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Si è già parlato, in uno dei capitoli precedenti, di come le sfere del gioco e del sacro siano strettamente interconnesse. Esse instaurano un rapporto diametralmente opposto nei confronti del calendario: da un lato il sacro, con la ciclicità dei suoi riti, scandisce, fissa e struttura il tempo, assicurandone stabilità; dall’altro il gioco altera e distrugge il calendario, trasformando il tempo in un’eterno presente, come succede in Pinocchio nel paese dei balocchi, dove le ore, i giorni, le settimane, «passano come tanti baleni»1. Il giocattolo è pertanto un oggetto ambiguo e difficile da definire, proprio in virtù della sua capacità di resistere al tempo: in molti casi un oggetto, che un tempo aveva una sua utilità, diventa giocattolo solo perchè finisce nelle mani di un bambino. Quello che rende tale un giocattolo è cioè l’uso che il giocatore ne fa, a prescindere dalla sua originaria destinazione. Huizinga e Caillois dimostrano che la trottola, la palla e la bambola sono i retaggi di antichi cerimoniali del mondo greco o delle antiche civiltà americane, presso le quali la palla rappresentava il sole, per il dominio del quale veniva contesa durante cerimonie religiose. La trottola veniva usata per pratiche divinatorie e la bambola era connessa in origine a riti rivolti alla madre terra e alla fertilità. Il giocattolo non è altro che la cristallizzazione di processi culturali, storici e sociali: un residuo, come lo definisce Caillois. I giocattoli vengono creati e modificati di pari passo con lo sviluppo della società e della cultura di appartenenza. C’è un legame biunivoco tra il giocattolo e la società: quest’ultima veicola i suoi valori attraverso il giocattolo, che a sua volta diventa manifestazione tangibile della società.

«Tutto scade nel gioco», afferma Caillois, e questo scadere degli oggetti dal mondo adulto a quello infantile è una modalità possibile per

1. G. Agamben, Infanzia e Storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Giulio Einaudi editore, Torino 2001, pag. 69.

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tramandare il passato. Uno dei processi di trasformazione di oggetti in giocattoli è la miniaturizzazione, che strappa un articolo alla vita quotidiana o lavorativa, riducendolo e semplificandolo in oggetto di gioco. Il giocattolo come miniaturizzazione stimola l’imitazione nel bambino, ne agevola la comprensione della società e della cultura a cui appartiene. L’appropriazione e la trasformazione in gioco, compiuta attraverso la miniaturizzazione, trasforma di colpo un’automobile, una pistola, una cucina in giocattolo. Nel suo saggio Infanzia e Storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Giorgio Agamben coglie il carattere essenziale del giocattolo in questa dimensione temporale di un oggetto che è stato qualcosa, ma che ora non lo è più: tutto ciò che è vecchio, indipendentemente dalla sua origine sacrale, è suscettibile di diventare giocattolo. I bambini giocano con qualunque anticaglia capiti loro tra le mani, svuotandola del suo significato originario: questa dimensione temporale di un «una volta» e «ora non più» viene però intesa dal filosofo romano sia in senso diacronico che sincronico. Se il giocattolo è ciò che apparteneva

una volta alla sfera del sacro e ora non più, la conclusione cui si giunge

è che esso sia da considerarsi come pura essenza storica o, meglio, come «Storico allo stato puro»2, perché in nessun luogo, come in un giocattolo, si potrà cogliere «la temporalità della storia nel suo puro valore differenziale e qualitativo»: non in un monumento, né in un oggetto d’antiquario, né in un documento d’archivio. Mentre, infatti, il valore e il significato di oggetti antichi o di documenti storici è funzione della loro antichità, cioè del loro presentificare e rendere tangibile un passato, il giocattolo al contrario non trae valore da quel passato, ma lo smembra e ci gioca. A sopravvive nel giocattolo non è tanto il passato, quanto la temporalità umana in sé.

«Ciò che il giocattolo conserva del suo modello sacrale o economico, ciò che di questo sopravvive dopo lo smembramento o la miniaturizzazione, non è altro che la temporalità umana che vi era contenuta, la sua pura essenza storica. Il giocattolo è una materializzazione della storicità contenuta negli oggetti. […] Il giocattolo, smembrando e 2. Ibid. p. 74.

