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Benjamin elabora la sua nozione di gioco non solo nel suo più noto saggio sull’Opera d’arte, ma anche attraverso quella costellazione di articoli e recensioni che scrive a metà degli anni Venti per varie riviste e giornali1. Recentemente una studiosa del Walter Benjamin Archiv di Berlino, Marina Montanelli, ha pubblicato un approfondimento nel quale dà una lettura illuminante circa il ruolo della ripetizione ludica nell’opera di Benjamin2. L’assunzione data in partenza è che una determinata legge della ripetizione regoli l’intero mondo dei giochi e che sia l’essenza stessa del gesto ludico.

La ripetizione costituisce l’anima del gioco infantile; nulla rende più felice il bambino dell’«ancora una volta». Qui, nel gioco, l’oscuro impulso alla ripetizione agisce con una violenza che è appena minore di quella con cui opera l’istinto sessuale nell’amore.

(W. Benjamin, ‘Giocattolo e gioco’, Osservazioni a

margine di un’opera monumentale, 1928)

È questa stessa legge della ripetizione che permette al bambino di accumulare esperienza, di costruire quelle abitudini che sono condizione di orientamento all’interno dell’esistenza. Secondo Benjamin «il gioco, e null’altro, è la levatrice di ogni abitudine», ovvero l’abitudine nasce per l’appunto nella forma del gioco. Ma il filosofo tedesco pone anche una certa attenta nel distinguere tra questa nozione di ripetizione connessa al gioco e quella, invece, propria di tutti i rituali sacri: laddove la ripetizione mitica è un cerchio che ribadisce senza sosta le proprie leggi, un eterno ritorno dell’identico, quella ludica è, d’altro canto, una «ripetizione differenziale» che, ripetendo, trasforma e modifica. È la ripetizione

1. Si veda, per esempio, l’articolo ‘Giocattolo e gioco. Osservazioni a margine di un’opera monumentale’ (1928) in Critiche e recensioni. Tra avanguardie e letteratura

di consumo, Giulio Einaudi Editore, Torino 1979. Ma anche lo scritto ‘Storia culturale

del giocattolo’, sempre del 1928.

2. M. Montanelli. Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, Mimesis Edizioni, Milano 2017.

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che caratterizza il comportamento di un infante, quando si diverte a costruire e a distruggere giocattoli semplicemente montando parti o separando componenti. E attraverso questa accezione virtuosa di ripetizione, il mondo ludico diventa per Benjamin la chiave antropologica di un’attività che, proprio perchè ripetitiva, può rivelarsi innovativa.

Nessun adulto, pedagogo o fabbricante o letterato, sa trasformare i giocattoli come i bambini stessi giocando. Una volta nascosta, fatta a pezzi, riparata, anche la bambola più regale diventa una buona compagna proletaria nella comunità dei giochi infantili.

(W. Benjamin, ‘Antichi giocattoli’, Figure dell’infanzia, p. 164) In questa prospettiva il nuovo può nascere anche dalla ripetizione del passato, sfatando quel mito del genio creativo, cui si attengono sia la religione che il marketing. Se infatti i rituali ripetono un evento per confermarne la validità (ciclicamente vengono celebrate messe e festività), al contrario il gioco è un elemento che, pur ripetendo, manomette il passato (e dunque tradizioni, lingue, ma anche modalità espressive). L’essenza del gioco dei bambini non è un’imitazione del mondo degli adulti, ma «una mimesis creativa che, incorporando le cose (e non immedesimandosi in esse), al tempo stesso le costruisce e fissa»3. Nell’era della riproducibilità tecnica, in particolare, questi attributi del gioco si fanno paradigma di una nuova tecnica sofisticata: quella del montaggio filmico che, nel ripetere, non ripropone le immagini in modo vuoto, ma piuttosto le modifica per senso e per struttura. Il concetto di gioco diventa allora fondamentale per comprendere i nuovi margini d’azione dischiusi dalla riproducibilità tecnica, che Benjamin chiama «Spielraum» (Spiel-Räume, gioco- spazio) e che Montanelli, non a caso, traduce come «spazi di gioco». Nel saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica Benjamin identifica due concetti fondamentali nella comprensione di tali spazi

3. M. Montanelli, Repetita: rito versus gioco, in Tecniche di esposizione. Walter Benja-

min e la riproduzione dell’opera d’arte, a cura di M. Montanelli e M. Palma, Quodli-

bet Studio, Macerata 2016, p.51.

