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L’alba a Mezzogiorno »

All’indomani della Seconda Guerra Mondiale si riapriva nell’Italia da ricostruire quell’annoso problema che la rigidità del ventennio dittatoriale, unitamente alla preminenza del conflitto bellico avevano contribuito solamente a celare sotto una coltre di positiva parvenza: la «questione meridionale»250. L’allarme lanciato con

particolare veemenza tra le seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento da un gruppo di intellettuali, in primis Pasquale Villari251 e Gaetano Salvemini252,

lamentava la scarsa attenzione conferita dalle istituzioni dello Stato unitario nei confronti dei territori del Mezzogiorno. Il pericolo principale di questa ottica tendente a premiare lo sviluppo dell’area settentrionale sarebbe stato quello di alimentare una discrasia all’interno della nazione, capace di creare due eco-sistemi sociali ed economici distinti e, talvolta, in contrasto tra loro. Non si ha in questo contesto l’intenzione di indagare approfonditamente lo sviluppo delle ipotesi suffragate dai meridionalisti, è però importante ribadire quanto la loro capacità di visione prospettica, anche alla luce dell’odierna complessità dei rapporti socio-economici del sistema Italia, rimase troppo audacemente inascoltata.

Il problema della ricostruzione interna veniva poi esacerbato ulteriormente dalla forte diatriba politica legata alla dimensione internazionale, che vedeva

250 Sin dai decenni finali dell’Ottocento l’Italia si è dovuta confrontate con la problematica relativa al

divario economico e anche, per taluni aspetti, sociale tra il Nord e il Sud del paese. La questione meridionale lamenta ancora oggi una piena risoluzione, palesando ancora lacune che invitano ad una profonda riflessione nell’ottica delle evoluzioni future. Per approfondimenti sul tema si veda PIERO

BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia meridionale. Dall’Ottocento ad oggi, Donzelli editore, Roma, 1997.

251 Pasquale Villari (1827-1917) fu docente di storia presso le Università di Pisa e di Firenze, e ricoprì

l’incarico di deputato e di senatore del regno d’Italia. La sua attività si concentrò negli studi sulla questione meridionale che lo portarono ad essere il primo accademico a fornire un contributo storiografico sulla materia. La sua opera più rilevante rimane indubbiamente Lettere meridionali. Il testo, rappresenta una raccolta di corrispondenze giornalistiche inviate nel marzo del 1875 da Pasquale Villari a Giacomo Dina, direttore del giornale moderato «L’opinione». La pubblicazione è considerata il “manifesto” del movimento meridionalista. Per la prima volta furono denunciate, le cause sociali della camorra, della mafia e del brigantaggio, la condizioni di estrema miseria e di abbrutimento delle masse contadine meridionali, la corruzione e l’inadeguatezza della classe politica locale.

252 Gaetano Salvemini (1863-1957) fu docente di storia moderna presso le università di Messina, Pisa

e Firenze. Aderì al Partito Socialista Italiano all’interno del quale si pose a capo della corrente dei “meridionalisti” divenendo deputato nel 1919. Il suo pensiero votato alla diffusione del suffragio universale e dell’istruzione pubblica era caratterizzato anche da una forte propensione alla devoluzione amministrativa. Secondo Salvemini, questi tre elementi combinati tra loro erano gli unici in grado di elevare il Mezzogiorno d’Italia dalla sua condizione di arretratezza.

protagoniste le forze di sinistra e la Democrazia Cristiana. La Guerra Fredda253 stava

assumendo i contorni di una vera e propria terza guerra mondiale che alla lotta militare sostituiva la supremazia geopolitica globale. La suddivisione del mondo in due macro aree di riferimento provocò anche in Italia conseguenze immediate. A partire dal maggio del 1947, infatti il Partito Comunista Italiano fu estromesso dal governo del paese, a guida DC, in seguito ad un preciso accordo internazionale,

ratificato con gli Stati Uniti d’America. L’European Recovery Program254,

fondamentale per la sanificazione di un paese prossimo al collasso, fu accordato agli italiani al prezzo del “confino politico” dei comunisti. Altro elemento, quest’ultimo, che avrebbe caratterizzato, negli anni seguenti, lo sviluppo dei rapporti sociali ed economici interni alla Repubblica.