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travisando il passato, ovvero miniaturizzando il presente - giocando, cioè, tanto sulla diacronia che sulla sincronia - presentifica e rende tangibile la temporalità umana in sé, il puro scarto differenziale fra l’un tempo e l’ora non più».

(G. Agamben, Infanzia e Storia. Il paese dei balocchi.

Riflessioni sulla storia e sul gioco, p. 74-5)

Indubbiamente Agamben deve molto alle riflessioni di Lévi-Strauss che, quindici anni prima, stabilisce un’analogia tra il giocattolo e il bricolage: entrambi infatti si servono di «briciole» o di «pezzi» appartenenti ad altri insiemi strutturali; entrambi trasformano antichi significati in significanti e viceversa. In particolare, in un passo della Pensée Sauvage3, Lévi-Strauss condensa in un’affermazione esemplare i processi di trasformazione che rispettivamente

innescano il gioco e il sacro: «Mentre il rito trasforma degli eventi in strutture, il gioco trasforma delle strutture in eventi». Il mito compone la contraddizione fra passato mitico e presente, annullando l’intervallo che li separa e «riassorbendo tutti gli eventi nella struttura sincronica». Il gioco offre invece un’operazione simmetrica e opposta: esso tende a spezzare la connessione fra passato e presente e a risolvere e sbriciolare tutta la struttura in eventi. Se il rito è, cioè, una macchina per trasformare diacronia in sincronia, il gioco è, all’opposto, una macchina per trasformare sincronia in diacronia. Ma Agamben precisa che in entrambi i casi la trasformazione non è mai completa: ogni gioco contiene una parte di rito e ogni rito una parte di gioco. Del resto anche Huizinga ha potuto facilmente trovare esempi di come i comportamenti rituali tradiscano spesso una consapevolezza di «finzione» che ricorda la coscienza che il giocatore

Sincr onia Sincr onia Sincr onia Storia Diacr onia Evento Struttura Rito Gioco a b c Diacronia n Diacronia

Mentre il rito tras- forma degli eventi in strutture, il gioco trasforma delle strut- ture in eventi

3. C. Lévi-Strauss, La Pensée Sauvage, Paris 1962, pp. 44-47

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ha di giocare. L’uno non prevale mai del tutto sull’altro, sussiste sempre uno scarto differenziale fra diacronia e sincronia.

C’è allora una correlazione strutturale fra rito e gioco, nel senso che entrambe sono macchine che trasformano due categorie opposte, ma secondo uno stesso sistema. E ciò che risulta alla fine, ciò che il sistema - la società umana - produce è, in ogni caso, uno scarto differenziale fra diacronia e sincronia, è storia, cioè tempo umano. Un frammento di Eraclito rappresenta come un «bambino che gioca con i dadi» il concetto di Aión, ovvero il tempo nel suo carattere originario. Al contrario chrónos indica in greco una durata oggettiva, una quantità misurabile e continua nel tempo. In un passo del Timeo Platone presenta il rapporto fra chrónos e aión come rapporto di copia e modello, di tempo ciclico misurato dal movimento degli astri contro la temporalità immobile e sincronica. Aión, da un lato, è l’eternità;

chrónos, dall’altro, è il tempo diacronico. Ciò che Eraclito raffigura

come gioco è allora proprio l’essenza temporalizzante del vivente. L’oggetto della storia non è la diacronia (cioè una pura successione di eventi), ma l’opposizione fra diacronia e sincronia che caratterizza ogni società umana. L’evento puro (diacronia assoluta) e la pura struttura (sincronia assoluta) non esistono: ogni evento storico rappresenta uno scarto differenziale fra l’una e l’altra. Il divenire storico non può essere un asse diacronico, in cui i punti identificano gli istanti in cui sincronia e diacronia coincidono; è piuttosto una curva iperbolica che esprime una serie di scarti differenziali fra sincronia e diacronia. La storia è un «gioco» fra diacronia e sincronia. E il giocattolo è la rappresentazione di un puro intervallo temporale: è un significante dell’assoluta diacronia, dell’avvenuta trasformazione di una struttura in evento.

