• Non ci sono risultati.

Un negozio raffinato ed affermato

Teresa Massetti, proprietaria e direttrice di Myricae, negozio aperto nel 1989 a Roma in via Frattina, ed in seguito anche a Milano in via Montena- poleone. Nel 1957 ha aperto una succursale in via del Babuino. All’inizio il negozio comprendeva solo oggetti di artigianato italiano; in seguito è stata allargata la scelta degli oggetti, che ora vengono attinti da tutte le parti del mondo.

« Deploro che l’artigiano venga sempre considerato separatamente in sede artistica o in sede commerciale: solo quando si troverà una formula di congiuntura si potrà risolvere concretamente qualcosa.

Il rispetto per l’arte popolare, inteso come problema culturale, è una gran bella cosa, ma del tutto astratta. Gli artigiani italiani non sono considerati in maniera diversa dagli indiani che vivono nelle riserve e suscitano la curiosità dei turisti in cerca di sensazioni esotiche.

Quando io compro un ombrello del Casentino e lo metto in mostra nel mio ingresso in un portaombrelli, non faccio alcun bene all’artigiano che l'ha prodotto: sarà solo quando riuscirò a vendere almeno mille ombrelli in una stagione che potrò dire di aver giovato all’artigianato.

Si dovrebbe cercare di riunire insieme un gruppo di persone interessate concretamente e culturalmente al problema, le quali (al di fuori degli strumenti governativi) se ne occupassero seriamente.

Mi pare che la strada da percorrere potrebbe essere la seguente: a) cono­ scere quali e dove sono i residui di artigianato artistico oggi esistenti; ò) partire da queste sopravvivenze e vedere come non vadano disperse, e come soprattutto possano inserirsi nella vita di oggi. Per esempio, quando dico all’artigiano della cartapesta di Lecce di fare per i miei negozi salva­ danai e lampade invece che madonne e santi, mi rendo conto che mi intro­ duco come elemento perturbatore nella produzione tradizionale. Però, senza questa intromissione, probabilmente questi artigiani cesserebbero la loro attività ; ritengo quindi che sia meglio farli rivivere di una nuova vita piuttosto che lasciarli morire di morte naturale. E non mi sento molto responsabile in questo processo, perché l’arte popolare ha subito nel corso

dei secoli mutamenti inevitabili, dovuti ai contatti con i ceti cosidetti colti ; c) le modificazioni tendenti al reinserimento dell’artigianato nella vita dovrebbero tradurre i motivi popolari in maniera da essere apprezzati e utilizzati da persone appartenenti a ceti diversi. Ho suggerito a questo proposito al presidente dell’ENAPI di creare un marchio di garanzia e concedere agli artigiani di contrassegnare con esso i loro prodotti solo quando gli oggetti rispondano a tre tipi di validità: estetica, commerciale, pratica. E per validità pratica si intende che gli oggetti non devono pre­ sentare difetti che ne compromettano la funzionalità. I grandi complessi commerciali sarebbero invogliati da questo tipo di garanzia a richiedere in larga misura determinati prodotti.

Da qualche anno sono riuscita ad interessare artigiani di diverse regioni a modificare la loro produzione in modo da renderla più aderente al gusto del pubblico. L’artigiano non si indispone per il fatto di sentirsi proporre un diverso fine al proprio prodotto: in alcuni casi ne è addirittura entu­ siasta, ed è contento non solo per le nuove possibilità di guadagno, ma anche per il fatto di sentirsi meno escluso dalle correnti culturali attuali. Non deve trovarsi nella condizione di dover creare oggetti ” curiosi ” o diver­ tenti, ma oggetti belli e utili, alla pari di quelli che può produrre Ginori o qualsiasi grande industria. All’arte popolare bisognerebbe togliere quella patina di snobismo che la ricopre: diventare, per così dire, arte decorativa di massa.

Un esperimento utile potrebbe consistere nel mostrare ai ceti popo­ lari cittadini le possibilità di inserimento che ha oggi nelle nostre case l’artigianato popolare. Si potrebbe, ad esempio, allestire un arredamento dimostrativo nell’appartamento di un quartiere di edilizia sovvenzionata di recente costruzione, mettendo in evidenza i prezzi, la funzionalità e la reperibilità di determinati arredi» (1).

