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La difficile ricostruzione e l’Istituto di Studi Socialisti »

Nel 1960, ponendo agli occhi dei lettori l’analisi della situazione globale della nazione fatta in Città dell’uomo, Adriano Olivetti precisava come milioni di italiani stavano ancora attendendo un rinnovamento che era lungi dall’addivenire. L’Italia aveva vissuto i primi passi della difficile ricostruzione post seconda guerra mondiale. Quella ricostruzione doveva essere, prima ancora che materiale, una ricostruzione sociale, capace di restituire un nuovo futuro ad un paese dilaniato dall’ assopimento dei diritti e delle libertà della dittatura e dalla barbarie fratricida della guerra civile. Ciò però non si era ancora totalmente compiuto, il boom economico avrebbe sì conferito al Bel paese quella particolare credenza di poter assurgere a potenza mondiale, senza però badare al reale sentimento unitario della popolazione.

Il tentativo di produrre un parallelismo con il momento storico sociale attuale, ovviamente con i dovuti distinguo, richiede l’estrapolazione delle vicende che caratterizzarono il decennio che ha preceduto lo scritto di Città dell’uomo. In quel lasso temporale Adriano, resosi conto che il dettato de L’ordine Politico delle comunità rischiava fortemente di rimanere un’analisi teoretica a se stante, ritenne che le sue idee avessero bisogno di un veicolo che ne garantisse dapprima la propagazione e, successivamente una diretta attuazione. Il tramite mediante il quale quanto da lui ipotizzato durante l’esilio svizzero poteva diffondersi all’interno della ricostituenda società civile italiana, non poteva che essere l’attività politica.

Questo è il movente che portò Olivetti ad impegnarsi, nell’immediato secondo dopoguerra, nell’agone politico. Da questa scelta prese avvio la prima scintilla che, avrebbe portato, in pochi anni alla nascita del Movimento Comunità, il cui fine ultimo sarebbe stato proprio la completa realizzazione in Italia del progetto contenuto ne

profondo timore di una riacutizzazione dell’esperienza fascista ma, al contempo, sentiva l’enorme volontà di ritornare a lavorare presso la sua azienda e di contribuire alla rinascita italiana. Fu in quei lunghi mesi del 1945, in cui l’Europa sentiva la possibilità di liberarsi definitivamente dal dominio del terrore nazista, che maturò in Adriano la consapevolezza che, di lì innanzi, avrebbe dovuto farsi carico di ulteriori responsabilità che avrebbero riguardato la sfera politico-amministrativa locale e anche nazionale.

Uno dei primi veicoli mediante i quali intendeva realizzare questo impegno furono la Casa Editrice Edizioni di Comunità ed il periodico stampato in carta rosa la rivista «Comunità»60. Entrambi i progetti, seppure già ipotizzati negli anni antecedenti

la fine della II Guerra Mondiale, furono avviati definitivamente nel marzo 1946, data della prima uscita della rivista. La casa editrice, che aveva sede con sede a Milano in via Bigli n°11, aveva l’ambizione di divulgare testi, che riguardassero prevalentemente politica sociologia, economia e statistica, cari alla formazione dell’ideal-tipo comunitario e rivolti, in particolar modo, all’avanguardia culturale italiana. Fu proprio Olivetti a descrivere il senso di quella esperienza editoriale:

Le Nuove Edizioni Ivrea sono nate con il programma di offrire à l’élite italiana una possibilità di cultura totale in un senso ecumenico. Si tratta di un’impresa complessa alla quale cooperano allo stesso tempo degli uomini di cultura e degli uomini d’azione e dove l’interesse per le cose materiali è intimamente legato alle necessità spirituali.61

La rivista che riuscì ad ottenere una discreta diffusione negli anni della ricostruzione, e sarebbe poi diventato organo ufficiale di propaganda del Movimento Comunità, trattava di una molteplicità di temi. Tra i più importanti vi erano la politica, l’economia, la sociologia, l’urbanistica, l’architettura, la letteratura, le arti figurative e gli spettacoli teatrali e cinematografici. Anche in questo caso fu Adriano ad assumerne la direzione editoriale e ad assicurare che la redazione avesse un’idonea sede che era situata ad Ivrea, in Piazza Barberini n° 5262. Nel recente passato la casa editrice, sotto

la direzione di Beniamino de Liguori Carino, ha riscoperto una rigogliosa attività che sta consentendo la riproposizione dei principali testi che hanno caratterizzato l’esperienza comunitaria.