Nonostante un quadro estremamente condizionante, il Movimento Comunità si accorse delle difficoltà del Sud, con estremo ritardo, solamente con l’avvento degli anni Cinquanta. Il lungo percorso intrapreso dai comunitari nell’affrontare la tematica relativa al Mezzogiorno trovò il suo compimento tra il 1954 ed il 1955 grazie al determinante contributo di Riccardo Musatti e Franco Morandi. A quest’ultimo si deve l’idea alla base dell’organizzazione da parte del MC di un importante convegno, svoltosi a Roma il 27 marzo del 1954255, dal titolo Abolire la miseria. Il convegno

promosso dal Centro culturale comunitario di Porta Pinciana, riutilizzava il titolo di un’opera di Ernesto Rossi, il federalista-comunitario co-autore del Manifesto di Ventotene, e aveva l’obiettivo di divulgare un messaggio innovativo alla base della società. Un nuovo modello di sviluppo, basato sulle competenze, sul contributo degli intellettuali e sull’utilizzo delle tecniche moderne, nelle diverse discipline, avrebbe potuto spazzare via ogni tipologia di miseria e sarebbe stato in grado di eliminare i gap esistenti tra i differenti eco-sistemi socio-economici italiani. Per consentire l’implementazione di questo nuovo modello, Abolire la miseria prefigurava la necessaria condizione di incontro tra dottrina laica e dottrina cattolica, che si sarebbe sostanziata nell’unione di socialisti e cristiani. Tale accordo avrebbe rappresentato, negli intenti del convegno e dei suoi proponenti, il punto di discontinuità tra una visione politica obsoleta ed una invece innovativa, spinta verso lo sviluppo del paese, in particolare delle aree più a rischio del Mezzogiorno. La preponderanza delle riforme e la tecnica della politica venivano confermati da MC come parti sostanziali di un necessario rinnovamento del sistema, un fine che avrebbe giustificato anche un accordo con le forze democristiane. Tale considerazione anticipava alcuni accadimenti che si sarebbero verificati nel 1958, e di cui verrà affrontata la trattazione nel capitolo conclusivo. Il patto però non sarebbe stato eterno, aveva anzi dei termini ben precisi, quelli di una legislatura piena. «5 anni insieme»256 recitavano gli slogan presenti all’interno del Piccolo Teatro, sede individuata per lo svolgimento del convegno,

253 Il termine Guerra Fredda, seppure coniato sin dal 1945 da George Orwell, viene abbinato al

pronunciamento del giornalista statunitense Walter Lippmann che, in un suo intervento, il 16 aprile del 1947, utilizzò per la prima volta la definizione per indicare la contrapposizione tra le due Superpotenze.

254 L’European Recovery Program, meglio conosciuto come “Piano Marshall”, dal nome del

segretario di Stato USA George Marshall, fu varato nel giugno del 1947. Esso prevedeva un ingente piano di aiuti finanziari per il sostegno nell’azione di ricostruzione di tutti i paesi europei. Si stima che in quattro anni di azione il piano rifornì il Vecchio Continente con circa 14 miliardi di dollari.

255 Cfr. U.SERAFINI, Adriano Olivetti e il Movimento Comunità, cit., p. 477. 256 Ivi, p. 78.

proprio a voler ribadire la necessità di un accordo di legislatura al termine del quale si sarebbe dovute trarre le stime dell’operato svolto.

Il Convegno ha intenzione di legare stabilmente intorno a sé e ai suoi risultati quella leva di esperti (medici, urbanisti, assistenti sociali, insegnanti, sociologi, economisti, sindacalisti, ecc.), politici e giovani qualificati e direttamente interessati che avrà trovato partecipi delle stesse preoccupazioni, creando nuclei di riformisti in ogni parte d’Italia. Questi nuclei costituiranno i centri periferici, che contribuiranno anzitutto a diffondere i dati di partenza del problema, che ridaranno spirito di iniziativa autonoma e volontà di elevamento materiale e morale alle comunità ove l’estrema miseria ha tolto lo stesso desiderio della libertà; che dovranno essere tanto più attivi dove si tratti di aree depresse, da riportare cioè al comune livello della nazione; che contribuiranno dunque a ridare, a tutti, due soldi di speranza in questa società e nel regime democratico che la governa; che forniranno energie sempre nuove e giovani, idee ed uomini, ma una lotta unitaria contro tutti gli aspetti della miseria, a un fronte nazionale per le riforme. […]257

Il convegno, pur producendo al suo termine la formalizzazione di una lega permanente contro la miseria, non contribuì a concretizzare tutti i propositi auspicati.

Abolire la miseria ebbe però il grande merito di definire la strada verso la definitiva

apertura comunitaria nei confronti del drammatico problema della povertà che, giocoforza, era maggiormente diffusa del Meridione.

