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Uno dei filosofi contemporanei che più si è confrontato con la parola “gioco” è Ludwig Wittgenstein (Vienna, 1889 - Cambridge, 1951). Le pagine delle sue Ricerche Filosofiche, pubblicate postume nel 1953, sono attraversate da sconfinate riflessioni attorno al concetto di gioco linguistico: si tratta di un complesso strumento per pensare, elaborato come base di un immenso laboratorio filosofico che indaga l’esperienza e il senso comune dell’uomo.

Il termine “gioco linguistico” sta a rappresentare tutti gli svariati modi con cui il linguaggio può essere utilizzato: il carattere

meramente denotativo delle parole, ad esempio, sarebbe soltanto una delle loro funzioni, dei loro impieghi. Piuttosto che sulla lingua in sé, il filosofo ragiona sull’uso che se ne fa. Una semplice parola può diventare esclamazione, asserzione, una domanda, o addirittura un ordine: «Acqua! Via! Ahi! Aiuto! Bello! No!»1, e ciò a ribadire che il linguaggio può assolvere alle funzioni più disparate. Secondo la tesi di Wittgenstein, l’agire linguistico avrebbe dunque determinati fini ad esso immanenti e, come tutti i giochi, rispetterebbe determinate regole.

Il gioco linguistico mira a ricercare una sorta di raffigurazione tra il mondo e il linguaggio, una relazione speculare tra la struttura logica della lingua e quella della nostra connessione con il mondo. Eppure, nonostante Wittgenstein ricorra in modo esemplare all’utilizzo dell’aggettivo “linguistico”, dando conto della vasta gamma di significati in esso impliciti, al contrario sembra dimostrare incertezza nella definizione del sostantivo “gioco”, ritraendone scorci insufficienti e inadeguati. Nelle prime pagine, ad esempio, il riferimento al solo gioco degli scacchi ricorre quasi ossessivo e lascia

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intuire un’idea limitata e ristretta di gioco: si percepisce lo sforzo vano dell’autore nel definire un’idea stabile, unitaria e condivisibile di esso, fino ad arrivare alla conclusione che il gioco è qualcosa di sfuggente, di difficilmente dominabile.

Si può dire che il concetto ‘giuoco’ è un concetto dai contorni sfumati. - «Ma un concetto sfumato è davvero un concetto?» Una fotografia sfocata è davvero il ritratto di una persona? È sempre possibile sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata con una nitida? Spesso non è proprio l’immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?

(L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, par.71) Wittgenstein evidenzia in tal modo una certa renitenza del concetto di gioco a lasciarsi circoscrivere o definire. In un saggio pubblicato sulla rivista aut aut2, Pier Aldo Rovatti sottolinea l’importanza di questa “sfocatura” nella dinamica stessa del gioco linguistico e intende questa oscillazione concettuale come un carattere strutturante proprio del gioco.

Senza questa oscillazione/mobilità/sfocatura non ci sarebbero – come è chiaro – né alcun gioco né alcuna teoria capace di trattenere in qualcosa di unitario la somiglianza dei giochi.

(P. A. Rovatti, Il gioco di Wittgenstein, aut aut 337/2008) Ad essa Wittgenstein giunge nel tentativo di risolvere appunto il problema della diversità dei giochi. Dopo aver passato in rassegna le varie tipologie di giochi, da quelli a scacchiera, a quelli di carte o di palla, egli crede di poter individuare un nesso comune a tutte le categorie analizzate dapprima nell’elemento della competizione, poi nell’abilità, o ancora in seguito arriva a considerare la fortuna. Ma questi indicatori sono il frutto di riflessioni frettolose: sono sì elementi necessari a descrivere il gioco, ma non sono sufficienti, non possono ambire a descrivere il mondo dei giochi in toto. Ad esempio nel girotondo non si ha né competizione, né fortuna: e se la chiave comune a tutti i giochi risiedesse allora nel divertimento? D’altronde

2. Pier Aldo Rovatti, Il gioco di Wittgenstein, aut aut 337/2008, p. 55-74.

67 è vero che tutti i giochi sono divertenti: ma questa conclusione porta ad una contraddizione rispetto all’utilizzo wittgensteiniano del termine ‘gioco’ in riferimento alle regole d’uso del linguaggio: un gioco

linguistico non è necessariamente divertente.

Per questa ragione, il passo in cui Wittgenstein giunge a parlare di ‘sfocatura’ del concetto di gioco può facilmente essere interpretato dal lettore come un alzare bandiera bianca, come un rassegnarsi di fronte all’inafferrabilità di quella matrice che accomunerebbe tutti i giochi. Wittgenstein non può immaginare che, di lì a pochi anni, il mitologo francese Roger Caillois3 sistematizzerà un metodo scientifico in grado di classificare ogni tipo di gioco sulla base di quattro categorie (agon,

alea, mimicry e ilinx), riuscendo così, in un certo senso, nell’impresa

in cui egli non si è avventurato. Ma quella del filosofo tedesco non va considerata come una rinuncia, poiché il suo interesse é rivolto altrove: ciò che a Wittgenstein preme è di sgretolare la fissità di un concetto. Egli ammonisce il lettore a non cercare i limiti del gioco, a non inseguirne un’immagine nitida, poiché questa non sempre è in grado di “sostituire vantaggiosamente un’immagine sfocata”. Ciò che è sfocato, infatti, si lascia completare dall’immaginazione; la stimola. In questo risiede il suo valore.