L’artigianato e la grande distribuzione al dettaglio

Il dr. G. Tibaldi, dirigente della RINASCENTE, ci chiarisce la politica seguita da una importante catena di grandi magazzini, quale la RINA­ SCENTE - UPIM, nell’impostare il problema della vendita del prodotto artigianale.

« Una grande azienda di commercio al dettaglio, che gestisca cioè grandi magazzini, magazzini a prezzo unico e supermercati, ha il compito di razionalizzare la distribuzione, riducendone i costi, migliorando gli assor­

ii ) U na esperienza di questo genere è stata di recente tentata in Francia. Se ne riferisce a pag. 76 del presente fascicolo.

timenti, adattando sempre maggiormente prodotti e servizi alle esigenze ed ai gusti dei consumatori.

Nei confronti del consumatore, la grande azienda di distribuzione svolge il suo compito ” direttivo ” essenzialmente attraverso un’opera di educazione dei gusti del pubblico e di preparazione di esso, intendendo per preparazione l’informazione sulla natura, la funzione, la qualità dei pro­ dotti, che consenta al consumatore di essere difeso da tutte le formule suggestive, che operano nella moderna vita mercantile, rendendolo idoneo a compiere delle libere e consapevoli scelte di acquisto.

Se infatti la scienza economica contemporanea ha svuotato di significato gli schemi astratti dell’economia classica, che vedevano uscire le situazioni di mercato dal meccanico gioco della domanda e dell’offerta, la moderna sociologia del mercato ha svuotato oggi un altro mito, quello del consu­ matore come protagonista ” sovrano ” della vita del mercato. Senza accettare la tesi opposta di un consumatore non sovrano, ma suddito passivo e condizionato, bisogna tuttavia riconoscere che nella realtà le situazioni di mercato vengono notevolmente influenzate dal comportamento dell’opera­ tore economico. Le politiche del prodotto, dei prezzi e della pubblicità sono gli strumenti che gli imprenditori hanno in mano per condizionare il com­ portamento del consumatore. Questi strumenti possono essere non neces­ sariamente cattivi, così come il loro modo di applicarli può essere non necessariamente buono.

Per questo si può ben inserire tra le funzioni naturali della grande azienda di distribuzione quella di una tutela attiva del consumatore, una tutela realizzata non soltanto svolgendo una politica di prezzi ridotti, ma anche e soprattutto curando l’educazione dei gusti e combattendo la battaglia per la qualità del prodotto.

Mentre quest’ultimo obiettivo della qualità viene realizzato attraverso la politica delle ” marche private ” ed attraverso una sempre più rigorosa ed efficiente azione di controllo sui prodotti fom iti e sulle aziende di pro­ duzione, da attuarsi mediante centri tecnici e laboratori particolarmente attrezzati, l’obiettivo invece dell’educazione dei gusti deve essere realizzato attraverso azioni che genericamente si potrebero chiamare promozionali e che specificamente potrebbero essere identificate in tutti quei tentativi fatti per avvicinare la massa dei consumatori a stili ed a tendenze estetiche sempre più colti.

Far conoscere al pubblico l’artigianato tipico delle regioni italiane e dei paesi del mondo rappresenta uno dei mezzi fondamentali per attuare il tipo di azione che è stato sopra indicato. Il prodotto artigianale infatti, se non è inteso come un aspetto primitivo ed inferiore di un prodotto industriale che adeguatamente lo sostituisca, ma se al contrario è inteso come un prodotto che per qualità strutturali e formali possiede una caratte­ 64

ristica estetica e funzionale assolutamente propria ed insostituibile dal prodotto industriale, può costituire uno strumento validissimo di educa­ zione del gusto del pubblico, oltreché di soddisfazione o di stimolo di certe esigenze psico-economiche del consumatore.

Il potersi riallacciare con un prodotto capace di svolgere una funzione pratica attuale alla tradizione stilistica e sociologica di una regione o di un paese, è un fattore che rende possibile portare il gusto del pubblico di un grande magazzino ad un livello culturale che non sarebbe raggiun­ gibile mediante Pofferta di assortimenti composti esclusivamente da prodotti industriali. Infatti il contenuto culturale ed umano del prodotto artigiano concorre a definire quelle caratteristiche insostituibili del prodotto stesso. E infatti, per esperienza diretta, sappiamo che nel prodotto, come nel rapporto mercantile, sono racchiusi non soltanto significati economici, ma significati di comunicazione e psicologici che la sociologia contemporanea cerca oggi di definire.