Oltre ciò si poneva però, dinnanzi ad Adriano Olivetti, la necessità di effettuare una valutazione rispetto all’offerta politica ottimale per cantierizzare il programma ed i progetti comunitari. Tale scelta, per derivazione naturale, sia dagli apprendimenti paterni e materni, sia dalla formazione culturale e professionale, non poteva che orientarsi verso l’area delle forze progressiste non rivoluzionarie. Erano stati anni cupi quelli della guerra per il socialismo italiano, costretto ad operare nella clandestinità, che però rivide, già a partire dal periodo successivo al 25 luglio 1943, la concreta possibilità di fornire una nuova metodologia alla struttura statale che andava ricostruita. A tal uopo nell’agosto del ’43, prima ancora della firma armistizio con gli

60 Per una panoramica completa delle pubblicazioni del periodico Comunità e delle Edizioni di

Comunità si veda BENIAMINO DE’LIGUORI CARINO, Adriano Olivetti e le edizioni di comunità (1946-1960) in

quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, Fondazione Adriano Olivetti, Roma, 2008.

61 B. DELIGUORI CARINO, Adriano Olivetti e le edizioni di comunità (1946-1960), cit., p. 49.

62 ACS, Fondo Ministero dell’Interno gabinetto, archivio Generale, fascicoli permanenti, partiti

anglo-americani, le fronde socialiste di Unità Popolare e del Movimento di Unità Proletaria guidato da Lelio Basso si unirono all’ossatura del PSI per costituire il PSIUP Partito Socialista di Unità Proletaria, di cui divenne segretario Pietro Nenni63.

Buona parte dei suoi compagni di sventure, risalenti al periodo bellico e pre- bellico, quella porzione di élite culturale con la quale Adriano amava confrontarsi per alimentare la sua fervida capacità critica e propositiva, aderirono proprio al ricostruito Partito Socialista. Fu probabilmente anche per questo motivo che Olivetti, nel marzo del 1945, decise di aderire formalmente al PSIUP, dove ritrovò vecchie conoscenze come Sandro Pertini e Ignazio Silone e nuovi e futuri alleati politici come Giuseppe Saragat, Basso, Nenni e Giuseppe Romita. La sua esperienza non voleva però assomigliare alla tipica scalata del quadro di partito con l’ambizione al seggio parlamentare o ai vertici della segreteria. Egli mirò subito alla concretezza ed alle azioni che potevano essere conformi e prossime alle sue competenze ed ai suoi ideali. Tra le prime e più importanti attività vi fu la partecipazione ai lavori dell’Istituto degli Studi Socialisti, insieme a Massimo Severo Giannini64 che ne era il direttore, come già

anticipato nel capitolo precedente. L’Istituto aveva tra i principali compiti quello di elaborare uno studio sulle autonomie locali. Il partito, mediante questo contributo, intendeva porre l’accento sul ruolo delle nuove istituzioni locali della futura nazione e su come esse avrebbero potuto influire sulla diffusione di democrazia nei territori al fine di alimentare una nuova classe dirigente scevra del lascito dell’egocentrismo dittatoriale. Il fine era anche quello di predisporre una nota di base per i rappresentanti socialisti in vista di una futura, nuova, Carta Costituzionale.

Il Problema della Autonomie Locali65

di A. Olivetti e M.S. Giannini

Premesse politiche. Le formule politiche in tema di autonomie locali sono parecchie. Lo Stato italiano prefascista seguì una formula di pura empiria; cioè una non formula: la legislazione dell’epoca, sconnessa e contraddittoria, è uno specchio di quel procedere a tentoni. Lo stato fascista adottò una formula politica ben netta: massimo accentramento funzionale – dei prefetti e del Ministero degli interni – con

63 Per una completa analisti della storia del Partito Socialista Italiano nell’immediato secondo

Dopoguerra vedi PAOLO MATTERA, Storia del PSI. 1892-1994, Carocci editore, Roma, 2010. Vedi anche

ZEFFIRO CIUFFOLETTI, MAURIZIO DEGL’INNOCENTI, GIOVANNI SABBATUCCI, Storia del PSI vol. 3: dal

dopoguerra ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 1993.

