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Tradizione e rinnovamento di Gino Frattani

Se l’arte popolare ha avuto il suo crisma scientifico meno di un secolo fa, è appena da qualche anno che in Italia ha avuto una consacrazione ufficiale con la costituzione e l’ordinamento di una pubblica raccolta, ampia ed esauriente, che si chiama museo.

Museo però è parola da far pensare alla conservazione di cose, impor­ tanti e rispettabili sì, ma ormai prive di vita; quando, invece, l’arte popolare, se non del tutto vitale, è ancora da noi il risultato di rilevanti attività regionali. Naturalmente qui si intènde parlare e alludere non a tutta l’arte popolare, che ha tanti volti (poesia, musica, costumanze, riti, spettacoli e via dicendo), ma a quella soltanto dei prodotti d’uso comune attinenti alla necessità della vita di tutti i giorni.

Due mostre recenti, una a Milano tre anni fa ed una a Firenze l’anno scorso, hanno portato all’attenzione del pubblico raccolte ed esemplari di oggi, cose vive cioè, impensate ed impensabili per i più, che son sembrate quasi una scoperta per quanti han bisogno di trovare certi oggetti prossimi al proprio naso, e una rievocazione felice per quanti le avevano forse dimenticate. C’è stato, insomma, un risveglio di interesse per un mondo che poteva sembrare definitivamente sommerso, passato ormai in retaggio degli studiosi e non più dotato di fermenti attivi.

Tale mondo fatto di mille cose diverse ha un aspetto esteriore, forma, colore, carattere, tradizione; una funzione di uso, serve ancora a qualche cosa per la vita in molti paesi se non in regioni ; un valore tecnico costituito dalla qualità di ogni oggetto ; un valore economico determinato dalla possibilità di vendita e dalla necessità di guadagno di chi lo produce e, infine, una capacità di adattamento fuori della cerchia limitata in cui ogni pezzo è nato e vissuto, talvolta per migliaia di anni.

Non staremo qui a definire l’arte popolare; non è il luogo e vi son testi, per questo, assai importanti, come vi sono pareri diversi e discordi sul valore estetico che essa ha: è balbettamento di primitivi, dicono, è arte minore, è rimaneggiamento di cose più grandi, è ispirazione di anime semplici, è ripetizione collettiva di motivi secolari, è ispirazione soggettiva.

E ’ un po’ tutto forse, ma qui ci terremo lontani da argomentazioni 46

polemiche ; esiste l’arte popolare, ha una sua bellezza, un suo calore umano, e tanto basta per amarla e tale è il fatto al quale ci dobbiamo attenere.

Ceramiche, metalli, legni, tessuti, ricami e merletti son nati e nascono ovviamente da una prima necessità : contenere liquidi e vivande, vestire, coprirsi, ornarsi, lavorare, riposare e dormire; una seconda è rispondere ad una esigenza estetica che consiste nell’omare gli oggetti prodotti. E qui nascono carattere e stile e tradizione, che variano in Italia da regione a regione, da costumanze, da rapporti reciproci : antropomorfismo e zoomor- fismo nelle ceramiche, riferimenti agli aspetti della natura, il sole l’acqua, gli uomini, gli animali, i fiori, le stagioni, i lavori campestri, l’amore, e le forme che diremo necessarie per non dire razionali (che è termine troppo industriale, di serie), collaudate e perfezionate dall’uso secolare, come le conche di rame svasate e a collo stretto perché l’acqua non cada durante il trasporto (sulla testa per lo più), come le cucchiaie di legno da cereali di linea perfetta e di perfetto equilibrio, come il variare delle imboccature dei vasi a seconda della destinazione e dell’uso. Nulla è affidato al caso, sostanzialmente, o all’estro1, ma ad un rigore, anzi, controllato dall’esperienza. L’estro, quando si scatena, lo fa solo nelle decorazioni, nell’intento di render piacevole e quindi meglio accettabile un oggetto di utilità immediata, ornando, colorando e figurando, finché nascono talvolta pezzi di non comune bellezza.