Evidentemente quanto è stato detto presuppone l’esistenza o la possibilità di esistenza di un artigianato vivo, cioè di un artigianato che non si limiti a ripetere più o meno pedissequamente la tradizione, ma che sia anche e soprattutto impegnato a continuare, attualizzare, vitalizzare la tradizione. E anche in quest’opera, il grande magazzino può svolgere un compito preminente o forse unico.

Anche la produzione infatti artigianale, più forse di quella stessa indu­ striale, rendono necessaria una comunicazione, un processo di informazione continui tra il produttore ed il mercato. Il grande magazzino è in grado di costruire e rendere efficiente questo ponte tra il mercato e l’artigiano, facendosi interprete o anticipando le esigenze ed i gusti del pubblico e traducendo per l’artigiano esigenze e gusti in termini di tecnica e di stile.

Queste considerazioni spiegano un poco i motivi dell’azione promozionale che la RINASCENTE - UPIM ha svolto negli ultimi anni con le mostre della produzione tipica di paesi come il Giappone, l’Inghilterra, l’America, l’India ed il Messico, con la più recente mostra del Mediterraneo. Spie­ gano altresì l’interesse della RINASCENTE - UPIM verso la produzione artigianale delle regioni sottosviluppate italiane. Per queste regioni, il problema di mercato si trasforma in problema più ampiamente sociologico.

Lo sviluppo delle regioni arretrate italiane oggi per molti si identifica nell’industrializzazione. Questa fiducia nell’industria, come esclusivo fattore dinamico dello sviluppo economico e sociale della regione, non è sempre giustamente motivata e ben riposta.

Lo sfruttamento delle risorse naturali, intendendo per risorse naturali anche quelle umane ed in particolare le tradizionali abilità artigiane, non solo costituisce un dovere morale nei confronti di una popolazione, ma

rappresenta, sul piano scientifico, la prima via da tentare, per ottenere uno sviluppo socio-economico di una regione.

Questa via infatti garantisce un processo più graduale e più naturale dello sviluppo, perché evita i rischi della frustrazione e del trauma psico­ logico che possono essere portati dall’industria in regioni a struttura sociale ed economica ancora primitiva ed infine prepara gradualmente per il domani la formazione di nuove capacità professionali, che potranno essere proficuamente utilizzate dall’industria. La tessitrice che vede oggi non frustrata la sua naturale abilità artigiana può essere preparata per diven­ tare l’operaia specializzata dell’industria tessile futura, così come il vasaio, debitamente educato, aiutato, potrà facilmente e senza sforzo, trasformarsi nel tecnico qualificato di un’industria ceramica.

Evidentemente la strada non è breve, come tutte le strade giuste ».

Le mostre occasionali di un grande magazzino

Dr. Angelo Gandini, organizzatore delle mostre di artigianato dei magaz­ zini MAS di Roma.

« Le mostre che noi organizziamo sono fatte solo per un’azione di prestigio, non certo per guadagno. Tanto per fare un esempio, quando abbiamo orga­ nizzato la mostra dell’artigianato siciliano, abbiamo dovuto inviare per venti giorni in Sicilia due persone specializzate nel campo vendite. Orga­ nizzare questo tipo di mostre presenta grandi difficoltà, perché in realtà manca l’appoggio dei vari enti del turismo. Dobbiamo andare personalmente a racimolare qua e là gli artigiani; si arriva quasi sempre a un casolare nel quale l’artigiano non c’è perché sta guardando le pecore o zappando : la moglie incomincia a chiamarlo a gran voce. Finalmente arriva l’uomo, che ha a disposizione uno o due oggetti ; gli altri li farà. Invece, quando si tratta di ordinazioni, non è in grado di fornire nulla, o perché non ha i denari per le materie prime o perché non ha chi lo sostituisca nei suoi lavori agricoli.

Non parliamo poi della fatica che è costata l’organizzazione di una mostra di artigianato italiano per un grande magazzino belga; chi dovrebbe inte­ ressarsi per coordinare gli artigiani, non lo fa. Questi poveri artigiani non sono appoggiati da nessuno.

