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Già a partire dalla scelta dello pseudonimo si rivela la sensibilità di questo letterato, pensatore e artista a tutto tondo: è fratello minore di Giorgio de Chirico, ma firma le sue opere come Alberto Savinio e parimenti si chiama Nivasio Dolcemare nei suoi racconti autobiografici. Si impossessa simbolicamente di altre personalità, invita i lettori a partecipare a un gioco di ruoli, ad andare oltre l’evidenza dei fatti. Tutta la sua opera è volta ad insinuare un dubbio; a mettere in discussione, attraverso la duplicità e il gioco elusivo, persino quelle verità che appaiono come assolute e indiscutibili. Il tema del gioco, in particolare, è nodale perché in grado di liberare verso un nuovo orientamento conoscitivo quella sospensione di un’usuale duplicità razionale tra vero e falso, tra utile e inutile. Le immagini di Savinio sono profondamente ambigue e assumono significati molteplici, dichiarando apertamente l’inesistenza di un’unica verità. È chiaro il riferimento alla filosofia nietzschiana, ma anche quello alla poetica leopardiana. Nei suoi scritti invece si avvale dell’ambiguità del linguaggio, che considera lo strumento più adatto ad esprimere realtà non univoche. La sua poetica lancia un messaggio di crisi: la realtà non si può comprendere attraverso mezzi tradizionali e questo rende necessario il ricorso ad un linguaggio deformato e inusuale, che nega il contenuto, diventando esso stesso l’unica realtà indiscussa e direttamente accessibile. Savinio si avvale della relatività dei sistemi linguistici, dei segni, dei codici, e in questo la sua nozione di lingua si avvicina a quella di gioco linguistico che elaborerà Wittgenstein: le parole perdono senso al di fuori del contesto in cui sono usate, o significano qualcos’altro, rendendo impossibile la comunicazione a chiunque sia estraneo alle regole del gioco1. Alberto Savinio sostiene che l’artista contemporaneo non possa illudersi di proporre immagini nuove e originali, di crearle: per

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questo l’unica strada possibile è di fare ricorso a un universo visivo già tutto elaborato, a una memoria iconografica della tradizione. E Savinio attinge a materiali eterogenei, ma senza mai lasciarsi andare a metamorfosi surrealiste; elabora accostamenti inediti, quasi dei fotomontaggi, tra corpi umani e teste animali che tuttavia non subiscono mai alterazioni. Il risultato porta alla creazione di

oggetti-giocattoli, di travestimenti per l’uomo: è un felice recupero

della capacità inventiva dell’infanzia e della sua dimensione ludica. I bambini, per indole, scompongono e ricompongono, giocano con qualsiasi anticaglia gli capiti tra le mani, facendone un nuovo uso. Allo stesso modo la decomposizione saviniana è volta allo smantellamento di qualsiasi stereotipo mentale o culturale e a creare nuovi sensi sulle rovine di quelli vecchi. Ne consegue l’apertura di nuove possibilità, la chance di un contatto con l’altro. L’arte viene intesa allora come un’operazione sulla memoria tesa a indicare valori più stabili rispetto a quelli contraddittori del presente: per questo l’artista cerca di recuperare un passato sia individuale sia storico che, nel caso di Savinio, nato in Tessaglia, coincidono in un riferimento al classicismo greco. Il livello della memoria storica si sovrappone ai ricordi privati in una sorta di mitologia autobiografica. In particolare viene rievocata la Grecia arcaica, pre-socratica, ovvero quella che precede l’organizzazione razionale della realtà. Quelle età primordiali, in cui l’uomo tremava di fronte agli eventi inspiegabili della natura, era stato oggetto dell’attenzione della filosofia di Vico e di Nietzsche: è da lì che nasce la sapienza poetica, la capacità di interpretazione magica e divinatoria del mondo.

«Tutto il passato è per Savinio deposito di immagini ancor prima che di contenuti ideali e questo insieme di memorie visive sedimentate è ineliminabile, perchè la parafrasi e l’imitazione non sono tanto “mali” dell’epoca moderna, quanto “necessità” storiche del presente. La novità e la modernità tutta novecentesca del metodo e delle soluzioni pittoriche di Savinio sono nel considerare questi strumenti visivi come “mezzi indiretti”, mezzi da usare “con spirito”, dove lo spirito, l’intelligenza e l’ironia intervengono nel manipolare concettualmente le immagini date, spesso senza

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modificarle in sé, per ribaltarne coscientemente i significati. L’ironia, il gioco mentale, il distacco divertito dagli spunti visivi di cui ci si serve, sono questi gli strumenti di cui dispone l’intellettuale contemporaneo per fare operazioni critiche - e in questo senso originali - rispetto alla storia e ai suoi modelli».

