Occidentale o Conferenza sul Congo, tenutasi tra il 1884 e il 1885 per volere del Cancelliere tedesco Otto von Bismarck. Nell'Atto vennero redatte le condizioni necessarie per le nuove occupazioni lungo le coste che dovevano essere sempre comunicate a tutte le potenze firmatarie. In particolare, le potenze firmatarie riconoscevano l'obbligo di annessione nei territori occupati la presenza di un'autorità sufficiente a far rispettare i diritti acquisiti. Tutto ciò fu indispensabile per regolamentare la precedente spartizione del continente africano44.

Alla Conferenza di Berlino tuttavia a nessuna Potenza fu consentito di realizzare pienamente le loro tendenze espansionistiche progettate nel corso degli anni; la Gran Bretagna non poté realizzare l’asse dal Cairo a Città del Capo, come la Francia non riuscì a congiungere i territori dell’Africa del Nord con quelli dell’Africa occidentale e dell’Africa equatoriale; il Portogallo non poté creare l’asse dall’Angola al Mozambico e le speranze dello Stato del Congo di estendersi sino alla valle del Nilo vennero deluse45.

L’aspetto giuridico della spartizione dell’Africa si effettuò attraverso la progressiva costituzione, o modifica, negli ultimi decenni del XX secolo di «sfere d’influenza», i cui limiti non possono giuridicamente considerarsi «confini» nello stesso senso in cui il termine è usato in riferimento ad un territorio sul quale si esercita una sovranità effettiva46. La prospettiva dominante rimase sempre quella dei contrasti e delle

43 Letteralmente «zuffa per l’Africa». Le iniziative francesi, l’apertura del canale di Suez (1869), l’attività di numerosi esploratori che penetrarono nell’interno sino allora sconosciuto dell’Africa, richiamarono su questo continente l’attenzione delle Potenze Europee che fra il 1880 e il 1885 avviarono la spartizione del continente.

44

A. D’Arrigo, L'Islam di Ahmadou Bamba: la Mouridiyya in Senegal, Tesi di laurea triennale, inedito, Anno Accademico 2015/2016, p. 1.

45 Per approfondimenti consultare A.M. Gentili, op. cit, pp 154-156. 46 S.Bono, op. cit. p. 30.

(22)

20

trattative politico-diplomatiche fra le Potenze europee ma è opportuno non dimenticare il ruolo attivo avuto dai capi africani all’interno di questo contesto. Spesso, in un’ottica miope, distorta e completamente occidentalocentrica, oggi si tende a condannare solo l’operato delle Potenze colonizzatrici, le quali senza l’appoggio dei capi locali non avrebbero saputo inserirsi completamente nel tessuto sociale, politico ed economico dei territori conquistati47.

Nel determinare il tracciato, prima dei limiti delle zone d’influenza, poi di più precisi confini fra i possedimenti dell’una e dell’altra Potenza, ebbero un’importante influenza l’assoluta carenza di dati sulla realtà geografica ed etnica delle zone delle quali si discuteva; l’irrazionalità e l’arbitrarietà rispetto alla realtà etnica e geografica furono dunque gli elementi che caratterizzarono i confini africani48. Elemento molto importante da tenere in considerazione alla luce di quanto stabilito dall’Atto Finale di Helsinki nel 1975, il quale farà della sovranità, dell’inviolabilità e dell’integrità delle frontiere i suoi punti focali49. Verrebbe da chiedersi se ad oggi i confini in Africa sono ancora faccende di Stati terzi o davvero sono completamente sotto il controllo degli Stati sovrani indipendenti. Questione che verrà ripresa e approfondita nel secondo capitolo.

I diplomatici europei si resero conto dell’insufficienza delle conoscenze concernenti i confini nel momento in cui si trovarono a redigere convenzioni tra le diverse Potenze; un esempio fu quello della convenzione anglo-francese del 1882 che riguardava il confine tra gli insediamenti britannici della Sierra Leone e quelli francesi della Guinea50.

Ad aggravare la possibilità di commettere altri errori nella stipulazione delle trattative si aggiunse la scarsa conoscenza della terminologia geografica come successe nella delimitazione del confine fra la Liberia e la Costa d’Avorio, mediante l’accordo

47 A questo proposito J.D. Hargreaves, nel suo saggio Towards a history of the partition of Africa, affermava: «The missing element in the story, which only recently has begun to reapear, is the role of African states, their rulers and people», Cambridge University Press, Cambridge, 1960, p. 109.

