• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 2 Cibo sostenibile

2.7 Alcune critiche

Come si è visto, sono molteplici le tipologie di prodotti alimentari che possono essere visti contribuire alla sostenibilità ambientale di un servizio di ristorazione scolastica. Il dibattito in materia è tuttavia ancora aperto e tali tipologie di prodotti non sono esenti da critiche.

Con riferimento ai prodotti biologici, il Professor Silvio Franco, del Dipartimento di Economia e Impresa dell’Università della Tuscia, sostiene che i benefici derivanti dal mancato utilizzo dei prodotti di sintesi possono essere ridotti o annullati dal maggiore inquinamento atmosferico derivante da un più intenso uso dei mezzi meccanici necessari alla rimozione delle erbe infestanti e quindi, in generale, dalla maggiore energia richiesta per tonnellata di prodotto, poiché le rese sono più basse.

Oltre a questo, dal Rapporto tecnico della Commissione Europea a cura del Dott. Belmira Neto et al.37, si evince che i prodotti biologici potrebbero avere addirittura potenziali di eutrofizzazione ed acidificazione più ampi se comparati con i prodotti convenzionali (in particolare per quanto riguarda l’allevamento degli animali, a causa delle emissioni di metano derivanti dallo stallatico e di un uso più estensivo della terra). La ragione per la quale il biologico potrebbe avere impatti ambientali ed economici più elevati rispetto al prodotto convenzionale risiede nella necessità del primo di maggiori risorse (ad es. più terra per le colture essendo i rendimenti più bassi ed una maggiore quantità di mangimi per gli animali perché vivono più a lungo).

Al di là di queste ragionevoli osservazioni, siamo costretti purtroppo a concludere che non esistono al momento sufficienti evidenze scientifiche che facciano pensare ad un più basso impatto ambientale dei prodotti biologici rispetto a quelli convenzionali.

Contribuiscono in negativo anche le lunghe distanze che i prodotti biologici percorrono per arrivare al consumatore38. “Maggiore consumo energetico,

37 Belmira Neto et al. (2016), Revision of the EU Green Public Procurement Criteria for Food

and Catering Services, JRC Technical report for the 1st AHWG meeting, European

Commission.

38 Secondo l’autore una quota molto limitata - intorno al 20% - dei consumi energetici viene associata all’ottenimento degli alimenti nella fase di produzione agricola, mentre la quota rimanente risulta impiegata per trasporti e trasformazione.

96

elevato impatto ambientale e peggioramento della qualità della vita, imputabile agli effetti della movimentazione su gomma delle merci (congestionamento del traffico, incidenti, inquinamento acustico), rappresentano delle conseguenze del trasporto degli alimenti che confliggono con i fondamentali etici su cui sono basati i principi dell’agricoltura biologica”39. Ovviamente, oltre alla distanza, altri elementi contribuiscono a determinare l’entità di tale impatto, come ad esempio la via seguita per il trasporto (mare, terra, aria) e le caratteristiche del mezzo di trasporto, con riferimento ai suoi consumi energetici e alle capacità di carico. Deve inoltre esser tenuto in considerazione il fatto che anche il maggiore contenuto di componenti nutritivi dei prodotti biologici può essere notevolmente ridotto a causa dei lunghi periodi di conservazione, dei trasporti e della raccolta prima della completa maturazione.

La domanda di prodotti biologici da parte dei consumatori e della ristorazione collettiva, in assenza di una produzione locale e di filiere ad essa orientate, comporta quindi il consumo di prodotti sì biologici ma con un’elevata impronta ecologica e sradicati dai territori. Tale domanda, di conseguenza, quando non si collega a una dimensione locale della produzione perde quindi molti dei vantaggi derivanti dalle modalità produttive e non risulta in grado di apportare i benefici per le economie locali e le aree rurali svantaggiate, tendendo invece a privilegiare forme di concentrazione produttiva delocalizzate.

A questo proposito risulta significativa la proposta della Soil Association, l’Associazione britannica del biologico più antica e rappresentativa, di negare il marchio biologico ai prodotti che, anche se certificati come provenienti da agricoltura biologica, vengono trasportati per via aerea (tale proposta va ad inserirsi in un contesto, quello inglese, nel quale agli inizi del nuovo millennio circa il 75% del mercato dei prodotti biologici dipendeva dalle importazioni). Fu di fatto il primo atto ufficiale, anche se successivamente rientrato, nel quale venne riconosciuto un legame diretto fra la “biologicità” di un prodotto e la sua modalità di distribuzione.

Tuttavia, sebbene il dibattito in merito sia ancora aperto, l’evidenza di un maggiore impatto ambientale in funzione della distanza di provenienza non ha trovato riscontro in casi concreti. Alcuni studi hanno evidenziato, invece, che, sebbene il cibo sia trasportato per lunghe distanze, prevalgono le emissioni di gas serra nella fase di produzione.

39 Franco S. (2007), Agricoltura biologica e “food miles”: la crisi di un matrimonio di interesse. Agriregionieuropa, Anno 3, n°10, Set 2007.

97

Negli ultimi anni i consumatori privati, singoli o associati, così come le Amministrazioni comunali sembrano infatti aver preso coscienza delle possibili contraddizioni di tale settore, tendendo così a privilegiare la dimensione locale dei prodotti, spesso associandola al metodo di produzione biologico.