(P. Vivarelli, La pittura di Savinio come tratto della memoria, dal catalogo

della mostra su Savinio a Verona del 1990-91)2.

In questo suo attingere alla memoria, Savinio si serve di repertori di immagini classiche, come gli archivi archeologici dell’Ecole du Louvre, ma anche di fotografie di famiglia, di riproduzioni di dipinti di Böcklin e di raccolte di incisioni seicentesche di monumenti classici romani, di trattati di divulgazione scientifica, di libri di favole per bambini, di tavole accademiche con riproduzioni di nudi in pose classicheggianti. Nascono così opere come Gladiateur

et squelette d’éléphant3 (1928), costruita accostando una statua classica di Meleagro con una tavola di Louis Figuier raffigurante animali preistorici, o come l’Apollo4 (1932) che combina una raccolta di incisioni di François Perries del 1638 con una rappresentazione di ordini architettonici e di volatili. La pittura di Savinio è ricca di significati simbolici e di riferimenti culturali, non ha un’immediatezza comunicativa, ma richiede un approccio attento e preciso per poter SAVINIO

2. Savinio. Gli anni di Parigi: dipinti 1927 - 1932, Electa, Milano 1990, p. 19-35. 3. Ibid., p. 33. 4. Ibid., p. 31. A. Savinio, Gladi- ateur et squelette d’élephant, un’opera del 1928, costruita accostando la statua di Meleagro dal Répertoire di Re-

inach a una tavola di La terre avant le

déluge di Louis

Figuier, pubblicata a Parigi nel 1879.

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apprezzare in pieno il gioco che attua sugli elementi della memoria culturale, sulle radici della nostra cultura e del nostro pensiero. La ricchezza tematica delle sue tele è lo specchio della pienezza e della complessità del mondo: l’arte vuole essere oggettiva comprensione del reale, così come esso è nella sua essenza più profonda. Savinio arriva alla ‘cosa’, alla verità, attraverso il gioco, la provocazione, l’ambiguità, in una accanita resistenza alla Ragione unica. Appare sulle sue tele un repertorio di oggetti strabilianti: ruote dentate, righe colorate che solcano i cieli, oggetti geometrici trasparenti, giocattoli reinventati. O ancora biglie dalle code svolazzanti, pennacchi, archi dalle tonalità fosforescenti: Savinio stesso dichiara di trovare ispirazione tra i racconti di avventura di Stevenson e Verne. Le tematiche affrontate sono bibliche, mitologiche, oniriche, ma in particolare parlano di infanzia, di gioco, di una dimensione ludica. Negli anni che trascorre a Parigi, tra il 1927 e il 1932, Savinio elabora una serie di dipinti in cui giocattoli inanimati affollano la scena: il gioco infantile è visto come momento di grande libertà fantastica, svincolata dalle regole razionali dell’età adulta. Quei giocattoli raccontano di quel tempo infantile, primitivo, SAVINIO

A. Savinio, Apollo, 1932, esposta nella mostra personale a Torino dello stesso anno. Lo spunto per quest’opera deriva da una tavola proveni- ente da una raccolta di incisioni realizzata da François Perries nel 1638.

183 in cui gli uomini ancora consideravano animata tutta la natura e gli eventi naturali erano ritenuti prodigi degli dei. La tela Objects dans la

forêt, del 1927-28, é la prima della serie degli accumuli di giocattoli

ambientati in scene naturali, che proseguirà con numerose varianti almeno fino al 1930. Se gli oggetti geometrici delle tele metafisiche di de Chirico hanno certamente offerto uno spunto iconografico per questa composizione, è del tutto nuovo il significato generale dell’intera serie, in cui compaiono l’ironia e il divertimento tipici di una poetica squisitamente saviniana, fino al concretizzarsi di oggetti infantili in macchine che addirittura fecondano la natura5 Il cromatismo tra la natura grigia e i giocattoli dai colori vividi e accesi racconta la tendenza ad imporsi degli aspetti più banali del reale, oltre che una sostanziale mancanza di lirismo nella vita degli uomini. In Le navire perdu (1928) invece gli oggetti fantastici assumono una configurazione geometrica essenziale e le superfici sono semplificate nel disegno. Rispetto ai Giocattoli nella foresta persiste la compresenza tra l’acceso cromatismo nei poliedri e la monocromia nei particolari allusivi al trasformarsi di tutto l’accumulo colorato in “barca dei desideri”: ciò visualizza il tema della perdita (cui accenna il titolo stesso dell’opera) di un vagheggiato mondo di valori. L’opera ha carattere quasi di prototipo per l’intera serie dedicata al tema. «Per Savinio, l’infanzia non è un tempo ma un tempio»6, sostiene Paola Italia: è una dimensione dello spirito, un luogo fisico che coincide con la Grecia antica, ma anche un luogo metafisico in cui la mente del bambino, mentre ancora percepisce cose interdette a quella dell’adulto, sente irrompere domande a cui non potrà mai dare risposta. Attraverso la riflessione sull’infanzia si percepisce anche l’eco delle insistenti letture di vichiane di Savinio. Da Giambattista Vico egli apprende infatti che la poesia non è altro che imitazione e pertanto i bambini, abili imitatori, sono poeti, così SAVINIO