48 Infatti J. Brunhes- C. Vallaux, La géographie de l’histoire, F.Alcan, Paris, 1921, p. 347 riportano «Les terres partagées sont réellement, à l’époque de leur partage, des terrae incognitae ».

49 Testo dell’Atto Finale https://www.osce.org/it/mc/39504.Ultima consultazione novembre 2018. 50 Testo completo della convenzione a cura di E.Hertslet, The Map of Africa by Treaty, terza edizione, Harrison and sons, London, 1909, doc. n. 24, Vol. II, pp. 723-725.

(23)

21

del 188251. Oltre alla carenza di informazioni si aggiunse una completa insensibilità da parte dei diplomatici europei verso le condizioni e gli interessi delle popolazioni locali, elemento che tutt’oggi caratterizza i rapporti di forza e le relazioni diplomatiche tra gli Stati africani e quelli occidentali. A questo proposito è opportuno ricordare l’episodio che si verificò durante i negoziati per la delimitazione delle sfere d’influenza britannica e tedesca nell’Africa orientale, con il trattato del 1890; un missionario che aveva acquisito una conoscenza dettagliata della regione fra i laghi Nyassa e Tanganica fece sapere che «Runs right through the very heart of several tribes, and it would be absurd to allow one half of such a tribe, because situated south of the road, to be British, while compelling the other half to submit to the Germans, of whom the natives know positively nothing»52, ma nessun diplomatico tenne mai conto di queste indicazioni e la frontiera divise il territorio abitato da diversi gruppi tribali.

Alla luce di ciò la spartizione coloniale dell’Africa e i conseguenti confini creati possono essere letti come una sovrapposizione alla realtà geografica locale, in particolar modo ai suoi aspetti etnici che vennero completamente stravolti. L’autore K. M. Barbour analizzò la questione delle frontiere in rapporto alle divisioni tribali e individuò i principali gruppi etnici divisi sotto la sovranità delle Potenze europee; gli Azande, i Masai, i Fang, gli Hausa e i Bakongo tutti ripartiti tra diversi territori in modo completamente arbitrale53. Ma in questo contesto, come già precedentemente sottolineato, è importante ricordare il ruolo dei capi locali; il richiamo ai trattati delle Potenze europee con i capi africani valse affinché un dato territorio, sul quale vigeva l’autorità di un capo tribale, venisse attribuito alla sovranità di una Potenza. In questo modo si mantenne l’integrità di un determinato territorio coloniale. Un caso che ben rappresenta questa situazione lo possiamo riscontrare nella dichiarazione anglo-francese del 1890 relativa alla zona del Niger, secondo la quale la sfera d’influenza britannica

51 J.D Harrison Church, African Boundaries, in The Changing World (a cura di G. East-A. E. F. Moodie), Pall Mall Press,London, 1956, p.147.

52 K. M. Barbour, A Geographical Analysis of Boundaries in Inter-tropical Africa, in N. Barbour- R. M. Prothero, Essays on African Population, New York, 1962, p.314.

53 A conclusione della sua analisi l’autore riportò che «in the nineteenth century, when Africa was in process of being shared out between the Euroepan powers, very little was known about the ways of life of the inhabitants. The prospect, moreover, that they might one day be running their own affairs appeared so remote that even when there seemed to be a risk of dividing one section of a tribe from another, this was scarcely considered a matter of reckson in comparison with the delicate adjustments of European politics», Ivi, p. 322.

(24)

22

avrebbe dovuto includere «tutto il territorio appartenente al regno di Sokoto», con il quale la Royal Niger Company aveva stipulato un trattato54.

Alla vigilia del primo conflitto mondiale i governi delle diverse Potenze europee concordarono ulteriori intese per delimitare sia le frontiere ancora aperte fra le zone di espansione e i possedimenti rispettivi 55, sia a tracciare le linee di demarcazione definite negli accordi precedenti. La crisi di Agadir tra Francia e Germania, la questione del Congo, gli accordi firmati a Parigi il 28 settembre 1912 e l’instaurarsi del protettorato francese sul Marocco dimostrarono come l’Africa fosse il banchetto nuziale dove le Potenze europee si spartirono i territori come cibo56.