L’assunzione dell’emergenza Sud quale responsabilità politica principale per MC avvenne mediante l’opera intellettuale e materiale del suo meridionalista di punta, Riccardo Musatti. Musatti si era formato durante gli anni del fascismo presso la facoltà di lettere dell’Università di Roma. Fu proprio durante quel particolare periodo che maturò la sua propensione alla tematica sociale ed al confronto con l’apparato politico. Nel 1944 divenne militante del Partito d’Azione e capo-redattore del quotidiano «Italia libera». Sul finire del 1949 Musatti ed Olivetti incrociarono il loro cammino, intersecatosi per il reciproco interesse in materia di urbanistica e federalismo. Il loro rapporto si sarebbe poi consolidato sia sul piano politico, in quanto Musatti avrebbe aderito al Movimento Comunità divenendone un quadro dirigente, e sia dal punto di vista professionale, in quanto Adriano lo avrebbe chiamato a lavorare presso la sua azienda ad Ivrea, nel settore della pianificazione strategica territoriale.

Riccardo Musatti, all’interno di MC, divenne esponente della corrente dei tecnicisti-federalisti e si ritagliò il ruolo di responsabile della politica per il Mezzogiorno del Movimento. Il suo pensiero e le linee di indirizzo, a cui MC si sarebbe rifatto lungo il corso degli anni di attività, sono racchiuse all’interno del prezioso

pamphlet intitolato La via del Sud, pubblicato in una prima edizione nella primavera del

1955 e ripubblicato, con una postilla aggiornata, nel 1958. Il testo di Musatti rappresenta, ancora oggi, una delle principali opere in grado di analizzare in maniera lucida le differenti problematiche che vertevano sulle spalle della popolazione del meridione d’Italia. Caratteristica peculiare è data dal fatto che questo studio fu dato alle stampe non grazie alla possibilità di un’analisi diacronica effettuata a posteriori, bensì esso fu prodotto proprio durante gli anni in cui la faglia tra i due tronconi del

257 Estratto dal testo di informativa del convegno Abolire la miseria, prodotto da Umberto Serafini per

paese si dilatava e, l’emorragia di risorse umane creata dall’emigrazione forzata, deprivava il futuro di intere generazioni e di numerosi villaggi. Seguendo il pensiero di Musatti lo squilibrio territoriale italiano non poteva essere limitato o verosimilmente annullato esclusivamente mediante un cospicuo investimento economico teso allo scuotimento del settore agricolo e, solo successivamente, del settore industriale. L’azione di riavvicinamento delle due porzioni d’Italia doveva essere necessariamente accompagnata, e possibilmente preceduta, da un intervento di riconnessione del tessuto sociale in grado di riconciliare le relazioni umane, le tradizioni culturali, territoriali e le principali vocazioni storicamente sedimentate. In sostanza, la tesi finale sostenuta in La via del Sud rappresentava una forte critica ai principali strumenti di intervento implementati dai governi democristiani con l’intento di arginare la «questione meridionale»: il processo di riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Questi ultimi venivano ritenuti progetti troppo generici e, soprattutto, gestiti in maniera esclusivamente verticistica, alimentando così un distacco dal variegato mosaico di territori dove insisteva l’emergenza.

I piani restano inoperanti o scendono dall’altro smisurati, ridicoli come ogni veste troppo ampia imposta a forza su un corpo di taglia affatto diversa. E, in conseguenza, è anche troppo facile passare dal ridicolo al tragico, come quando i responsabili esecutivi, per evitare scherni o censure, stiracchiano ferocemente sul letto di Procuste i corpicini di quanti risultano colpevoli d’esser troppo magri e minuti.258

Prima di sviluppare ulteriormente l’analisi del pensiero meridionalista di MC, contenuto in La via del Sud, è necessario contestualizzare, quantomeno i contorni, dei due sopracitati strumenti messi in campo dalla classe dirigente repubblicana a partire dagli anni Cinquanta.