5. Si veda l’opera di A. Savinio, Machine pour féconder leas arbres, 1929, Collezione privata. Già proprietà di Galerie Jeanne Castel, Parigi

6. Dal commento, a cura di Paola Italia, del volume A. Savinio, Tragedia dell’infanzia, Adelphi Edizioni, Milano 2001.

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come lo sono stati i popoli primitivi (“fanciulli del genere umano”). Tali riflessioni fanno parte delle celebri Degnità, ovvero quegli assiomi che il filosofo napoletano riconosce come veri, senza la necessità di alcuna dimostrazione:

XXXVII Degnità: “Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione; ed è proprietà de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e trastullandosi, favellarci come se fussero, quelle, persone vive. Questa Degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo per natura furono sublimi poeti”.

L Degnità: “Ne’ fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all’eccesso la fantasia, ch’altro non è che memoria o dilatata o composta. Questa Degnità è il principio dell’evidenza dell’immagini poetiche che dovette formare il primo mondo fanciullo”.

(G. Vico, La scienza nuova, Volume I, Libro I, Sezione II, 1725). Dal Vico Savinio trae il concetto della intrinseca identità tra pittura e poesia: in virtù di questo, l’analisi delle sue opere pittoriche non può prescindere dalla lettura dei suoi scritti. Le due realtà vanno di pari passo, sono tenute assieme da un unico filo, guidate da una stessa intenzione. E mentre Savinio dipinge mondi primitivi in cui isole di giocattoli, mute, diventano figure dell’anima, a parole sceglie di decantare l’infanzia del mondo coi toni della tragedia, evocando la classicità di antichi dei che si palesano a personaggi epici, come eroi. Savinio scrive la Tragedia dell’infanzia all’inizio degli anni Venti, anche se la pubblicazione arriva solo nel 1937. L’infanzia è tragica ai suoi occhi perchè incapace di sospettare «la disfatta a cui è destinata», e di conseguenza ogni percorso educativo e di crescita diventa una progressiva perdita di libertà. La tragedia è intesa da Savinio come un sacrificio, un annientamento. Se l’infanzia è mito e percezione dell’assoluto, la tragedia è la scoperta della mortalità, ovvero la rivelazione del tempo e della morte. Questa verità necessaria e paradossale della vita nel testo viene rivelata da una divinità androgina, e determina un’iniziazione ad una modalità d’essere diversa, una vera e propria morte iniziatica:

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Usciti dal turbine, entriamo nel silenzio. Una porta si è chiusa dietro le nostre spalle. Gli occhi mi si assuefanno al buio […]. Uno steso dolore mi circonda.

Mi abituo al dolore, come ci si abitua allo scroscio monotono di una cascata […].

La dea si fermò, mi strinse la mano più forte. Essa prima e io dietro cominciammo a scendere il declivio sabbioso.

In principio tutto era buio, confusione, freddo.

Poi, come nascendo a una vita diversa, sentii che lentamente naufragavo.

(A. Savinio, Tragedia dell’infanzia, p. 105-6). E un naufragio è il tema di un dipinto del 1930, L’isola dei giocattoli, in cui una zattera fantastica costituisce un prezioso bottino

abbandonato in mare. Anche il precedente Navire perdu si configurava come una barca-trofeo, incagliatasi su un frammento di persistente realtà naturale, ma in questo caso i giocattoli si presentano essi stessi come zattera galleggiante, ormai persa per sempre alla deriva. Naufragata. SAVINIO A. Savinio, Objets dans la forêt, olio su tela, cm 73 x 92, Collezione Albert Sarraut, Parigi, 1927-1928.