Sincr onia Sincr onia Sincr onia Storia Diacr onia Evento Struttura Rito Gioco a b c Diacronia n Diacronia

Il divenire storico non è un asse diacronico, in cui i punti identifi- cano gli istanti in cui sincronia e diacronia coincidono

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L’abilità del gioco di trasformare una struttura in evento potrebbe essere intesa, in altre parole, come una profanazione. La profanazione, di per sé, è infatti una restituzione all’uso di un oggetto (non necessariamente sacro). A differenza della secolarizzazione, forma di rimozione che si limita a spostare una stessa forza da un luogo all’altro (dislocando, ad esempio, la monarchia celeste in monarchia terrena, ma lasciandone intatto il potere), la profanazione implica, al contrario, una neutralizzazione di ciò che profana. Una volta profanato, quanto prima che era inaccessibile e separato finisce per smarrire l’aura e viene restituito all’uso. Sia la secolarizzazione che la profanazione sono operazioni politiche, ma da un lato la prima garantisce un potere riportandolo a un modello sacro, dall’altro la seconda disattiva i dispositivi di potere e restituisce all’uso comune quegli spazi che esso aveva confiscato.

Nel saggio Profanazioni (2005) Agamben denuncia tuttavia: «il gioco come organo della profanazione è ovunque in decadenza»4. L’uomo moderno non sa più giocare è ne è la riprova il moltiplicarsi vertiginoso, nella nostra epoca, di nuovi e vecchi giochi: in

televisione ogni sera i quiz show di massa sembrano rievocare delle liturgie sacrali, secolarizzano un’intenzione inconsapevolmente religiosa. E questo perchè il comportamento del capitalismo stesso è essenzialmente una religione cultuale. Il gioco sembra oggi aver perso la capacità di allontanarsi dal sacro, e ai suoi riti sembra volersi

Sincr onia Sincr onia Sincr onia Storia Diacr onia Evento Struttura Rito Gioco a b c Diacronia n Diacronia Il divenire storico è una curva iperbolica che esprime una se- rie di scarti differen- ziali fra diacronia e sincronia.

4. G. Agamben, Profanazioni, Edizione Nottetempo, Roma 2005.

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riavvicinare. Compito della politica deve essere pertanto quello di restituire il gioco alla sua vocazione puramente profana. Ed è convinzione del filosofo che, nell’uso riattivato dalla profanazione giocosa, posso celarsi la promessa di una nuova felicità per l’uomo contemporaneo.

«Come la religio non più osservata, ma giocata, apre la porta dell’uso, così le potenze dell’economia, del diritto e della politica, disattivate in gioco, diventano la porta di una nuova felicità».

(G. Agamben, Profanazioni, Edizione Nottetempo, Roma 2005) La spettacolarizzazione in atto oggi nelle società capitalistiche avanzate sembra dividere ogni attività umana da se stessa, trasformandola in una mera rappresentazione di sé. E questo processo investe la società tutta, indifferente alla contrapposizione tra profano e sacro o tra umano e divino. La separazione scinde ogni oggetto tra il suo valore d’uso e il suo valore di scambio, snaturandolo e trasformandolo in un feticcio inafferrabile, continuamente riferibile alla sfera del consumo, dove qualsiasi valore viene ridotto alla misura degli altri. «Spettacolo e consumo sono due facce di un’unica impossibilità di usare»5: tutto ciò che non può essere usato viene consegnato al consumo e all’esibizione spettacolare. Ma se profanare significa restituire all’uso comune ciò che era stato separato nella sfera del sacro, allora oggi ci troviamo di fronte alla minaccia di un’impossibilità della profanazione: questo l’obiettivo della religione capitalista.

Agamben individua nel museo il luogo topico di questa nostra

impossibilità di usare: museo inteso non tanto come uno spazio fisico,

quanto come una dimensione distaccata in cui va a finire ciò che un tempo era sentito vero da una società, e che ora non lo è più. Intere città rischiano di trasformarsi in musei a cielo aperto, come nel caso di Venezia6, la cui popolazione invecchia sempre di più, di fronte ad un turismo spropositato che condanna la città ad essere non più

5. Ibid.

6. Cfr. S. Settis, Se Venezia Muore, Einaudi 2014.

105 abitata o vissuta, ma semplicemente visitata, con le conseguenze disastrose che ciò comporta per la sopravvivenza della città stessa. Anche in questo caso, la città-museo è indice di una impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza.

