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Il filosofo tedesco Eugen Fink (1905-1975), allievo di Husserl e di

Heidegger all’università di Friburgo, ha saputo dimostrare che il gioco

può essere un “oggetto possibile e degno della filosofia”1. Ha cercato, nelle sue trattazioni, di aprire uno spazio in cui il pensiero potesse accogliere il gioco non tanto come un “oggetto”, quanto come sua dimensione fondamentale e originaria. Il gioco non è un fenomeno a margine della vita, né va considerato come un’evasione da essa: non è una tra tante attività umane, ma è piuttosto una modalità che le attraversa tutte e che accompagna l’esistenza umana. Non giochiamo per un qualche scopo finale in grado di determinare la nostra esistenza di individui, ma semplicemente per una felicità di tipo immediato: per questo il gioco assume i caratteri di un’oasi

della gioia2. Ma se da un lato il gioco è un’oasi per l’uomo, dall’altro può arrivare a rappresentare il mondo in toto, esserne metafora in quanto frammento e non in quanto imitazione della realtà. Fink per questo decentra la ricerca ludica dall’ambito ristretto dell’infanzia verso una nozione cosmica, che mette in discussione la definizione stessa del reale. La comprensione del gioco in Fink è indirizzata alla comprensione della collocazione dell’uomo nel mondo.

Il gioco umano è un simbolo del mondo perché l’uomo è immediata apertura al mondo e perché «questa apertura dell’esistenza umana al mondo implica che l’uomo sa che la totalità attiva è senza ragione». Il mondo è senza fondo e insensato, proprio come un gioco: per questo siamo capaci di giocare, perchè siamo mondani.

1. Il primo capitolo del saggio Il Gioco come Simbolo del Mondo (Lerici, 1969) titola “Il gioco come problema filosofico. Il gioco come oggetto possibile e degno della filosofia”.

2. Un’altra trattazione fondamentale di Fink è il saggio Oasi della gioia. Il titolo originale.

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Il gioco è il campo anonimo dell’assenza in cui sono possibili l’apparire e lo sparire. Spazio neutro che precederebbe l’assenza e la presenza, precederebbe la differenza Apollo/Dioniso, la contrapposizione della Forza al Senso, precederebbe ogni determinazione del pensiero come filosofia. Bisogna comprendere la filosofia a partire dal Gioco, e non il contrario. Il Gioco è il Senza-Nome, luogo dell’apparizione e della sparizione della finitezza: finitezza dell’uomo e finitezza dell’essere.

(J.-M. Remy, introduzione a Il gioco come simbolo del mondo, Lerici 1969) Fink precisa che il Gioco del mondo non è il gioco di nessun individuo particolare, a differenza del gioco umano, perché tutto gli individui si trovano nel mondo. E queste considerazioni derivano dai suoi studi sulla teoria del linguaggio: l’uomo non è padrone del linguaggio, ma è piuttosto il linguaggio che si dispiega attraverso l’uomo. Di conseguenza il soggetto non avrà un posto privilegiato nell’essente per il semplice fatto che è lui che interroga. E la verità, la temporalità, il mondo non sono localizzati nell’uomo, ma è piuttosto l’uomo a trovare il suo “luogo” nel disvelamento della verità, del mondo e del tempo. Il pensiero del Gioco costituisce un decentramento necessario al pensiero per ritrovarsi al di là della propria alienazione: ci aiuta nel rifiutare quella concezione che vede l’uomo al centro, come padrone dell’essente, e secondo cui il mondo non sarebbe altro che la sua rappresentazione. Questo significa «restituire il pensiero alla inquietudine di sé, al giuoco, al rischio; perché l’uomo autentico, dice Zarathustra, desidera due cose, il Rischio e il Gioco»3.

L’avvicinamento di Fink al tema del gioco va ricercato originariamente nella lettura del celebre frammento n. 52 di Eraclito4, analizzato in precedenza anche da Nietzsche: qui il tempo viene dipinto come un bambino che gioca a dadi e, nelle parole di Fink, ad essere concepita come gioco d’essere del tempo sarebbe effettivamente «l’oscura connessione [...] dell’essere, che è in sé chiuso e tuttavia contemporaneamente diradato». Nietzsche si

3. J.-M. Remy, introduzione a Il gioco come simbolo del mondo, Lerici 1969

4. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano, Mondadori, Milano 1980, p. 25.

45 interroga instancabilmente sulla possibilità di un pensiero del mondo che possa abbandonare quella metafisica centrata unicamente attorno all’ente e, riprendendo l’immagine del pais paizon di Eraclito, la individua proprio nel gioco: un gioco che diventa così «concetto chiave dell’universo» e «metafora cosmica». Pertanto per Fink, che si forma sul pensiero di Nietzsche, l’uomo impara ad immergersi nel grande gioco del mondo a partire dal suo proprio gioco; impara ad aprirsi estaticamente ad un mondo che è pensato, esso stesso, come gioco.