Il 1949 fu scenario di forti tensioni nella zona meridionale dell’Italia. La crisi del dopoguerra, la profonda povertà ed il senso di smarrimento di alcune frange della popolazione portarono al riacutizzarsi della lotta nella campagne. In Sicilia e in Calabria gli scontri furono particolarmente intensi e l’intervento delle forze dell’ordine provocò l’uccisione di diversi civili259. In questo contesto il Parlamento italiano, su

spinta del governo guidato da Alcide De Gasperi, decise di assumere una serie di provvedimenti che avrebbero modificato sostanzialmente la vita e la gestione del settore agricolo nelle campagne meridionali. Il piano di riforma agraria varato nel 1950 verteva principalmente sull’eliminazione dell’oramai arcaica configurazione del latifondo. Il primo intervento normativo si palesò con la legge n. 230 del 12 maggio 1950, meglio conosciuta come «legge Sila» in quanto diede avvio allo scardinamento del latifondo all’interno del territorio della Calabria. A questa prima fase seguì, il 21 ottobre 1950, l’approvazione della legge n. 841, denominata «legge stralcio», che estendeva gli strumenti introdotti per l’altipiano calabro ed il litorale ionico, anche ai territori ricompresi nelle regioni Abruzzo, Molise, Basilicata, Sicilia, Sardegna e Puglia. Il nucleo centrale dell’apparato normativo prevedeva che i terreni di estensione superiore ai 300 ettari venissero scorporati in particelle di entità inferiore da distribuire

258 RICCARDO MUSATTI, La via del Sud, Donzelli editore per Fondazione con il Sud, Roma, 2013, p. 10. 259 Cfr. PAOLO PEZZINO, Riforma agraria e lotte contadine nel periodo della ricostruzione, in «Italia

alle masse contadine, con la garanzia statale di una corresponsione di un indennizzo ai grandi proprietari terrieri. In aggiunta venivano creati e rafforzati, anche nelle aree più remote, gli Enti di riforma agraria, elementi decisionali nell’assegnazione dei lotti di terreno e dell’assistenza finanziaria e tecnica agli agricoltori. Una simile metodologia normativa scalare, finiva per divenire molto rassomigliante ad un primo intervento statale in materia agraria, la “legislazione speciale” del 1904-1905 che, partendo dalla Basilicata si estese alle altre province meridionali del regno, escludendo la provincia di Molise260. Anche sul piano degli esiti di questi due processi normativi

vi furono delle similitudini in quanto, purtroppo, l’azione del governo non riuscì a debellare il problema di una crisi, forse più sociale che economica, che si sarebbe protratta ancora per diversi decenni. Indubbiamente la riforma agraria del ’50 avrebbe avuto il grande merito di abbattere le aristocrazie terriere che, in regime quasi monopolistico, assoggettavano la grandi masse contadine, favorendo così l’ascesa di una nuova classe dirigente. La principale deriva dell’intervento ipotizzato dal legislatore, fu però rappresentata dalla creazione di una fitta rete di clientele, alimentate dal potere degli Enti di riforma, che avrebbe favorito i successi elettorali della Democrazia Cristiana per interi decenni261.

L’ulteriore strumento normativo immaginato per risollevare le sorti del Sud fu la Cassa del Mezzogiorno. Con questa scelta veniva scardinata definitivamente la ritrosia italiana nei confronti dell’intervento statale in materia di politica economica. Istituito con la legge n° 646 del 10 agosto 1950 l’ente, che traeva impulso dall’operato di intellettuali del calibro di Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni e Rodolfo Morandi, aveva il compito di destinare risorse finanziarie, aggiuntive al bilancio statale ordinario, volte a stimolare la costruzione e lo sviluppo delle strutture economiche e sociali nelle regioni meridionali. La prima riunione del Consiglio di Amministrazione dell’ente si tenne il 4 ottobre 1950, nella sede provvisoria di via Umbria n. 2, a Roma. Vi presero parte oltre al Presidente della Cassa, Rocco Ferdinando, undici su dodici dei consiglieri (uno era assente) e il Ministro al coordinamento economico del VI gabinetto De Gasperi, Pietro Campilli262. In quell’occasione, dopo aver preso in rassegna i contenuti

della legge istitutiva si passò ad analizzare il piano decennale di interventi che avrebbe dovuto essere attivato immediatamente, dopo i primi mesi di assestamento organizzativo dell’organigramma dell’istituto. Il piano, il primo della Cassa, fu finanziato con un iniziale versamento da parte del governo di 25 miliardi di lire263, un

investimento di notevole rilievo soprattutto considerando che la cifra, oggi, ammonterebbe a circa 469 miliardi di Euro. Le aspettative nei confronti di questa nuova esperienza erano, a ragion veduta, notevoli e ciò era suffragato dalle migliori intenzioni dei componenti del CdA, che bene sapevano quanto fosse importante il ruolo da loro ricoperto. Rispondere al grido di dolore di una popolazione in difficoltà

260 Cfr. G.IGLIERI, Il Molise tra democratici e ministeriali nell’età giolittiana (1909-1914), in (a cura di)

MASSIMILIANO MARZILLO, MARCO SALUPPO, Pagine di storia del Novecento molisano, Volturnia edizioni,

Cerro a volturno, 2017, pp.?