64 Massimo Severo Giannini nacque a Roma l’8 marzo 1915 e vi morì il 24 gennaio 2000. È stato un

giurista e politico italiano. Fu allievo di Santi Romano e Guido Zanobini, divenne professore ordinario di diritto amministrativo a 24 anni, nel 1939. Insegnò nelle università di Sassari, Perugia, Pisa e presso La Sapienza di Roma. È stato direttore della «Rivista trimestrale di diritto pubblico» ed autore di rilevanti pubblicazioni in materia di diritto costituzionale, amministrativo ed economico. Muovendo dalla teoria istituzionalistica di Santi Romano, fu il primo sostenitore dello studio del diritto pubblico fondato su un approccio interdisciplinare, osservando come lo studio di un sistema giuridico non potesse limitarsi allo studio delle norme che lo componevano, dovendo abbracciare anche l'economia, la sociologia e la scienza politica. La sua attività politica lo portò a ricoprire l’incarico di capo di gabinetto del ministro per la Costituente Pietro Nenni dal 12 agosto 1945 al 2 agosto 1946. Inoltre dal luglio 1946 ai primi mesi del 1948 è stato capo dell'ufficio legislativo del ministero dell'Industria, nominato da Rodolfo Morandi. Iscritto al Partito Socialista Italiano, se ne allontanò nel 1953, per poi rientrarvi qualche anno più tardi.

ampio decentramento organico (per il valore esatto di questa terminologia, v. in seguito).

Attualmente varie formule si dibattono. Una è quella autonomistica assoluta, seguita da alcune correnti: liberali e democristiane. Secondo essa occorre dare agli enti locali il massimo possibile di funzioni; quindi non solo quelle che essi possono esercitare per destinazione propria, bensì anche quelle funzioni di carattere statale ma di dimensione locale. È evidente che questa formula svuota lo Stato, in favore di enti locali che possono divenire nidi di reazionari.

La formula seguita dalla annessa relazione, è una di quelle intermedie: in essa si è inteso da un lato non togliere efficienza all’autorità dello Stato, in quanto si ravvisa nella conservazione di essa una necessaria difesa della democrazia contro gli attacchi camuffati o meno, che non mancheranno. Dall’altro invece si è inteso suscitare tutte le energie democratiche locali ai fini del rinnovamento della classe dirigente e del consolidamento della democrazia. Essa può così esprimersi: massima autonomia agli enti locali nei limiti delle funzioni loro naturali.

Comporta questa formula una separazione di compiti tra enti locali e Stato – e in ciò consiste la sua novità; - per i compiti assegnati agli enti locali, essa lascia loro la più ampia padronanza delle proprie azioni.

Il problema che essa apre è quello dell’individuazione delle «funzioni naturali»; a ciò risponde la relazione. Qui occorre solo far presente che non si devono confondere funzioni locali e funzioni di dimensioni locali: per fare un esempio, l’assistenza, nella maggioranza delle sue estrinsecazioni, è una tipica funzione di dimensioni locali: quanti più sono gli istituti di assistenza, tanto più le popolazioni fruiscono del servizio assistenziale. Senonché essa non è funzione locale perché se è diretta e svolta sul piano locale dà luogo a duplicazioni, a maggiori costi di amministrazione, a maggiori difficoltà di rifornimento e procacciamento dei mezzi. A parte le sperequazioni che si creerebbero tra località e località. L’assistenza quindi non può essere disimpegnata che da enti centrali, con grandissimo decentramento organico.

Non occorre trascurare il fatto che nell’attuale momento vi è nella pubblica opinione un’idea diffusa e quasi un’aspettativa circa l’istituzione dell’ente regione. La relazione, come si vedrà, prospetta una soluzione intermedia, convinta che il principio unitario e il principio autonomista tendono oggi a trovare soluzioni di equilibrio, che si differenziano egualmente e dallo Stato federale tipo – qual è realizzato storicamente negli U.S.A. e in Isvizzera – e dallo Stato integralmente unitario e accentratore, che porta in sé l’impulso ad un’oppressione della libertà.