Evidenze empiriche relative agli impatti ambientali delle filiere corte fornite dalla ricerca negli ultimi anni hanno evidenziato che tali impatti dipendono dalla specifica configurazione che le filiere vengono ad assumere nello specifico, dal modo in cui vengono costruite, dal contesto in cui operano, dal modo e dalla misura con cui si sviluppano in relazione agli attori coinvolti40. “Si consideri ad

esempio la prossimità geografica, già utilizzata in molte iniziative e proposte di legge come criterio discriminante (es. 70 km tra produttore e luogo di vendita): si calcola la distanza lineare oppure i km effettivi del viaggio? Si conta anche la distanza tra produzione e consumo degli input oppure questi si trascurano (nel caso delle produzioni zootecniche intensive che acquistano mangimi provenienti da oltre oceano questo può essere un aspetto importante)? Che messaggio trasmetterebbe un prodotto Ogm41 venduto attraverso la filiera corta?”42. Esistono inoltre argomentazioni più o meno attendibili sulla non

sempre veridicità del motto “km 0 = minor impatto ambientale”: i trasporti in nave su lunghe e lunghissime distanze possono, ad esempio, avere un impatto energetico per unità di prodotto molto inferiore a trasporti su gomma per distanze molto più brevi43 e, inoltre, l’uso di indicatori troppo semplificati come

le “food miles” (che calcolano la semplice distanza tra luogo di produzione e luogo di vendita) rischiano di trasmettere informazioni incomplete rispetto alla complessità dei fattori che determinano la sostenibilità.

40 E’ per questo motivo che la definizione normativa delle filiere corte rappresenta un aspetto centrale rispetto alla stima degli impatti.

41 Un “organismo geneticamente modificato” (ogm) è per definizione un essere vivente (batteri, piante o animali) nei quali è stata modificata, grazie a procedimenti di ingegneria genetica, una porzione di patrimonio genetico allo scopo di ottenere nuove caratteristiche, che non si sarebbero mai potute sviluppare spontaneamente in quella tipologia di organismo.

42 Brunori G., Bartolini F. (2013), La filiera corta: le opportunità offerte dalla nuova Pac, Agriregionieuropa, anno 9, n° 35.

43 I ricercatori del Department for Environment, Food and Rural Affairs (DEFRA) hanno sviluppato un modello che prende in considerazione numerosi parametri coinvolti (es. il rapporto tra km di strada percorsi per tonnellate di prodotto trasportato). Come prevedibile, i due parametri che sembrano avere un impatto decisivo sull’inquinamento sono i mezzi utilizzati per trasportare il prodotto e la distanza tra i punti di produzione e di consumo, per cui i km in nave sono preferibili a quelli in camion, che sono preferibili a quelli in aereo.

Secondo l’ADEME (Agenzia francese dell’ambiente e Energy management), inoltre, il trasporto su strada (camion) crea quattro volte più inquinamento rispetto al trasporto su rotaia e sei volte di più dei trasporti marittimi.

98

Spostando l’enfasi sul processo piuttosto che sul prodotto, considerando l’intera filiera in una prospettiva ecologica, possiamo renderci conto di come lo strumento migliore per la valutazione della sostenibilità dei prodotti sia la metodologia Life Cycle Assessment (LCA), la quale permette di ottenere una misurazione standard, e quindi confrontabile, degli impatti dei processi in termini di consumo di risorse e emissioni di gas serra per ogni step del processo produttivo fino allo smaltimento dei rifiuti. In termini di emissioni di gas a effetto serra, ad esempio, non sempre la filiera corta è preferibile in quanto possono entrare in gioco dei trade off tra le dimensioni della sostenibilità che solo un’analisi attenta come quella prevista dalla LCA può rendere evidente, dipendendo in primis dal prodotto stesso (la carne è generalmente meno sostenibile degli alimenti vegetali, per esempio), dal sistema di produzione, ecc. Così come sostiene in un suo articolo Kevin J. Morgan44 in un suo articolo, quindi, “(…) la sostenibilità non è necessariamente sinonimo di localizzazione

nel momento in cui si tratta di progettare sistemi alimentari sostenibili. Al contrario, un sistema alimentare sostenibile può in principio derivare da una combinazione di derrate alimentari di provenienza locale e globale, dando alla sostenibilità in tal modo un carattere spaziale, ibrido e cosmopolita”45.

Per concludere, appare interessante infine sottolineare che l’accostamento evidenziato nel testo della Legge finanziaria del 1999 e delle Leggi regionali che incoraggiano l’approvvigionamento sostenibile, tra prodotti biologici e prodotti a denominazione d’origine46, non è comunque sia, a giudizio di Galli F. e Brunori G.47 “da dare per scontato”. I due autori sostengono, infatti, che “le

ragioni alla base delle certificazioni bio sono sostanzialmente diverse da quelle che giustificano le certificazioni d’origine, queste ultime concepite piuttosto come uno strumento di marketing, utile a proteggere il nome del prodotto su mercati lontani dall’origine, almeno per i prodotti economicamente più

44 Professor of Governance and Development della Cardiff University.

45 K. Morgan (2010), Local and green, global and fair: the ethical foodscape and the politics of

care. Environment and Planning A 42 (8), pag. 1858.

Sull’argomento si vedano in particolare due esempi in tal senso istruttivi di riforma del sistema scolastico, avvenuti a Roma ed a Londra, perché illustrano che una politica di luogo è possibile nel caso in cui obblighi locali e globali non sono sovrapposti come alternative che si escludono a vicenda.

46 Questa considerazione può, del resto, essere estesa anche ai PAT.

47 Galli F., Brunori G. (2012), Verso una ristorazione scolastica italiana più sostenibile:

sustainable public procurement. Agriregionieuropa, anno 8, n. 29, pag. 3-4. Galli F. e Brunori G.

sono rispettivamente Assegnista di ricerca e Professore Ordinario presso il Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa.

99

importanti. Emerge quindi una potenziale contraddizione, da verificare caso per caso tra questi strumenti di certificazione, in particolare se si sostiene l’approvvigionamento sul mercato locale”.

2.8

Esiste un modello di “best practice” relativo al sistema di