La profanazione esiste anche in natura: Agamben cita l’esempio del gatto che gioca con un gomitolo come se fosse un topo. L’animale in questo caso usa consapevolmente a vuoto i comportamenti tipici dell’attività predatoria: questa attitudine, necessariamente connessa alla natura del gatto, non viene cancellata, ma viene disattivata grazie alla sostituzione del topo con il gomitolo. In questo modo lo spirito di caccia viene aperto ad un nuovo possibile uso: un comportamento naturale del gatto viene liberato in altre forme, mimate e riprodotte, svuotate del loro senso. E il risultato è un’emancipazione dell’animale dall’attività di caccia, oltre alla liberazione del topo dal suo essere preda. L’attività che ne risulta rimane un mezzo puro, emancipato dalla relazione col suo fine: lo scopo della caccia viene gioiosamente dimenticato attraverso la disattivazione del vecchio uso. Ma il sogno capitalistica della produzione dell’improfanabile punta evidentemente all’annullamento del mezzo puro, come è evidente nel caso della

Un nudo di Auguste Belloc, 1856-60.

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pornografia. Agli esordi della fotografia erotica, le modelle ostentavano infatti l’espressione romantica e sognante di chi è stato sorpreso dall’obiettivo nell’intimità del proprio boudoir. Ne sono esempio i nudi di Braquehais, di Camille d’Olivier o di Auguste Belloc.

Tuttavia, di pari passo con l’assolutizzazione capitalistica della merce e del valore di scambio, l’espressione delle modelle si trasforma: esse guardano risolutamente nell’obiettivo, mostrando di interessarsi allo spettatore al di là dell’obiettivo, ostentando la consapevolezza di essere mediate come immagini. Il visionario Waltern Benjamin, che già nel 1935 conia il concetto di “valore di esposizione”, si esprime così nel suo saggio su Eduard Fuchs: «Quel che in queste immagini funge da stimolo sessuale, non è tanto la vista della nudità, quanto l’idea dell’esibizione del corpo nudo davanti all’obiettivo»1. Ma il volto di una donna che si sente guardata diventa comunemente inespressivo perchè la consapevolezza di essere esposta allo sguardo annulla i processi espressivi che solitamente animano il volto. Per questo il dispositivo della pornografia spinge le professioniste dell’esposizione ad acquisire una sfrontata indifferenza: ad imparare a dare a vedere null’altro che un dare a vedere. Per poter neutralizzare il potenziale profanatorio che altrimenti recherebbe con sé la nullificazione dell’espressività del volto umano, il quale non conosce nudità, perchè è sempre già nudo. La pornografia punta ad annichilire la capacità umana di far girare a vuoto i comportamenti erotici, di profanarli, distaccandoli dal loro fine immediato. Essa sostituisce alla promessa di un nuovo uso collettivo della sessualità, il consumo solitario e disperato dell’immagine pornografica. Un dispositivo che Agamben definisce infame sia politicamente che moralmente, perché impedisce lo sviluppo di nuove possibilità d’uso, di nuove profanazioni.

«L’improfanabile della pornografia – ogni improfanabile – si fonda sull’arresto e sulla distrazione di un’intenzione autenticamente profanatoria. Per questo occorre strappare ogni 7. Eduard Fuchs, Il collezionista e lo storico, da L’opera d’arte nell’epoca della sua ripro-

ducibilità tecnica (1936)

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volta ai dispositivi - a ogni dispositivo la possibilità di uso che essi hanno catturato. La profanazione dell’improfanabile è il compito politico della generazione che viene».

(G. Agamben, Profanazioni, Edizione Nottetempo, Roma 2005)

Bibliografia

G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Giulio Einaudi Editore, Torino 1995

G. Agamben, Infanzia e Storia. Distruzione dell’esperienza e origine della

storia, Giulio Einaudi editore, Torino 2001.

G. Agamben, Profanazioni, Edizione Nottetempo, Roma 2005. J. D’Alonzo, Agamben lettore di Benveniste, tra linguistica e filosofia, Rivista d’Italianistica e di letteratura contemporanea, n.3, 2018, pp. 137- 156.

C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1962), Il Saggiatore, Milano 2010 R. Nesti, Frontiere attuali del gioco. Per una lettura pedagogica, Edizioni Unicopli, Milano 2012.

Elenco delle illustrazioni

I diagrammi provengono dal capitolo Il Paese dei Balocchi. Riflessioni

sulla storia e sul gioco in G. Agamben, Infanzia e Storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Giulio Einaudi editore, Torino 2001,

pag. 69.

Auguste Belloc, Nude, 1856-1860. https://i.pinimg.com/originals/ cd/09/f4/cd09f44cc11cd59c59e5cb7cf9660e75.jpg

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