Alla determinazione definitiva di ciascun confine africano si giunse tramite tappe più o meno laboriose passando dai casi più semplici, nei quali si decorse dalla delimitazione sulla carta delle frontiere delle zone d’influenza alla demarcazione sul terreno, a casi più complessi nei quali la demarcazione avvenne tramite fasi successive e con molte modifiche. Un esempio fu il confine tra il Mozambico e il Nyasa, definito mediante gli accordi del 1891, che marcato sul terreno una decina di anni dopo, fu modificato alla vigilia della guerra e soltanto nel 1920, a conflitto mondiale ormai concluso, i governi britannico e portoghese approvarono le modifiche effettuate57. La durata per la delimitazione di questo confine fu di particolare rilievo anche per un’altra questione: il ricorso a ben due arbitrati internazionali per dirimere le controversie tra questi due Stati. L’arbitrato fu uno strumento giuridico utilizzato molto spesso dalle Potenze europee in quanto i trattati non bastarono a trovare un comune accordo tra le parti58.

Diversamente da quanto ci si aspetterebbe, nei trattati riferiti alla delimitazione dei possedimenti e alla stesura delle linee di demarcazione si trovavano clausole che garantivano e tutelavano, anche se non completamente, la popolazione nativa che ebbe la possibilità di spostarsi entro un certo periodo da una parte o l’altra del confine imposto dalla Potenze europee. Altre clausole furono aggiunte per tutelare le forme di vita tradizionale delle popolazioni insediate nelle zone di frontiera. Un esempio è il

54 E. Hertslet, op cit. doc. n. 229, vol. II, pp. 738-739.

55 Si veda l’accordo anglo-francese dell’8 aprile 1904, ivi, doc. n. 224, vol. II, pp. 796-797. 56

Per approfondimenti su questi avvenimenti con chiaro riferimento ai trattati stipulati si veda S. Bono, op. cit, pp. 41-45.

57 Société des Nations, Recueil des Traités, vol. IV, 1920, pp. 93-126.

(25)

23

confine fra l’Egitto e il Sudan anglo-egiziano, che fu attuato tenendo conto degli accorgimenti necessari per evitare il danno delle popolazioni africane. Venne istituito un confine amministrativo a garanzia delle tribù beduine del Bisharin in modo tale che si trovassero tutte sotto l’amministrazione del Sudan, mentre le tribù degli Ababda vennero poste sotto il controllo egiziano. La cosa di particolare rilievo fu che questo confine venne ereditato dall’atto d’indipendenza del Sudan nel 1956 che l’Egitto metterà nuovamente in discussione59.

Le conseguenze di decisioni prese più di un secolo fa hanno ripercussioni tutt’oggi e spesso le risposte ai tanti perché che ci poniamo sull’Africa inerenti alle guerriglie, a Stati autoritari, a non-Stati, all’immigrazione, all’incapacità di questi popoli di fare la tanto rinomata Rivoluzione Francese, specchio della società occidentale, è qualcosa che ha radici profonde e purtroppo, nelle maggior parte dei casi, ignorate dai decisori politici.

3. “Limes Rivista Italiana di Geopolitica”, «L’Africa a colori», N. 6, 2006.

59 A. S. Reyner, Sudan-United Arab Republic (Egypt) Boundary a factual Background, in «The Middle East Journal», XVII, 1963 summer, p.315.

(26)

24

In seguito al primo conflitto mondiale furono apportate modifiche alle colonie che appartenevano alla Germania. La spartizione da parte degli Alleati diede origine ad una serie di trattive ed accordi per la demarcazione di nuovi confini. La spartizione venne fatta tenendo come riferimento la Convenzione della Società delle Nazioni, organo istituito nel 1919 che disciplinava la suddivisione delle colonie tramite il sistema dei mandati60.

In Togo la popolazione Dagomba, divisa a metà dagli accordi anglo-tedeschi nel 1904, fu completamente inglobata dall’amministrazione britannica, invece la popolazione Ewe fu spartita tra gli inglesi e i francesi. Stessa sorte toccò al Camerun che fu diviso inizialmente in due zone provvisorie di occupazione da parte degli anglo-francesi le quali successivamente divennero definitive. La linea di confine venne spostata a favore dei britannici nella zona nord. L’Africa Orientale Tedesca, invece, venne suddivisa tra la Gran Bretagna alle quale spettò il Tanganica e il Belgio al quale vennero assegnati il Ruanda-Urundi. Il Mozambico venne affidato al Portogallo senza non poche dispute con la Gran Bretagna riguardo ai confini lungo il corso del fiume Rovuma.