Tutto ciò, singolarmente e collettivamente, costituisce un patrimonio che va rispettato ; per questo non ci piacciono gli adattamenti snobistici o modaioli di oggetti (dei quali molto spesso si abusa in fatui arreda­ menti) nati, che dire? per bere e usati per illuminare, tanto per fare un esempio.

Esiste infatti per la conservazione delle arti popolari un duplice pro­ blema che è estetico e che è sociale. Le condizioni della vita sono cambiate radicalmente nel giro di cinquant’anni, e più stanno cambiando; i paesi che non avevano l’acqua ora l’hanno o quanto meno l’avranno (e scom­ paiono brocche, vasi, conche, recipienti per il trasporto e per la conserva­ zione) ; i trasporti non si fanno più con i carri ma con i camions (e addio carri romagnoli, « carretti a vino » laziali, carri siciliani) ; i tessuti si fanno a chilometri, non più col telaio casalingo ; il costume con i suoi ornamenti sparisce ed è ormai un impaccio costoso; e chi più ne ha più ne metta, perché gli esempi son facili e saltano agli occhi di chiunque. A questo si aggiunga la mirabile e inesorabile mano dell’industria e della serie che arriva dovunque, che dà a tutti per poche lire oggetti ineccepi­ bili ; la plastica sostituisce il vetro, il metallo, la ceramica in una lotta senza quartiere.

E l’artigiano arroccato sulla montagna resiste ancora; continua il 47

lavoro al suo tornio, alla sua fornace, al suo telaio, ai suoi attrezzi ma le cose, a farle come le ha viste fare a suo padre, costano troppo, non reg­ gono la concorrenza e si deve pur vivere; spoglia di qua leva di là, sem­ plifica questo elimina quello, quasi gli oggetti non li riconosci più ; deve risparmiare all’osso per resistere, ma suo figlio di certo non farà l’artigiano, se la lotta è così dura, e al diavolo i nidi degli uccelli, le figurazioni e le fontane d’amore.

Ora noi siamo ben lantani dal voler negare il progresso e vorremmo vedere i più sperduti casolari muniti di bagno e di acqua corrente calda e fredda, perché crediamo che tutti gli uomini abbiano ugualmente il diritto ad un minimo di comodità, ma nello stesso tempo desideriamo, perché li amiamo, che siano difesi i prodotti dei quali veniamo parlando e gli uomini che li fanno. Ci sembra urgente, perciò, intervenire, non perché gli oggetti siano deviati verso una destinazione diversa da quella originaria, ma perché ritornino, anzi, alla loro purezza e ricchezza ed abbiano un mercato più vasto e diverso da quello che oggi hanno e che va per di più contraendosi.

Si vuol dire che « modernizzare », adattare cioè ad un gusto aggiornato certe cose significa alterarle in quanto divengono altre cose se non rispon­ dono ai caratteri che avevano. Prendiamo, ad esempio, un vaso di Ponte- corvo, uno di quei vasi da acqua fatti di terracotta e decorati a freddo con la terra rossa (l’origine dei quali l’archeologo Silvio Ferri fa risalire al IX secolo) e per renderlo meno rozzo o salottiero addirittura, smaltia­ molo (questo tentativo s’è visto) ed avremo un ibrido, privo di senso, camuffato come la scimmia di un circo che può far sorridere, ma che può dare anche un senso di pena. Non significa, un tentativo di tal genere, salvare l’arte popolare; significa soltanto deformarla avviandola ancor più rapidamente alla fine.