Gli oggetti di artigianato popolare sono acquistati soprattutto da turisti e, tra gli italiani, da persone di livello medio e superiore al medio ; vengono comprati in genere a solo scopo ornamentale, cioè non sono utilizzati anche nel caso in cui potrebbero benissimo esserlo. Chi meno sente il gusto per gli oggetti popolari è proprio il ceto più modesto. Una brocca di rame ram­

menta al manovale la casa dei suoi nonni, e il ricordo è collegato a una condizione economica peggiore dell’attuale. Questo ceto preferisce e acquista oggetti brutti e cari : servizi da caffè dorati, ben messi in scatole foderate di raso celeste, cani levrieri di ceramica o porcellana, ecc. ».

Una mostra-mercato

Nei locali adiacenti all’Ente del Turismo dell’Aquila è aperta una mostra permanente dell’artigianato abruzzese. Dalla qualità degli oggetti esposti non è stato difficile capire che la persona che aveva curato l’allestimento era dotata di gusto sicuro nei riguardi dei problemi dell’artigianato autenti­ camente popolare. Ecco quanto ci ha raccontato la signora Maria Luisa Properzi, direttrice e allestitrice di questa mostrarrnereato.

« Sono cosciente che in questa mostra ci sono oggetti belli come oggetti brutti perché bisogna che tutti gli artigiani guadagnino. Io mi sono sempre interessata ai problemi dell’artigianato, forse perché sono nativa della Sardegna dove la tradizione artigianale è assai sentita. I locali della mostra li ho ottenuti dal direttore della Camera di Commercio, dottor Ruffino, il quale iniziò con una semplice esposizione di pochi oggetti per ogni singolo artigiano aquilano, oggetti andati a ruba, benché non avessero nulla di tradizionale; perciò a un mese dall’apertura nel locale regnava il caos. Fu allora che presi l’iniziativa e nel giro di pochi mesi trasformai un po’ tutto. Aiutare gli artigiani, specie quelli di modeste condizioni: questo il mio programma. Non si può solamente orientare le proprie idee sul piano di mantenere vivo l’artigianato tradizionale che va scomparendo, ma occorre anche invogliare gli artigiani giovani a fare cose nuove che possono, a volte, essere belle quanto le autentiche e che con il passar degli anni potrebbero diventare a loro volta preziose. Forse sbaglierò, ma a me sembra che occorra un’evoluzione anche in questo campo, perché ancora oggi nei giovani abbiamo manifestazioni di arte ingenua, ingenua nel senso che non è imparata nelle scuole d’arte, che impediscono la spontaneità. Bisogna mantenere tutto ciò che è tradizionale, ma anche incominciare una nuova tradizione con i giovani. Anche perché occorre accontentare il pub­ blico che frequenta sia le mostre che i negozi di artigianato, e questo pubblico è fatto di persone di gusti diversi.

La ricerca degli artigiani è stata fatta soprattutto in seguito a ricerche eseguite in biblioteca. Poi ho preso personalmente contatto con loro e sono arrivata a consorziarli. Il pubblico medio preferisce gli oggetti brutti, non legati a nessuna tradizione, a quelli autentici. Gli oggetti migliori (rami, tappeti, legni) sono acquistati soprattutto da arredatori. A parte la vendita

al minuto, forniamo diversi negozi di grandi città (Koma, Milano, ecc.). Gli oggetti popolari acquistati non sono utilizzati, non sono acquistati con scopo funzionale; servono come soprammobile. Le persone che meno com­ prendono questi oggetti sono i contadini. II contadino che passa davanti alla vetrina dove sono esposti oggetti per lui di uso quotidiano ride e tira dritto. Mi chiamano ironicamente la ” callarara ” .

I contatti con gli artigiani all’inizio non sono stati facili ; erano diffidenti perché la merce che mi consegnano non è acquistata, ma lasciata in deposito. La fiducia è venuta in seguito, quando hanno visto i soldi. Abbiamo organiz­ zato anche una mostra a New York, dove il successo è stato enorme. Citerò un esempio incredibile : un orafo di Scanno ha avuto ordinazioni da parte di una catena di grandi magazzini per 1 miliardo e 800 milioni di lire italiane; è stato costretto a rifiutare perché la sua attrezzatura artigiano-familiare non gli permette altro che una produzione assai limitata. Un artigiano di Sul­ mona, fabbricante di coperte da letto, che era sull’orlo del fallimento, riceve oggi da New York ordinazioni per mezzo milione alla settimana ».