Premessa interpretativa. La varietà di terminologia in questa materia rende consigliabile la seguente premessa interpretativa:

a) Autonomia locale: indica quell’organamento di struttura per cui a determinati enti pubblici territoriali, differenti dallo Stato, vengono attribuiti un potere normativo e un potere amministrativo per la cura di interessi che, avendo dimensioni «locali» sono tuttavia di natura «generale».

b) Decentramento autarchico: significa che la distribuzione dei poteri pubblici è fatta in modo da attribuire parte di essi ad un Ente centrale, che è lo Stato, parte invece ad Enti locali differenti dallo Stato, in modo però che l’attribuzione a questi ultimi rivesta carattere istituzionale. La reciproca del decentramento autarchico è l’accentramento statale.

c) Decentramento organico: significa che la somma dei poteri attribuiti ad un Ente, è dall’Ente ripartita su una molteplicità di organi propri dell’Ente stesso. La reciproca è costituita dall’accentramento burocratico.

d) Decentramento funzionale: consiste nella differenziazione delle funzioni attribuite ad un ente o ad un complesso di enti, e nella distribuzione di esse tra i vari organi di cui si compone l’Ente o tra i vari enti, in modo che ciascun organo o gruppo di organi o ente viene ad assolvere funzioni determinate. La reciproca è l’accentramento funzionale.

e) Autogoverno: consiste nell’affidare lo svolgimento di attività amministrative di interesse locale agli stessi amministrati, e non già a funzionari designati dal centro. Nell’autogoverno i titolari delle funzioni sono sì funzionari dello Stato, ma eletti dai cittadini del luogo dove essi disimpegnano le proprie funzioni.

f) Regione: si usa ad indicare la circoscrizione oramai accolta nella comune accezione, più tradizionale forse che geografica, ma su cui non sorgono dubbi di significato. Sono regioni, quindi, il Piemonte, la Toscana, la Sicilia, ecc., e non il Molise, il Sannio, la Capitanata, la Brianza ecc.

Si vedrà peraltro più oltre qual è la validità effettiva delle unità territoriali regionali.

1) Dimensioni e connessioni del problema. Il problema delle autonomie locali è normalmente riferito al decentramento autarchico, mentre sono tenute sfocate sia le altre figure di decentramento, organico e funzionale, sia la formula strutturale dell’autogoverno. Invece il problema delle autonomie locali può risolversi solo con un armonioso concorrere di tutte le forme di decentramento. L’esperienza dei venti anni trascorsi è, in ciò, maestra; infatti non è vero che il fascismo rifuggì da decentramenti. In certi settori si ebbe un largo decentramento organico; senonché fu minimo il decentramento funzionale: così avvenne, per es. per vari Ministeri, che moltiplicarono i loro organi periferici attribuendo peraltro ad essi funzioni di scarso significato. Ancor più interessante l’altro fatto che si verificò, per cui si aumentò il decentramento autarchico, ma si diminuì, anzi quasi si abolì, il decentramento funzionale; infatti all’aumento delle provincie, dei comuni – in alcune zone – dei Consorzi, e di altri Istituti locali, non corrispose adeguata attribuzione di compiti autonomi.

2) Aspetto politico del problema. Sotto il profilo politico il problema delle autonomie locali consiste molto semplicemente nel mettere in grado gli organismi territoriali minori di assolvere, nel quadro complesso dei poteri pubblici, quelle funzioni che ormai, per lunga tradizione e per reiterare affermazioni, si considerano loro proprie in uno Stato moderno. La prima funzione consiste nell’incremento di democrazia, che si ottiene mediante l’educazione civile capillare del popolo, e la suscitazione delle energie locali per la formazione di una classe dirigente.

Altra funzione è quella di concorrere ad una migliore garanzia delle libertà del cittadino, in quanto l’esistenza di enti locali differenti dallo Stato e provvisti di una propria vitalità, fa sì che il potere dello Stato non si trasformi in prepotere di fronte alla barriera che esso incontra in organismi anche di carattere generale - e quindi con scopi concorrenti con i propri – nei quali i cittadini sono similmente inquadrati. Gli organismi di autonomie locali mentre devono da un lato essere provvisti di adattabilità ai bisogni locali, devono, d’altro lato, essere in grado di assorbire quelle esperienze e quei valori generali che costituiscono la caratteristica positiva dello Stato unitario.

3) Aspetto tecnico del problema. Insieme alle ragioni politiche concorrono del resto numerose ragioni tecniche che spingono a incrementare le autonomie degli enti locali. Infatti l’accentramento burocratico e l’accentramento statale appesantiscono certamente la macchina dei pubblici poteri, sia per la legge fondamentale che

«crescendo le dimensioni dell’ente crescono i meccanismi che l’ente stesso compongono», sia per il fatto che non muovendo le amministrazioni accentrate dalla stessa volontà degli interessati, esse tendono a schematismi, che possono risultare da un lato insufficienti, da un altro eccessivamente ampi rispetto all’entità degli interessi da curare.