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di gioco, e che chiariscono la portata politico-rivoluzionaria del suo

pensiero: la prima e la seconda tecnica, ovvero due modi differenti di porsi nei confronti della natura. Il primo è una forma di dominio su di essa, laddove la natura è avvertita come una minaccia per il proprio «esserci nel mondo»; si tratta di una forma intrinsecamente fascista di esorcismo della natura. La seconda tecnica invece fa saltare ogni dicotomia tra naturale e artificiale e viene alla luce con la riproducibilità tecnica, essendo esito del principio del montaggio. Se infatti, agli albori della produzione artistica, l’arte era assoggettata alla magia e contribuiva al dominio rassicurante sulla natura (basti pensare alle pitture rupestri sulle pareti delle caverne), con l’avvento della riproducibilità tecnica e il decadimento dell’aura nell’opera d’arte, «l’opera si emancipa dalla sua esistenza parassitaria nel

rituale», ovvero si stacca dall’ambito della tradizione. Questa cesura

nel processo di trasmissione comporta, per Benjamin, una crisi dell’umanità, ma allo stesso tempo essa coincide con una opportunità epocale di rinnovamento, basata sulla possibilità di un’interruzione del rito e della temporalità mitica. Il cambio di paradigma percettivo, ben oltre la sfera dell’arte, può arrivare ad investe i rapporti

fondamentali dell’uomo con la natura, con la tecnica, con la storia. In un’importantissima nota al paragrafo XI, presente solo nella terza edizione del saggio sull’Opera d’arte, si legge:

Nella mimesis sono sopiti e piegati l’uno nell’altro entrambi i lati dell’arte: apparenza e gioco. L’apparenza è lo schema più affilato, e con ciò più resistente, di tutti i procedimenti magici della prima tecnica, e il gioco è la riserva inesauribile di tutti i procedimenti sperimentali della seconda. […] Il che significa: ciò che si accompagna al deperimento dell’apparenza, al decadimento dell’aura nelle opere d’arte, è un enorme guadagno quanto a spazi di gioco (Spiel-Raum).

(W. Benjamin, Kunstwerk, Dritte Fassung, p. 119-121)4

Con l’avvento della seconda tecnica cambia il rapporto dell’uomo

4. La citazione è riportata da M. Montanelli nel saggio dal titolo Repetita: rito versus gioco, in Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte p. 44

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con la natura: non più un tentativo di dominio, ma piuttosto un gioco armonico; avviene per la prima volta una presa di distanza dalla natura, da quella natura propria del mito, intesa come un pericolo nella sua estraneità. E in questa cornice il montaggio cinematografico, prima ancora che un principio tecnico in grado di far slittare il paradigma, viene riconosciuto come un tratto antropologico, originato niente meno che nel più naturale impulso infantile al gioco. Un gesto ludico che nella sua capacità di alterazione, distruzione e interruzione rispetto all’ambito mitico- rituale, porta con sé anche un carattere costruttivo. A queste convinzioni si deve l’attenzione verso il mondo infantile che permea gli scritti di Benjamin e quel suo complesso tentativo di decostruire l’infanzia e i meccanismi propri del gioco.

Se nel gioco infantile (tratto antropologico costitutivo di ogni essere vivente) è prefigurata già la possibilità di un equilibrio per l’uomo (non un dominio della natura, ma un dominio del rapporto tra natura e umanità), allora è proprio basandosi su una radicale rifondazione dell’antropologia che Walter Benjamin prefigura la possibilità di una rivoluzione politica. L’infanzia è letta come il primo svelamento di quello spazio di gioco, che permette l’avvento della seconda tecnica. Uno spazio di gioco che è terreno fertile per la sperimentazione, per l’instancabile variazione: qui sembra riemergere la possibilità di un’unicità per l’opera d’arte ormai priva della sua aura.

