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Negli anni ’80, con la Politica Agricola Comunitaria e lo sviluppo della tecnologia agri- cola, l’intensificazione delle pratiche agricole, la sovrapproduzione e la concentrazione di aziende agrarie specializzate in un settore unico ha portato alla riduzione delle aree umide, alla trasformazione dei prati e dei pascoli, all’incremento di degradazione degli habitat.

Il conflitto tra produzione agricola, biodiversità e ambiente antropico ha portato ad un ripensamento delle politiche agricole, ad una presa di coscienza ambientale in Europa, che ha determinato misure nuove per cercare di ovviare alle problematiche ambienta- li. Il risultato è stato quello di apportare nuove misure nelle politiche per controllare il surplus di produzione e compensare le aziende per la perdita iniziale dovuta all’adozione di forme di gestione agricola sensibili all’ambiente.

Le riforme attuate mediante vari regolamenti nel 1992 hanno riconosciuto il ruolo am- bientale degli agroecosistemi e nel 1998 l’Agenda 2000 ha introdotto il concetto dell’agroecosistema come sistema non solo produttivo, ma promotore di biodiversità ambientale e culturale.

Attualmente, le maggiori pressioni sulla biodiversità degli agroecosistemi riguardano i negoziati internazionali per il commercio, la produzione di biomasse per l’energia e le regolamentazioni sull’utilizzo degli organismi geneticamente modificati (OGM). In- fluenze indirette sono causate inoltre dall’incremento delle norme sulla conservazione della natura.

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2.9.

Lo scenario Italiano

Gli agroecosistemi sono un sistema dinamico in continua evoluzione.

La superficie agricola totale utilizzata (SAU), secondo le stime raccolte dai censimenti dell’agricoltura (1990/2000), è diminuita sensibilmente, passando dai 15 ai 13 milioni di ettari, la maggior parte dei quali è stata abbandonata o sfruttata dall’edilizia.

Il rimboschimento ha interessato soltanto il 9 % dei territori sottratti all’agricoltura e la trasformazione in prati e pascoli permanenti il 6% (ISTAT, 2000). Buona parte della SAU, rimasta e gestita in regime convenzionale, ha assunto una forma intensiva, ampli- ficando l’utilizzo di fertilizzazioni e la difesa fitosanitaria per unità di superficie27. Con il regolamento CEE 2078/92 hanno assunto rilevanza la gestione biologica e inte- grata, che hanno avuto un trend di crescita considerevole sia per quanto concerne le superfici convertite che per il numero di operatori.

In Italia gli operatori nel settore dell’agricoltura biologica sono cresciuti dalle 1.500 unità del 1990 a 51.065 unità del 2006, con una superficie impegnata di 13.000 ha nel 1990 e 1.148.162 ha nel 2006. (MiPAAF, 2007). In Europa l’area destinata all’agricoltura biologica nel 2002 superava l’8% (Mäder et al., 2002) in accordo con il trend di crescita stimato per l’Italia.

2.10

. Uno sguardo alla Calabria

Nel secolo scorso le aree interne della Calabria erano interessate da una forte pressio- ne antropica con intenso sfruttamento del soprassuolo. Le destinazioni d’uso preva- lenti erano rappresentate dai seminativi (segale) anche in aree molto vulnerabili dal punto di vista del dissesto idrogeologico, a causa delle condizioni geo-morfologiche. Nella Sila Greca e nella Sibaritide, l’olivicoltura tradizionale caratterizzava essenzial- mente due sistemi agricoli territoriali, comuni anche ad altre aree olivicole dell’Italia Meridionale: i sistemi agricoli estensivi del latifondo ed i sistemi agricoli appoderati.

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Nel primo caso, l’olivicoltura si intercalava in orientamenti produttivi promiscui olivico- li-cerealicoli-zootecnici; nel secondo, veniva consociata ad una miriade di altre coltiva- zioni (frutticoltura, viticoltura, orticoltura, cerealicoltura), che assicuravano il sosten- tamento delle famiglie contadine.

I processi di erosione dei suoli e, in molti casi, l’affioramento del substrato litologico, costituivano elementi ricorrenti del paesaggio.

Nella seconda metà del secolo scorso, furono ripristinati 150.000 ettari di bosco nelle aree a rischio. Le conseguenze positive in termini di tutela ambientale e regimazione delle acque superficiali si manifestarono con una netta diminuzione degli eventi cala- mitosi già dalla fine degli anni ’60 .

Contestualmente iniziava un processo di ricostituzione degli orizzonti fertili dei suoli con progressivo incremento dei contenuti in sostanza organica.

Sistemi di coltivazioni tradizionali nella Piana di Sibari, 2010

Un recente studio condotto dall’ARSSA, ha evidenziato considerevoli incrementi di carbonio organico nei suoli rinaturalizzati, pari a 110 t/ha. In termini di biossido di carbonio, tale dato, rapportato alle superfici rimboschite a livello regionale, equivale a circa 52 milioni di t di C02, una media annua di capacità di “sequestro” di CO2, consi- derando circa quarant’anni dall’impianto, pari a 1,3 Mt.

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A questo dato andrebbe aggiunta la C02 accumulata dalla massa epigea (Aramini et Alii, 2007). Per meglio comprendere l’entità di tale risultato basti pensare che l’obiettivo, previsto dal Protocollo di Kyoto, di riduzione delle emissioni di carbonio or- ganico del 6,5% rispetto alle emissioni del 1990, a livello nazionale equivale a circa 20 Mt.