Furono non poche, quindi, le dispute e le successive sistemazioni riguardo ai confini delle ex colonie tedesche, come non furono da meno, dopo la Seconda Guerra Mondiale, quelle inerenti alle ex colonie italiane. Sulla carta tutto si risolse in un gioco di pesi e contrappesi per avvantaggiare l’una o l’altra Potenza ma nella realtà dei fatti i continui spostamenti di frontiera e aggiustamenti di confine si ripercossero, ancora una volta, sulle popolazioni locali. Alla geopolitica mancò anche in questo caso la conoscenza non solo del territorio ma soprattutto di chi lo abitava e lo viveva. Un errore che nelle relazioni internazionali si è perpetuato e tutt’oggi si continua a fare.

Una prova schiacciante della completa disattenzione alle popolazioni fu data dalla scarsa analisi al cambiamento dei confini africani che avevano la funzione di dividere l’una o l’altra colonia sottoposte alla sovranità d’una stessa Potenza europea; pur mantenendo ciascuna una propria personalità giuridica, vennero riunite in entità coloniali più ampie; i casi principali furono la Federazione dell’Africa Occidentale

60

Per un’analisi completa del funzionamento dei mandati suddivisi in tre tipologia: tipo A,B,C si rimanda a F. Tamburini, I mandati della Società delle Nazioni, in “Africana Rivista di Studi Extraeuropei”, N. XV, 2009, pp. 99–122; A. Vallini, I Mandati Internazionali Della Società Delle Nazioni, Ulrico Hoepli, Milano, 1923.

(27)

25

Francese (A.O.F.) e la Federazione dell’Africa Equatoriale Francese (A.E.F.)61

. I confini amministrativi, voluti dalla Francia per meglio amministrare le colonie all’interno delle federazioni, con l’inizio della decolonizzazione diventarono veri e propri confini statali, come ad esempio la regione dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso.

Il giurista francese Alain Pellet, durante i dibattiti all’Aja sul caso Burkina Faso-Mali, parlò dell’attività coloniale della Francia come di un «demiurgo cieco»62

, infatti tutta l’A.O.F., una volta definita secondo il diritto coloniale una colonia composta, fu smembrata e ricostruita muovendo come pedine confini, territori e popolazioni. Le frontiere non erano che divisioni amministrative interne decise dalla Francia e furono spesso tracciate, come più volte ricordato, con rapidità e poca precisione. Sia il Sudan, che l’allora Alto Volta, in quanto entità coloniali all’interno dell’A.O.F., subirono numerose modifiche.

4. Ian Brownlie, African Boundaries: A Legal and Diplomatic Encyclopaedia, pC Hurst & Co Publishers Ltd,1979, 427

Problemi sulla questione dei confini amministrativi, quindi non riconosciuti a livello internazionale, si presentarono anche nella regione maghrebina, in particolare le dispute di frontiera tra il Marocco e l’Algeria, la quale godeva di un rapporto

61

Per un’analisi dei trattati e dell’evoluzione di queste federazioni si veda S. Bono, op.cit, pp135-150. 62 Plaidoiries relatives au fond. Procès-Verbaux des audiences publiques tennues au Palais de la Paix à la Haye, du 16 au 26 juin et le 22 décembre 1986 sous la présidence de M. Bedjaoui, Président de la Chambre, p. 78. http://www.icj-cii.org/docket/files/69/16549.pdf. Ultima consultazione novembre 2018.

(28)

26

privilegiato con la Francia (non a caso era l’unico territorio metropolitano francese) e la controversia tra l’Algeria e la Tunisia.

Nel continente nero si potrebbero citare molti altri esempi di confini amministrativi poi modificati e divenuti successivamente frontiere, spesso di contrasto, tra gli Stati indipendenti come quello tra il Malawi e lo Zambia e quello fra quest’ultimo e la Rhodesia63. Stessa dinamica successe con i confini dell’Uganda con il Kenya e con il Sudan. La demarcazione definitiva dei confini tardò così tanto ad arrivare che si impose de facto quella provvisoria-amministrativa.