Un vasaio

A Buffano, un piccolo paese della provincia di Lecce, esistono alcuni artigiani che vivono facendo i « pignatari » ; Serafino Manco è uno di questi. Vive in una casa di una camera; impasta e cuoce la creta in una capanna che ha costruito lui stesso fuori del paese; rifinisce e pittura i fischietti e i vasi in una piccolissima stanza che rassomiglia a una grotta. Le forme che escono dalle mani di Serafino Manco appartengono a due generi ben distinti; alcune provengono direttamente da una tradizione locale anti­ chissima che affonda le radici chi sa in quale civiltà preclassica, altre nascono invece da alcuni disegni e fotografie che si trovano in un libretto, « L ’amatore di maioliche », che il « pignataro » possiede.

« A dodici anni ho incominciato a fare cose a ’’ form a” ; erano fischietti, uccellini, figure per il presepe. Poi ho lasciato le forme e da allora lavoro solo con le mani. Il mestiere l’ho imparato da mio padre; anche mio nonno faceva lo stesso mestiere. Cinquant’anni indietro a Ruffiano c’erano più di cinquanta botteghe; quasi tutti facevano pentole, non cose artistiche. C’era un certo Antonio Cavallo che era bravissimo. Non solo qui c’erano tanti forni, a Cutrufiano c’erano molti artigiani che facevano cose artistiche, ma ora sono morti tutti. A Cutrufiano oggi fanno solo ” pignate ” , roba per cuocere. Ora a Ruffiano siamo rimasti in pochi. C’è Falconi Antonio di cinquantanni, Falconi Alfredo di sessant’anni, Cavallo Rocco, di venti­ cinque anni, Manco Angelo di quarantatre anni; poi ci sono io, Serafino 68

Manco, di cinquantotto anni e i miei due figli, Alessandro di ventisette anni e Luigi di diciotto anni. Solo la mia famiglia fa cose artistiche. Fino a pochi anni fa lavorava anche un altro mio figlio, ma ora ha lasciato perché è andato in Svizzera a fare il manovale. Tanti operai di questo mestiere lasciano e se ne vanno chi in Belgio, chi in Svizzera. Noi stiamo ancora con i vecchi sistemi. La terra tenera la prendo con cario d’affitto a due chilometri da qui. La terra dura per fare la porcellana è di Grottaglie. La porto qui e la impasto con i piedi nudi, la metto a bagno e la impasto con la farina della stessa creta. Sono pieno di reumi. Il mio desiderio è di avere una impastatrice. Lavoro qui in campagna; ho due forni, uno grande e uno piccolo; mi sono costati 100.000 lire perché li abbiamo fatti noi. L’affitto del terreno mi costa 15.000 l’anno. Prima non c’erano tasse e gli operai stavano bene; ora io pago 12.000 lire l’anno di tasse. Ogni giorno, con le spese, potrò guadagnare 1.000 lire; tolte le spese, ci restano 300 o 400 lire. Prima cuocevano in paese ; poi il sindaco l’ha vietato. Io non ho terra ; faccio solo l’operaio di ceramica; anche i miei figli. Lavoriamo giorno e notte, domenica e Natale. In paese comprano fischietti, scaldini e ” pignate ” . I turi­ sti, a Tricase, comprano anfore e vasi. Per guadagnare la minima giornata devo fare molte cose e male, invece che poche e bene, se no non ce la faccio a vivere. Prima gli operai facevano solo vasi e pentole ” stagnate ” , poi li coloravano con i colori sintetici. Stagnati erano rossi e neri.

Ho un libro, ” L’amatore di maioliche ” , dove prendo le forme di qualche vaso. Anche quando prendo dal libro, non faccio i vasi eguali, ma devo aggiungere la mia fantasia. Mio padre e gli altri vecchi del paese facevano cose artistiche, belle; ma sono andate perdute. Di quello che facevano i vecchi non c’è più niente. A me piace lavorare artistico. Faccio anche i santi; un santo grande può costare 6.000 lire, ma bisogna arrangiarsi e darlo anche a meno se c’è bisogno. Il lavoro che faccio per un’anforetta picco­ lissima vale 50 lire, ma certe volte sono costretto a darla via per 20 o 30 lire ».

Un pastore-scultore

Le mostre di artigianato organizzate dai vari comitati regionali sono

Documenti correlati