Gran parte dei 170.000 ettari destinati ad uliveto in Calabria ricadono in territori colli- nari ad elevato rischio erosivo. Storicamente, tali aree erano coltivate in maniera estensiva, spesso percorse da pascoli e con lavorazioni localizzate intorno al colletto. La gestione del suolo, per ciò che concerne l’oliveto, è basata su almeno due erpicatu- re, con strumenti discissori, in post-raccolta per arieggiare il terreno e consentire un miglior accumulo dell’acqua; nel periodo primaverile, basterà un erpice a dischi per evitare il costipamento e per interrare eventuali compost o letami.

In zone più scoscese, quindi a maggior rischio di erosione, la gestione del suolo preve- de l’inerbimento e la trinciatura periodica del cotico, rinviando alla fine della stagione piovosa l’unica lavorazione finalizzata all’interramento dei nutrienti (sovescio, letama- zioni, compost, ecc.).

La tecnica dell'inerbimento presenta indubbi vantaggi nella riduzione dei costi operati- vi, e nel miglioramento della struttura e della fertilità del suolo.

Una gestione di questo tipo, oltre a limitare i fenomeni di dissesto, consentiva di pre- servare la fertilità dei suoli con valori di sostanza organica in equilibrio con il contesto ambientale.

Dagli anni ’70, la disponibilità crescente di mezzi meccanici, ha favorito modelli gestio- nali basati su lavorazioni superficiali non più localizzate, ma estese a tutta la superficie e ripetute più volte durante l’anno.

Ciò ha provocato, da una parte, intensi processi erosivi, con perdita degli strati più fer- tili dei suoli e, dall’altra, ha accelerato la mineralizzazione della sostanza organica co- me conseguenza alla maggiore ossigenazione temporanea dei suoli lavorati.

Può essere stimata mediamente una perdita di sostanza organica dei suoli dell’1% in pochi decenni. I suoli olivetati calabresi ricadono in aree con contenuti in sostanza or- ganica che variano da 0,7 a 1,5 % (ARSSA, 2005).

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Analoga situazione si è verificata nei comprensori destinati a seminativi ed in modo particolare nei rilievi collinari del versante ionico. Tali aree, destinate in prevalenza alla coltivazione di grano duro in monosuccessione, fino agli anni ’60 erano destinate a pa- scolo o ad arbusteto.

La superficie a pascolo che nel 1960 era pari a 350.000 ettari, attualmente non supera i 150.000 ha.

La trasformazione da pascolo a seminativo ha innescato forti processi di degrado dei suoli. Il frumento, infatti, lascia scoperti i suoli collinari proprio nel periodo dell’anno in cui si verificano le massime precipitazioni, con conseguente innesco di consistenti pro- cessi erosivi. La carta del rischio di erosione della Calabria (ARSSA, 2006) evidenzia per questi comprensori livelli di erosione media pari a 20 mc/ha/anno.

Nel giro di pochi decenni, l’assottigliamento dei suoli a causa dell’erosione ha portato a forti perdite di capacità produttiva e, in molti casi, si sono determinate situazioni estreme di completa asportazione degli orizzonti fertili ed affioramento del substrato geologico.

Uno studio condotto sui rilievi collinari argillosi del catanzarese, ha dimostrato come, in un arco temporale relativamente breve, il potenziale produttivo del grano duro sia passato da 20 ql/ha/anno a 11 ql/ha/anno (Valboa et alii, 2003).

La perdita irreversibile di capacità produttiva dei suoli consente di identificare queste aree come “desertificate” o in via di progressiva “desertificazione”.

Lo sviluppo di agricoltura biologica ed il ripristino o la coltivazione di nuovi impianti di colture arboree nelle zone collinari, potrebbero favorire la fertilità dei suoli, il contra- sto del dissesto idrogeologico e, di conseguenza, la cattura di CO2 con le pratiche di inerbimento

Circa il 90% dell’olivicoltura calabrese è situata su terreni di collina o di montagna sog- getti a forti processi erosivi. Si tratta di un sistema di coltivazione basato sul concetto che la fertilità fisico-chimica dei suoli sia il presupposto per un’agricoltura sana e so- stenibile dal punto di vista ambientale.

Sia nel primo che nel secondo caso il flusso positivo di carbonio sequestrato sotto for- ma di sostanza organica, risulta rilevante. Il contenuto medio in carbonio organico nei suoli olivetati calabresi, ad eccezione di situazioni pedologiche zonali, non supera lo

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0.7%, mentre in condizioni gestionali di equilibrio lo stesso contenuto può stimarsi fra 1.5 ed il 2.5%. Il potenziale recupero può quantificarsi, considerando un orizzonte di riferimento di 30 cm, fra 40 e 80 t/ha di carbonio organico.

È evidente che un obiettivo del genere richiede tempi di medio-lungo periodo, e, ra- gionevolmente, di qualche decennio. Un dato di particolare interesse, rapportato ai 45.000 ha di oliveto condotti in biologico o che hanno aderito all’”azione inerbimen- to”, può significare un valore compreso tra 6,5 e 12,9 Mt di CO2, con valori annui di sequestro di CO2 quantificabile in circa 0,4 Mt.

Dati sperimentali, acquisiti in ambiente collinare calabrese su suoli olivetati e inerbiti, hanno evidenziato un incremento di circa lo 0,1% per anno di sostanza organica (To- scano, 2008).

Il sistema olivicolo calabrese, oltre a continuare a svolgere fondamentali funzioni utili all’espressione paesaggistica e produttiva, può contribuire in maniera significativa alla mitigazione dei cambiamenti climatici.