Accanto all’esempio che s’è fatto ve ne sono anche di positivi, tentati cioè con sensibilità e gusto; allora, però, si crea o meglio ci si serve di una certa tecnica e di certi mezzi per arrivare a conclusioni tutt’affatto diverse da quelle alle quali si potrebbe tendere. E non è più arte popolare. Si dirà che gli artigiani debbono pur vivere e che bisogna nel modo migliore aiutarli ; e va bene. Ma perché allora non diamo loro il mezzo e il modo di ritrovare quei caratteri ormai quasi perduti, quelle forme spesso dimenticate affinché quanto possono produrre abbia di nuovo un senso ed un contenuto senza, come avviene, cadere nell’approssimativo o, peggio, nel deforme? Perché non si cerca di dare agli artigiani la possibilità di arri­ vare con i loro prodotti anziché nei mercati vicini soltanto, anche oltre i limiti provinciali, regionali o addirittura nazionali? Perché non si orga­ nizzano in cooperative o consorzi di produzione là dove esistono gruppi di una certa consistenza (ceramisti, specialmente a Castelli, a Seminara, a 48

Cucchiaie di legno per cereali della Valle d’Aosta.

La forma è antica e tradizionale, interessante per la sua razionalità che si accompagna alla massima semplicità di forme, frutto evidente di lentissime successive modificazioni.

Impugnatura dei forchettoni in legno di Francesco Giuliani (Castel del Monte). Sotto : Sculture in pietra dello stesso Giuliani, ispirate a ritratti di personaggi vari, Socrate, Dante, Gramsci, D ’ Annunzio, ecc., secondo una scelta imprevedibile e curiosa.

Un raro tessuto di Ploaghe (Sardegna) con motivi architettonici. Sotto : Pittore di ex voto di strada S. Gregorio Armeno a Napoli.

Pagina seguente : ex voto ciociaro della fine

deH’ 800 ; tre briganti armati di scuri assal­ gono tre carrettieri.

VII m m m m w m m m m ii

Grattagli e e Caltagirone) cercando di convincerli che uno spietato indivi- dualismo concorrenziale alla lunga finirà col distruggerli? Denaro ci vuole (credito), organizzazione mercantile e assistenza di tecnici: tutto neces­ sariamente in forma collettiva se non si vuol favorire uno a danno di un altro.

Se a tanto si potesse arrivare ne verrebbe di naturale conseguenza che a Caltagirone, per esempio, potrebbero tornare a splendere le belle maioliche oggi quasi del tutto scomparse, che nell’udinese l’arte dell’intaglio del legno non sarebbe più retaggio di un solo artigiano, che a Vetralla i super­ stiti terracottai potrebbero ripopolare il loro quartiere quasi trogloditico con minore ansiosa amarezza di oggi.

Se si potesse riportare sui mercati dei prodotti sani e favorirne la conoscenza e la vendita (il che presuppone una organizzazione certo non facile) sarebbe risolto un grande problema culturale e sociale, vale a dire troverebbero pane quanti vanno cercandolo lontano dai loro paesi. Sappiamo quanto sia difficile discutere, convincere artigiani disabituati ai rapporti con sconosciuti, gente sfiduciata, spesso anche a ragione, sospettosa; gente che non ha più il coraggio o la forza di tentare perché pensieri ne ha già tanti e, con deprimente senso fatalistico, « si contenta ». Ma, noi almeno, non conosciamo nessuno capace di lasciarsi cavar denti con piacere anche se il dolore non dà tregua. Coraggio, occorre, e organizzazione e, sopra ogni cosa, volontà. Perché, il mercato esiste, ne abbiam fatto un’esperienza diretta proprio in occasione delle due mostre di cui s’è detto in principio e di un’altra, anch’essa recente, a Monaco di Baviera; il novanta per cento dei pezzi esposti fu letteralmente divorato dagli acquirenti che cercavano nomi e indirizzi, chiedevano decine e più di esemplari di un pezzo. Ma in Italia, gli artigiani di paese che rispondono alle lettere degli italiani quanti sono? Dieci, venti? Forse anche meno. E quanti, se rispon­ dono, imballano a dovere e non, secondo abitudine, come sui carri agricoli? Figurarsi se è il caso di dar corso a scritti che non intendono; il commit­ tente straniero è come avvolto in una nebulosa di mistero, e proprio per esser certi gli artigiani vorrebbero i soldi prima. E il tempo? Questo proprio non conta. Quando poi le cose potrebbero avviarsi per il meglio nascono equivoci, insolvenze, danni, questioni che non finiscono più o meglio finiscono con un esito del tutto disastroso. Non è il caso di accennare alle percentuali di commissioni andate a buon fine. Ci vuole l’intervento di un terzo, intermediario, che ordini, che sorvegli, che imballi, che spe­ disca e che paghi. Ma un tale terzo deve, di necessità, guadagnare per accol­ larsi un lavoro di tal genere, così ingrato. E i prezzi salgono e manca così un elemento di interesse per gli acquirenti, forse, nella maggior parte dei casi, determinante. E’ lo Stato, con gli organi di cui dispone, che deve intervenire e prender per mano, guidare o meglio ancora sosti­