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Ma la tragedia infantile in Savinio si maschera dietro la commedia degli adulti: se le opere metafisiche del fratello Giorgio sono caratterizzate da melanconia, al contrario quelle di Alberto sfoggiano un’ironia dissacrante. E questo spirito della “commedia” non va inteso come un semplice divertimento o satira, ma come una ricerca di elementi essenziali, con la consapevolezza di dover manipolare la realtà per eliminare da essa le contraddizioni della vita. Ancora una volta Savinio gioca, nel senso più serio del termine, con l’arte (Surrealismo incluso), con le parole e con l’universo intero. La struttura del saggio richiama le composizioni platoniche e plutarchee; in particolare i temi e i motivi tra l’onirico e il surreale riprendono il De genio Socratis di Plutarco, uno di quei grandi miti greci che sottraggono la vita umana all’insignificanza del Caso per iscriverla nel disegno di un destino, etico e provvidenziale, attraverso l’attenzione delle divinità nei confronti di qualche prescelto tra gli uomini. Ma tra gli scritti di Savinio non trapela tutto questo: nonostante il tono onirico sia lo stesso, non si intravedono promesse di immortalità per gli uomini. Piuttosto questi scritti condividono con la pittura metafisica di quegli anni uno sgomento per il «silenzio degli dei» che risuona assordante SAVINIO A. Savinio, L’isola dei giocattoli, olio su tela, collezione privata, 1930

187 «tra piazze mute ed archi silenti»7.

Muto è il Monumento ai giocattoli, dipinto nel 1930, in cui di nuovo viene composto quasi a caso un mucchio di sfere, cilindri, parallelepipedi, ponti e porte di legno variamente colorati, facenti parte di una gigantesca scatola di costruzioni di legno. Gli oggetti sono poggiati l’uno sull’altro a formare una specie di torre di cose sovrapposte collocata al sommo di un monte roccioso, con sullo sfondo un cielo mosso di nubi pesanti. Mantiene la vivacissima croma di Le navire perdu. È un dipinto di chiara derivazione arcimboldesca su cui Savinio scrisse:

«Non si bada abbastanza agli oggetti che si mettono in mano ai bambini. La forma, la specie, il colore di un oggetto influiscono sul carattere del bambino, indirizzano la sua formazione mentale, determinano il suo destino».

(A. Savinio, Tutta la vita, Milano, 1945, pp. 49-50). Il tempo in queste composizioni sembra sospeso, astratto, mitico; non conosce la storia né le circostanze, proprio come quello che rende assoluta ed epica ogni situazione descritta in Tragedia dell’Infanzia: qui i personaggi sono eroi, istintivi, dai toni gravi e solenni. Il mito viene scollato dal Sacro, proprio come solo l’operazione ludica sa fare8: memorie di culti antichi e dimenticati perdono il loro significato e diventano relitti alla deriva. Questa è la classicità metafisica delle tele del fratello Giorgio De Chirico: un vocabolario che ha perso i suoi riferimenti, un mondo sospeso e muto. L’arte non parla del Tutto, ma del Nulla del Tutto. Attraverso la rappresentazione dell’antico, Savinio mette in scena un’inquietudine moderna: il divino nell’opera di Savinio rende manifesto l’esilio degli dei, l’esilio dei miti, lo svanire della bellezza e, soprattutto, del senso del mondo. Un sentimento SAVINIO

7. M. Mazzocca, Il surrealismo di Alberto Savinio tra echi d’esoterismo antico e negazi-

one leopardiana. Lettere Italiane 1992, 44(2), p. 242.

8. Si rimanda alla descrizione di Benveniste in Gioco come struttura: «Se il sacro si può definire attraverso l’unità consustanziale del mito e del rito, potremo dire che si ha gioco quando soltanto una metà dell’operazione sacra viene compiuta, traducendo solo il mito in parole e solo il rito in azioni. (É. Benveniste, Il gioco come struttura, Deucalion, 2, 1947, p.165).

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che inaugura la coscienza dell’arte moderna e che aveva trovato il proprio avvio nella poesia leopardiana.

Un’orribile certezza rompe nella mia mente […]. Tento di scacciare la lurida idea. Invano. Essa mi si avvinghia addosso, mi si affonda nel cervello. Non mi lascerà più. Siamo associati per sempre. La nostra complicità è terribile. […]

Come mai tanta calma nella morte?