L’accentramento funzionale presenta indubbi vantaggi tecnici, ma esige una macchina perfettissima e, soprattutto, costosissima. Non esiste alcun esempio conosciuto, nell’esperienza degli Stati civili, di un buon accentramento funzionale della cura degli interessi locali. Per cui questo accentramento, ove è stato predicato, o si è ridotto ad un’enunciazione meramente teorica, oppure si è realizzato imperfettamente, come avvenne appunto da noi. Ma realizzandosi imperfettamente, esso non è idoneo ad altro produrre se non disordine, discontinuità e intempestività; irrita gli amministrati, con una congerie di adempimenti amministrativi imposti dal centro, e con le sue lungaggini e mende.

4) Principio dell’effettività delle funzioni. Potrà quindi stabilirsi un primo principio, su cui si raccoglierà, del resto, il consenso di tutti i gruppi e movimenti politici, questo: che al decentramento autarchico dovrà accompagnarsi un vero ed effettivo decentramento di funzioni.

Questo principio va applicato in tutta la sua interezza. Interezza che non era realizzata affatto neppure nell’ordinamento prefascista.

Prendiamo per esempio i Comuni- quali erano – e quali sono ancora oggi – le funzioni loro spettanti? Esse si raggruppano in quattro grandi categorie: polizia locale (urbana e rurale), sanità e assistenza, opere pubbliche, pubblici servizi. Ebbene, per tutte e quattro queste categorie l’azione dei Comuni concorre con equale azioni dello Stato (o di altri enti), e spesso è in questa inquadrata, e quindi da questa guidata.

È chiaro che i Comuni – ove dovessero rimanere così come sono - non potrebbero dirsi forniti di effettiva autonomia, ove le funzioni loro assegnate non siano effettivamente loro proprie, e non più, cioè, interferenti, concorrenti, dipendenti o condizionate rispetto a funzioni dello Stato o di altri enti.

Rivendicando l’effettività funzionale delle autonomie locali, il Partito Socialista si pone sulla linea delle sue tradizioni.

5) Principio della individualità delle funzioni. Non basta però dire che all’ente autarchico territoriale occorre attribuire un’effettività di funzioni: occorre considerare un altro aspetto del problema, cioè quello della natura delle funzioni stesse. Sarebbe un errore mettersi al tavolino, e dividere poi le funzioni dei pubblici poteri in due gruppi, l’uno per lo Stato, l’altro per gli enti territoriali, in base al semplice criterio delle dimensioni della funzione: criterio che invece finora ha prevalso tanto che si sono date al Comune funzioni in materia igienica sanitaria, scolastica, artistica e così via, ma entro ambiti limitati e su più piani umili. Senza considerare che talune di queste funzioni non si prestano ad uno spezzettamento; e quasi che, per converso, fosse più semplice amministrare un insieme di condotte e ambulatori medici anziché un ospedale.

Il secondo principio cui ci si dovrà ispirare sarà quindi quello dell’individualità delle funzioni: ossia prima di attribuire ad un ente locale determinate funzioni, occorrerà stabilire se esse sono veramente individuate, sì che sia evitato da un lato attribuire ad un ente delle funzioni solo sulla carta, e dall’altra istituire un ente per lasciarlo poi privo di funzioni o con funzioni ridicole.

6) Carattere di questi principi. I due principi or detti sono semplici e chiari, e quindi una coerente accettazione e applicazione di essi eviterà di costruire degli ordinamenti irti di complicazioni e di situazioni aggrovigliate, come invece si è avuto in Italia. La mancanza di semplicità in questa materia, allontanandone la comprensione da parte dei cittadini, li disamora verso le istituzioni locali, e può anche giungere a riempirli di diffidenza.

In secondo luogo i due principi, ove applicati, sgombererebbero tutte le scorie del passato, il che non è poco, data la difficile situazione che si eredita: attribuendo agli Enti locali funzioni ad essi esclusive, si darebbe vita a un sistema che da un lato aumenta la responsabilità degli Enti stessi, dall’altro pone in essere una situazione del tutto nuova per l’Italia, caratterizzata da una notevole potenzialità di impulso alla democrazia: situazione quindi veramente rivoluzionaria.

7) Quartiere, Rione, Frazione, Villaggio. Il suggerimento, proveniente anche da taluni