Tuttavia da Platone in avanti, il paradigma metafisico occidentale gradualmente svilisce il profilo cosmico sia dell’uomo, sia del gioco: questi infatti intende il gioco come un’imitazione, come mimesis dagli effetti illusori, come uno specchio che produce immagini subordinate alla realtà, in un rapporto gerarchico di copia e modello. A questa immagine dello specchio Fink replica con la metafora della finestra, dal momento che il mondo del gioco, proprio come quello delle immagini, ha necessariamente un portatore reale. La finestra mina infatti quel dualismo gerarchico, garantendo la compresenza di due realtà: attraverso la sua superficie non è solo il reale a proiettarsi sul mondo riflesso, ma è anche il mondo riflesso ad aprirsi sugli eventi reali. E l’idea della finestra viene sviluppata in quella del quadro, inteso come oggetto reale, con una sua collocazione nel mondo reale, che tuttavia è in grado di rappresentare uno spazio irreale, di aprire una finestra sull’irrealtà. Il mondo dell’immagine si apre, attraverso una finestra, all’interno del mondo reale: questa la relazione tra gioco e reale che Fink tenta di costruire.

Prima di Nietzsche la relazione tra l’uomo e Dio sovrastava e annullava il rapporto più originario tra l’uomo e il mondo. Solo dopo la morte di Dio, secondo Fink, si può finalmente tornare a riconsiderare questo fondamentale rapporto e si apre per l’uomo la possibilità di raggiungere la dimensione che gli è più propria, quella di «un esistere estaticamente aperto al mondo»5.

5. B. Zavatta, Il mondo del gioco e il gioco del mondo in Friedrich Nietzsche, Isonomia. Rivista di Filosofia. 2002, p. 17.

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Il rapporto dell’esistenza umana con il mondo non è una cosa già conosciuta in partenza o già così esplorata, che possiamo in un certo qual modo applicare al gioco la distinzione fra uomo e mondo. È piuttosto il contrario. In una analisi del gioco acquisiremo forse quei mezzi concettuali necessari a comprendere all’origine la distinzione e l’affinità tra mondo e uomo.

(E. Fink, Il gioco come simbolo del mondo, p.15) Il gioco diviene così una metafora cosmica di tutto il comparire e scomparire delle cose, degli enti nello spazio-tempo del mondo. Esso viene definito simbolo del mondo perchè è in esso si imprime il rapporto dell’esistenza umana col mondo: un rapporto di senso verso qualcosa, quindi non una cosa o un avvenimento oggettivo, ma un gioco senza giocatore1. Il mondo è in sé senza scopo e non ha in sé neanche alcun valore e rimane al di fuori di qualsiasi valutazione morale: è al di là del bene e del male. Senza ragione e senza scopo, senza senso e senza meta, senza valore e senza piano. Ma Fink precisa che in realtà «in sé il mondo ha tutte le ragioni di tutti gli enti nel mondo, i quali hanno tutti un fondamento». Il suo ragionamento prosegue attorno all’opposizione tra la causalità della vita reale degli uomini e la non- causalità del mondo: la mancanza di senso del mondo si rifletterebbe così nell’unica attività priva di scopo a cui l’uomo si dedica per sua natura e che lo aiuta a spingersi lontano nella ricerca di una finalità umana.

La non-causalità del mondo non è meno, né ha meno valore della causalità dell’ente, è qualcosa di molto più originale. Il governo mondano dell’onnipotenza avviene senza ragione e senza meta, è inutile e privo di significato, di valore e di piano. Questi sono i caratteri fondamentali del mondo, che si riflettono nel gioco dell’uomo. […] I tratti del governo del mondo si riflettono nell’uomo e nel suo gioco, che acquista così significato di simbolo del mondo. Essendo però tutta l’attività umana determinata e cagionata da motivi dotati di senso, che la volontà umana si rappresenta, anche l’azione umana del “gioco” è inclusa nel fine complessivo dell’attività umana. Ma in un modo singolare e particolare. La mancanza di senso del mondo si riflette nella sfera, interna al mondo,

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del senso umano in modo tale che l’uomo all’interno della sua attività determinata dallo scopo si riserva, per così dire, uno spazio libero in cui è possibile un’attività senza motivazione agente, che spinge lontano nella ricerca di una finalità umana. Il gioco non è subordinato ad alcuno scopo che miri oltre se stesso; i suoi scopi li ha solo in sé, e nel complesso è inutile.

(E. Fink, Il gioco come simbolo del mondo, p.300) Il gioco umano è allora una realtà in cui, in mezzo alla causalità generale delle cose del mondo, appare, come simbolo del mondo governante, una finalità fine a se stessa. La comprensione umana assimila così i tratti dell’infondatezza, dell’insensatezza e dell’inutilità ed è portata a librarsi nella leggerezza spensierata e onirica del compimento ludico. Essendo aperti al mondo ed essendovi in tale apertura dell’esistenza umana al mondo una conoscenza dell’infondatezza del tutto governante, possiamo, in fondo, giocare. Essendo “umano”, l’uomo è un giocatore.

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