Sento finalmente il conforto di quella realtà che andavo cercando. Dal cerchio che mi chiude non potrò uscire mai più. Ogni ribellione, ogni sforzo è vano. Qui e non altrove. E qui, presente, costante, sicura: la morte… O beata! […] Il più è fatto. Quest’idea mi dà sollievo. La mente è tranquilla.

(A. Savinio, Tragedia dell’infanzia, p. 110-111). Compito dell’arte è allora quello di svelare il dramma dell’esistenza, di far ritrovare il bene supremo, inteso come quella situazione in cui nessun desiderio ha più voce.

O mia vita, ti guardo e non ti desidero […] Di poi che il rimembrare più ti nuoce Spera di non sperare Altro non giova Quaggiù né la memoria né la voce Che dei fantasmi il piangere rinnova.

(A. Savinio, Tragedia dell’infanzia, p. 117). A leggere questi versi, la mente richiama un passaggio de Il gioco

come struttura (1947) in cui Benveniste tradisce un certo pathos

esistenzialista, arrivando a descrivendo il gioco come un’attività “irrealizzante” per la coscienza. La costellazione ludica costituisce infatti un insieme di forme la cui intenzionalità non può essere orientata verso l’utile. «Quando il bambino acquisisce la prima nozione di reale, quando comprende che il mondo “utile” è composto di pericoli, cose illogiche e divieti, trova rifugio nel gioco e compensa così lo sforzo spossante che l’apprendimento della realtà impone alla sua mente». Il gioco è un rifugio per la coscienza, ad ogni età corrisponde ad un’oblio dell’utile, ad un benefico abbandono alle forze che la vita reale imbriglia e su cui SAVINIO

189 infierisce. Benveniste sostiene che solo nel gioco si possa risolvere o di abolire quel conflitto nel quale si riassume il rapporto della coscienza con il mondo. E continua: «La coscienza è condannata a brancolare dolorosamente in un reale che essa non può vivere

d’emblée, né accettare completamente, poiché se è vero che spesso

riesce a modificarlo, d’altra parte non è mai in condizione di comprenderlo». La nostra coscienza tende pertanto a irrealizzarsi rispetto all’universo, il nostro subconscio aspira all’irrealizzazione: e il gioco è una delle modalità più rivelatrici di questo processo. Anche l’immagine, il sogno, l’arte ne sarebbero altre testimonianze; ma soltanto «il gioco permette alla coscienza di vivere la sua SAVINIO A. Savinio, Monumento ai giocattoli, olio su tela, cm 80,5 x 65, 1930

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SAVINIO

9. É. Benveniste, Il gioco come struttura, Deucalion, 2, 1947, p. 167.

irrealizzazione in un mondo che le è dato e nel quale l’irrealizzazione è la legge»9. Queste parole, a mio parere, si rivelano un contributo interpretativo dei versi della Tragedia dell’infanzia, fino alla sua malinconica chiusura; gettano luce sul ricorso al gioco, che attraversa tutta la sua produzione saviniana. Un gioco intelligente, che permette da un lato la decomposizione del reale, dall’altro la ricostruzione di un mondo alternativo - un sollievo dell’anima - che possa parlare, seppure attraverso il silenzio, di quel tragico Nulla.

Poi il mare si oscurò. Che rimase?

Nulla. Appena un palpito, un soffio, il respiro lieve di un bimbo caduto sull’inganno del suo primo amore.

Andiamocene in punta di piedi.

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- irrealizzazione -

Roma, Alfonso Cuarón 1959 CLEO

Allora, che succede? Non me lo vuoi dire? PEPE

Non posso parlare. Sono morto

CLEO Sai che ti dico. Mi piace essere morta

192 Bibliografia

Savinio. Gli anni di Parigi: dipinti 1927 - 1932, Electa, Milano 1990

(catalogo della mostra tenutasi a Verona, dal 9 dicembre 1990 al 10 febbraio 1991)

É. Benveniste, Il gioco come struttura, Deucalion, 2, 1947, pp.159-167 M. Mazzocca, Il surrealismo di Alberto Savinio tra echi d’esoterismo antico

e negazione leopardiana. Lettere Italiane 1992, 44(2), 240-260. http://

www.jstor.org/stable/26265148

A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Edizioni Adelphi, Milano 1978. A. Savinio, Tragedia dell’infanzia, Giulio Einaudi editore, Torino 1978. J. Szymanowska, Alberto Savinio: l’uscita dal labirinto, in B. M. Da Rif (a cura di), “Civiltà italiana e geografie d’Europa. XIX Congresso AISLLI 19-24 settembre 2006 Trieste Capodistria Padova Pola”, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste 2009, pp. 435-448