Tuttavia è proprio in questo spazio di gioco che si infiltra inesorabilmente il capitalismo. Dietro la presunta rinascita di esperienze auratiche che esso promette, si nasconde nient’altro che il ritorno dell’uguale. «Il vero significato della nouveauté è che non c’è nulla di veramente nuovo», tuona Benjamin nel suo immenso

Passagen-werk5. Acquisire abitudini (attraverso la ripetizione) è indispensabile per poter imparare ad abitare il mondo, e le abitudini rischiano di diventare per l’uomo una prigione maligna e noiosa:

5. «But the newness for which he was on the lookout all his life consists in nothing other than this phantasmagoria of what is ‘always the same’» (W. Benjamin, The arcades project, Harvard University Press, Cambridge 1999, p. 22)

57 di qui quel legittimo desiderio di novità, che in apparenza sembra contrastare con il paradigma della ripetizione. Ma ecco che persino la ricerca affannosa del nuovo si tramuta in vacua ripetizione: ed è questo uno dei tratti caratteristici di una società capitalistica, che rende cronica l’infanzia, sfruttando quella capacità infantile dell’uomo di ripetere per potersi riabituare ogni volta con poco. Tornando brevemente sulla dicotomia tra sacro e gioco: Benjamin precisa che, nonostante il gioco si origini nel sacro, il campo d’azione tra i due poli non sia affatto condiviso, bensì conteso. Il rapporto tra ripetizione ludica e sacra non è infatti pacifico: da un lato l’eterno ritorno mitico-religioso tende ad annullare l’innovazione che sorge dal gioco; dall’altro l’attività ludica si fonda su atti distruttivi del passato. Il giocattolo è una forma innovativa che fa a pezzi altri giochi, frantuma materiali per poterli ricomporre; in altre parole, il ludico prende le distanze da quella tradizione che invece il rito tenta di preservare. Proprio in questo rapporto di antagonismo tra due forme di ripetizione, e quindi tra due posture differenti del nostro relazionarci col mondo, andrebbe ad inserirsi la tirannia del capitalismo. Tra l’altare e lo scivolo, si fa strada la merce, imponendo una ripetizione vuota e mistificatoria, che simula esperienze al fine di esorcizzare la povertà che contraddistingue l’uomo moderno. L’attuale sistema produttivo si impadronisce pertanto sia del campo d’azione del gioco sia di quello del sacro: da un lato fa proprio lo spazio antropologico della festa (la domenica, il Natale) e dall’altro mette al lavoro l’instancabilità del bambino che non vuole mai smettere di giocare. “Quella della merce è un’epoca di lavoro incessante

e febbrile: ripete come il sacro ma senza i suoi interstizi; si affanna con stile infantile privo però di possibilità di trasformazione” 6. Così il sistema capitalistico finisce per annichilire le forme reiterative tradizionali e, in generale, molte delle abitudini dell’uomo. E in questo scenario la struttura logica del gioco torna ad essere centrale e liberatoria, perché incoraggia una costruzione a partire da frammenti, perché è

6. M. Mazzeo, Benjamin, Il gioco che rovescia il passato, il Manifesto, 10 marzo 2018

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paradigma del ripetere cambiando, del cavarsela con poco. Insegna a costruire il nuovo attraverso una ripetizione del vecchio, perché la novità non implica necessariamente l’abbandono del già noto. Imparare a giocare diventa allora una forma di tutela di quel tratto antropologico che viene sfruttato, annichilito e messo a valore a nostra insaputa. Il merito di Benjamin è di aver compreso la relazione che stringe la ripetizione del gesto infantile alla serialità della

riproduzione contemporanea; di aver individuato la riconfigurazione fondamentale dello sfruttamento capitalistico proprio in quella tensione tra assenza di solide abitudini e capacità umana di ri- acquisirle di volta in volta; infine, di aver contribuito a smascherare il carattere mitico e fantasmagorico-spettacolare della modernità capitalistica.