Per tale motivo la lettura che dà Wittgenstein si rivela quanto mai essenziale, oggi, in una società che non lascia più spazio al gioco. Una società divenuta miope, che ha bisogno di tornare a considerare non solo il valore dell’immaginazione, ma anche quello dell’improduttività, dell’incertezza, della sospensione dalla realtà, del ‘fine a se stesso’, della libertà regolata. Il gioco è infatti un qualcosa di libero e allo stesso tempo di regolato: e proprio in questo paradosso il movimento oscillante di Wittgenstein si verifica in modo speciale. C’è un continuo rimbalzare tra la regolazione dell’esperienza libera e la liberazione della regola: nessun gioco è completamente libero e nessuna regola può mai essere esterna al gioco (Rovatti). Allo stesso

3. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Tascabili Bompiani, Bologna 2007. In particolare si veda il secondo capitolo: “Classificazione dei giochi” (p. 27-55).

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modo la regola non può mai essere esterna al gioco linguistico, ovvero a quell’agire linguistico che è il nostro relazionarci con il mondo. L’idea che noi viviamo già all’interno di un nodo di giochi linguistici apre il ragionamento verso una nuova direzione: è opportuno, e quanto mai necessario, analizzare e imparare a riconoscere dall’interno i giochi attraverso cui si dispiegano il linguaggio e l’esperienza comune dell’uomo, proprio perché l’individuazione di

spazi di gioco ci aiuta a pensare, dilatando e rompendo gli schemi che

bloccano le pratiche abituali del pensiero. Quando si gioca si entra in una dimensione di sospensione, in uno spazio e in un tempo speciali, separati; ci si stacca dalle normali condizioni di realtà. Ma allo stesso tempo non si può opporre banalmente il gioco alla realtà, perché l’effetto sarebbe quello di un’espulsione del gioco dalla realtà stessa: eppure l’infortunio fisico che, per esempio, ci si procura giocando ha indubbiamente un tangibile connotato di realtà, così come reale è il piacere che il gioco procura, reali sono l’impegno e il disappunto per la sconfitta. Erving Goffman si è immaginato la compartizione di gioco e realtà come una membrana fragile, pronta a rompersi.

An organic metaphor might be attempted. A living cell usually has a cell wall, a membrane, which cuts the cell off from components in its external milieu, ensuring a selective relation between them and the internal composition of the cell. If we think of an encounter4 as having a metaphorical

membrane around it, we can bring our concerns into focus. We can see that the dynamics of an encounter will be tied to the functioning of the boundary-maintaining mechanisms that cut the encounter off selectively from wider worlds.

E. Goffman, Encounters. Two Studies in the Sociology of Interaction, p. 59)

4. L’autore definisce un encounter come una «unità di organizzazione sociale» ed es- plora la sua relazione con la più vasta struttura sociale nella quale è inserito: «An en- counter, also referred to as a focused gathering or a situated activity system, is different from a social group. A gathering has participants; a group has members. A gathering is characterised by persons physically present and continuously engaged in some activity; they sustain interest in a single focus of attention, and when they lose interest or leave the gathering is terminated. Examples are a conversation, a jury deliberation, love making, boxing, or any task jointly pursued».

69 Stefano Bartezzaghi, nel suo saggio “Il gioco infinito. Forme,

linguaggi, sconfinamenti, patologie” utilizza invece un’altra metafora efficacemente calzante, quella di un area giochi per bambini

all’interno di un parco, liberamente accessibile, eppure separata dal parco stesso:

Basta pensare a quegli sportelli a molla che regolano l’accesso alle aree giochi in molti parchi: sono sempre aperti e sempre chiusi. Si potrebbe dire che queste aree si “oppongono” al parco? Avrebbe senso denominare e qualificare la parte di parco che non è area giochi? E, soprattutto, nella parte del parco che non è area giochi giocare è proibito?

(S. Bartezzaghi, Il gioco infinito. Forme, linguaggi, sconfinamenti, patologie, aut aut 337/2008) Assistiamo qui ad una sorta di raddoppiamento dell’idea di realtà: la dimensione del gioco non è quella del sogno o della fantasia. Giocando assumiamo un ruolo che non è puramente fittizio, ma che è provvisto di una sua realtà e di un’appartenenza ad un contesto condiviso con altri soggetti: è una dimensione dell’esperienza reale che il gioco ci permette di scoprire e valorizzare. Esiste un confine sottilissimo e permeabile: in sostanza l’esperienza umana è caratterizzata da continui scorrimenti tra una realtà e l’altra, in entrambe le direzioni. E nel momento in cui realizziamo che la nostra dimensione comune è intervallata da altre realtà, da spazi di

gioco, inevitabilmente ci sleghiamo dalla sua fissità, ne dilatiamo e

rompiamo gli schemi e in definitiva acquistiamo libertà.

Il ragionamento di Wittgenstein porta l’uomo a prendere coscienza della presenza massiva del carattere ‘gioco’ all’interno della struttura delle sue relazioni intersoggettive e della sua esperienza del mondo: oggi è fondamentale tornare a dare spazio al gioco imparare a riconoscere i suoi risvolti più virtuosi, salvaguardando quegli scorrimenti che avvengono attraverso la membrana selettiva di Goffman, tra una realtà e l’altra, evitando che una delle due degeneri o prenda il sopravvento sull’altra. Solo in tal modo è possibile difendersi dagli attacchi di una società spettacolarizzata che, silenziosamente, sfrutta e mette a valore persino la tendenza umana a giocare.

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Bibliografia

S. Bartezzaghi. Il gioco infinito. Forme, linguaggi, sconfinamenti, patologie, in aut aut 337, marzo 2008, pp. 3-12.

E. Goffman, Encounters. Two Studies in the Sociology of Interaction, Penguin University Books, Harmondsworth 1972.

P. A. Rovatti, Il gioco di Wittgenstein, in aut aut 337, marzo 2008, pp. 55-74.

L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, Ed. italiana a cura di Mario Trinchero, Giulio Einaudi Editore, Torino 1967.

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