261 Cfr. P.BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia meridionale, cit., pp. 93-94.

262 ACS, Fondo Cassa per opere Straordinarie di Pubblico Interesse nell’Italia meridionale e Agenzia

per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, Consiglio di Amministrazione Cassa per il Mezzogiorno, verbali e delibere 1950-1984, b. 1, vol.1.

263 Il CdA della Cassa per il Mezzogiorno deliberò, durante la prima seduta, che i 25 miliardi del

primo stanziamento venissero così suddivisi: 500 milioni in conto corrente, 2 miliardi in Buoni del Tesoro e la restante somma in Buoni del Tesoro Annuali. Ivi, deliberazione n°1 del 04/10/1950, p.5.

era l’obiettivo principe di quella grande struttura che, pur se immaginata per esaurire i suoi compiti in un decennio, avrebbe accompagnato la storia dell’Italia per trentaquattro anni.

Le travagliate popolazioni del meridione d’Italia hanno ormai la mente e le speranze ansiosamente fisse su questa istituzione: esse si attendono delle realizzazioni-miracolo e bisogna fare in modo che queste ansie non restino ancora una volta deluse, abbandonando rapidamente la fase programmatica per quella dell’azione, operando con fatti e non con parole.264

L’epilogo delle vicende relative alla Cassa del Mezzogiorno è cosa nota: uno stanziamento di risorse senza precedenti destinate alle infrastrutture e, solo a partire dal 1957 con notevole ritardo, anche alla creazione di economie industriali. Ciò avrebbe comportato un ulteriore accrescimento del divario tra le industrie del Nord, lanciate sin dal dopoguerra alla stregua dei principali competitor centro europei, e le fabbriche meridionali incapaci di reggere il passo e prive di adeguati sostegni. Se a questo si aggiunge la costante diminuzione dello stanziamento finanziario speciale che, lentamente, sino alla chiusura della Cassa nell’agosto 1984, si è andato a sostituire man mano alle risorse destinate dal bilancio ordinario dello Stato per al Sud, l’unico elemento positivo del lavoro dell’ente fu rappresentato dall’imponente opera di modernizzazione delle infrastrutture territoriali quali strade, acquedotti e linee elettriche.

Delineato il quadro dell’intervento statale nel Secondo dopoguerra per il tentativo di risoluzione della «questione meridionale», la rilettura dell’opera di Riccardo Musatti, mediante la quale veniva definito il meridionalismo comunitario, assume contorni ancor più interessanti. L’approccio sociologico delineato in La via del

Sud rappresentava «il più chiaro tentativo di distinguersi, mediante l’elaborazione di

una posizione autonoma, nella discussione aperta tra le varie tendenze

meridionaliste»265, e trovò in quegli anni un’ampia diffusione accompagnata da una

intensa polemica tri-partisan. La contrarietà dell’intero panorama partitico rispetto alle tesi poste da Musatti ed MC, derivava dal fatto che la procedura speciale idealizzata dallo Stato veniva minata alle sue fondamenta. I comunitari ritenevano infatti che l’erogazione di sovvenzioni a pioggia sul territorio, senza circostanziare economicamente e socialmente l’area di azione, avrebbe comportato, nel lungo periodo, una percentuale di successo inversamente proporzionale rispetto alla mole degli investimenti finanziari statali. Ciò perché, a dispetto di un’organizzazione burocratica mastodontica come quella rappresentata dalla Cassa per il Mezzogiorno, mancava, quasi totalmente, un controllo effettuato direttamente sul territorio rispetto all’efficienza e all’efficacia degli interventi programmati. Secondo i comunitari infatti, un ulteriore fattore che contribuiva ad alimentare la distorsione tra strumento normativo e capacità di incidenza e vicinanza alle popolazioni destinatarie degli interventi, era proprio da riscontrarsi nell’assenza di un centro amministrativo nevralgico locale capace di fungere da organismo di controllo della spesa pubblica e, soprattutto, da centro di raccordo con le fasce sociali delle regioni depresse.

264 Ibidem, estratto dal verbale della “Prima seduta del Consiglio di Amministrazione della Cassa

del Mezzogiorno, pp. 2-3.