Il capitalismo è esso stesso un fenomeno religioso cultuale, perchè ha un comportamento reiterativo mitico. E la chiave sta nel potere del

gioco di disinnescare il sacro, e dunque il capitalismo. L’attività ludica

si configura come profanazione, nel senso che a questo termine dà Giorgio Agamben7. Il gioco libera e distoglie l’umanità dalla sfera del sacro, ma senza semplicemente abolirla: l’uso a cui il sacro è restituito è un uso speciale, che non coincide con il consumo utilitaristico. Un bambino, che gioca con qualsiasi anticaglia gli capiti, trasforma in giocattolo anche ciò che appartiene alla sfera di altre attività considerate serie8. Il gioco infantile ha allora un effetto liberatorio, che Benjamin ravvisa niente meno che nel ‘principio ripetizione’. Benjamin riesce nel tentativo ambizioso di instaurare un rapporto virtuoso tra ripetizione e novità. Nelle parole di Marina Montanelli:

7. La profanazione implica una neutralizzazione: una volta profanato, ciò che era indisponibile e separato perde la sua aura e viene restituito all’uso. (G. Agamben, Profanazioni, Edizione Nottetempo, Roma 2005)

8. «Lo stesso fa un gatto che gioca con un gomitolo come se fosse un topo: grazie alla sostituzione del gomitolo al topo (o del giocattolo all’oggetto sacro), essi sono disattivati e, in questo modo, aperti a un nuovo, possibile uso. Il gatto libera un suo comportamento genetico in una sfera determinata (l’attività predatoria, la caccia). Il comportamento così liberato riproduce e mima ancora le forme dell’attività da cui si è emancipato, ma, svuotandole del loro senso e della relazione obbligata a un fine, le apre e dispone a un nuovo uso. Il gioco col gomitolo è la liberazione del topo dal suo essere preda e dell’attività predatoria dal suo necessario essere rivolta alla cattura e alla morte del topo».

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«Il gioco sospende la ripetizione rituale dell’identico rovesciandola in ripresa costruttiva: non reitera il ciclo né finge una linearità progressiva, piuttosto procede orizzontalmente per serie di combinazioni, per salti e contrazioni in cui il nuovo emerge dalla “manomissione” continua e gioiosa del vecchio»

(M. Montanelli, Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, Edizioni Mimesis, Milano 2017, p. 91) In questo scenario il nuovo è ancora possibile, proprio in virtù di una possibile ripetizione. Ma non può esistere ripetizione senza memoria. Benjamin auspica ad una nuova etica della ripetizione, che ci abitui a captare le «energie rivoluzionarie» nascoste nelle «cose invecchiate»9. Solo così sarà possibile sganciarsi dalla fantasmagoria capitalistica.

9. S. Marchesoni, La ripetizione come spazio di gioco, Dinamo press, 8 luglio 2018.

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BENJAMIN Bibliografia

G. Agamben, Profanazioni, Edizione Nottetempo, Roma 2005 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Giulio Einaudi Editore, Torino 1995

W. Benjamin, Antichi giocattoli, in Figure dell’infanzia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012

W. Benjamin, Giocattolo e gioco. Osservazioni a margine di un’opera monumentale, in Critiche e recensioni. Tra avanguardie e letteratura di

consumo, Giulio Einaudi Editore, Torino 1979.

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Arte e

società di massa. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1991.

W. Benjamin, The arcades project, Harvard University Press, Cambridge 1999.

M. Mazzeo, Benjamin, Il gioco che rovescia il passato, il Manifesto, 10 marzo 2018.

S. Marchesoni, La ripetizione come spazio di gioco, Dinamo press, 8 luglio 2018.

M. Montanelli, Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, Edizioni Mimesis, Milano 2017.

M. Montanelli, Repetita: rito versus gioco, in Tecniche di esposizione.

Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte, a cura di Marina

Montanelli e Massimo Palma, Quodlibet Studio, Macerata 2016, pp. 37-57.

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