Il carattere arbitrario di queste composizioni e tagli amministrativi, associati ad una forte componente nomade delle popolazioni, avrebbero alimentato nel futuro dissidi e incomprensioni soprattutto, come vedremo nel terzo paragrafo, al momento delle indipendenze.

Analizzando queste dinamiche, il modello secondo il quale gli africani erano usi vivere (e aggiungerei in larga parte secondo alcuni ancora vivrebbero) in entità tribali dai confini ben definiti ed etnicamente omogenee, è un’idea completamente errata. Ma è proprio quest’idea, radicata così profondamente nel tessuto mnemonico intergenerazionale, che rende oggi la geopolitica in primis e di conseguenza l’essere umano nella sua quotidianità, non in grado di leggere e interpretare le dinamiche migratorie dal continente nero. È errata, soprattutto per l’Africa, la nozione che i gruppi etnici fossero, a partire dall’epoca precoloniale, gruppi culturalmente omogenei. I confini etnici, quando esistano e sia possibile individuarli, sono sempre il risultato di interazione e sono, per loro natura, mutevoli. Alla loro trasformazione s’intrecciano dinamiche politiche, geografiche e scelte individuali. Le tradizioni e le identità etniche, dunque, furono continuamente manipolate da chi deteneva il potere, da chi lo subiva, da chi lo voleva ottenere64.

Nel XIX secolo, quando le Potenze europee, come abbiamo visto, si impadronirono del continente, non esistevano in Africa confini razziali, culturali, linguistici e d’organizzazione politica che coincidessero per potersi autoescludere. La natura dei raggruppamenti sociali e politici era fluida65; la dimensione della società era

63

Sulla storia della Rhodesia, The Geographer, Northern Rhodesia-Southern Rhodesia Boundary, International Boundary Study, n. 30, Washington, 2 marzo 1964.

64 A. M. Gentili, op. cit, p. 16.

(29)

27

diversa così come le forme di organizzazione. Le tribù come entità culturali e politiche e omogenee non esistevano, né esistevano etnie fisse nel tempo. Esistevano, come sopra riportato, Stati premoderni, a diversi livelli di centralizzazione di potere e autorità, ma niente che riportasse al concetto di Stato weberiano.

La classificazione etnica che usiamo oggi non è altro che un prodotto delle classificazioni linguistiche e delle divisioni amministrative coloniali. L’identità africana esiste, ma non si vede, non si percepisce perché oscurata da una visione completamente occidentalocentrica del mondo. Nomi antichi rimasero ma spesso indicano società diverse dalle originarie, altri nomi sono stati trascritti dagli esploratori e dai colonizzatori in modo impreciso perché non ne conoscevano il significato. Il concetto stesso di tribalismo, del quale è stato parlato precedentemente, è un prodotto dell’Occidente; non vi è riferimento all’utilizzo di questo idioma per indicare le società precoloniali africane. La tribù veniva vista dal mondo occidentale come qualcosa di lontano, da domare, da controllare perché portatrice di canoni completamente diversi di vedere e vivere il mondo.

All’indomani dell’inizio della decolonizzazione cosa successe ai confini e alle frontiere africane?

Riferimenti

Documenti correlati

• Interessi turchi, ma anche curdi, siriani, russi, europei, etc. • Ingresso della Turchia

• Ad oggi ci sono circa 3 milioni di migranti presenti in Turchia, provenienti principalmente dalla Siria?. •

- Il controllo simbolico trasforma lo spazio in un prodotto culturale - Il processo di denominazione avviene tramite la carta. Qual è il più imponente processo di

26 E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su

• Nella guerra odierna il «partigiano», che un tempo era un irregolare, ha assunto una piena centralità, in un duplice senso nell’ambito di un conflitto:. • Per l’appoggio

• In politica estera, a cosa può corrispondere lo stato

No, era più una guerra interna a uno stesso mondo, una stessa unità sociale. - Il Papa disponeva della auctoritas - L’Imperatore

• La comunità di sangue si sviluppa nella comunità di luogo, che ha la sua espressione immediata nella coabitazione; e questa, a sua volta, nella comunità di spirito, come