tuirsi all’artigiano facilitandogli la strada e garantendogli il risultato. Allora sì che le mostre avrebbero un successo, oltre che culturale e pro­ pagandistico, economico, e potrebbero veramente attivare correnti di esportazione di rilevante interesse. Ma bisogna cominciare dall’alfabeto. Tecnici e non dilettanti abbisognano; gente che parli lo stesso linguaggio degli artigiani, che sappia farsi intendere, che abbia entusiasmo e pas­ sione; e, accanto, una organizzazione commerciale efficiente affianchi la rinnovata produzione. Altrimenti l’arte popolare italiana è destinata vera­ mente al museo ; oggetto di studio da parte degli eruditi, prezioso per i pochi raccoglitori, lacrimevole per gli amatori, fallimentare per gli artigiani.

Quanti ancora lavorano sono vecchi o, se non vecchi, maturi ; appena essi saranno finiti, i loro figli butteranno alle ortiche la storia, la tradizione e quant’altro li impaccia e, ad occhi chiusi e senza sapere che creare è retaggio di pochi, si avvieranno (se non avranno cambiato mestiere) alle illusive sirene di quel « moderno » falsamente inteso che è pericoloso quanto una peste. E crederanno d’aver fatto chi sa che cosa modellando (il tornio è strumento superato) vasi, mettiamo, d’equilibrio instabile e di forma incerta.

Qui torna opportuno ancora un esempio. Alcuni artigiani del Molise eseguivano recipienti per contenere acqua, vino e olio, sorta di fiasche con manico, variegate di manganese e ramina con su ornamenti di uccelli plasticati; venuti essi a mancare, i giovani eredi, un po’ spinti dallo scadere del mercato locale e un po’ dal desiderio di mutare indirizzo, hanno trasformato la produzione da tradizionale in moderna, a loro modo naturalmente. Ma ne son venuti fuori dei mostri : delle scadentissime ceramiche di gusto approssimativo che denunciano lo smarrimento (e forse la presunzione) di chi le fa : cose senza capo né coda destinate ad un rapido tramonto. S’è disseccato così un altro ramo del grande albero, forse senza rimedio ; né si può escludere che una tal via, di volta in volta, possano seguire altre attività, oggi ancora fiorenti. Questo vuol dire che più il tempo trascorre senza un oculato ed energico intervento, più il male dilaga per contagio o per inazione.

Il quadro che per sommi capi s’è fatto può apparire anche pessimistico o sconcertante, ma sarebbe un vaniloquio se non contenesse elementi di verità, se non denunciasse una situazione di pericolo che può ancora evitarsi. E poiché la speranza è l'ultima a cadere, bisogna confidare negli interventi che qua e là sembra stiano cominciando, proprio per tamponare le falle più grandi. Chi sa che il volto antico dell’arte popolare italiana non riesca a ringiovanire?

Gino Fratlani

Artigianato e società

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