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Centro sociale A.08 n.39-40. Artigianato e arte popolare

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Centro

Sociale

n. 39-40, 1961

In questo fascicolo:

Artigianato

e arte popolare

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Centro Sociale

inchieste sociali

servizio sociale di gruppo educazione degli adulti sviluppo della comunità

a. V i l i - n. 39-40, 1961 - un numero L. 400 - un numero doppio L. 650 abb. a 6 fascicoli L. 2.200 - estero L. 4.000 - spediz. in abbonamento postale gruppo IV - c. c. postale n. 1/20100 - Direzione Redazione Amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 - Roma - tei. 593.455

Sommario

Artigianato e arte popolare G. C. Argan 3 Lo studio dell’ arte popolare

Eugenio Battisti 7 Storia dell’ arte e storia del folklore

Annabella Rossi 20 Arte popolare in Italia

Ramy Alexander 37 Lo sviluppo dell’ artigianato artistico nelle zone arretrate

Ettore Soltsass Jr. 41 “ Design” - sviluppo di oggetti

Gino Frattani 46 Tradizione e rinnovamento

Tullio Tentori 51 Artigianato e società

Annabella Rossi 53 Come è nato un museo

62 Produzione e vendita. Alcune interviste 71 Una cooperativa artigiana

73 Estratti e segnalazioni

Sviluppo della comunità in Italia - Attrezzatura

domestica e azione sociale - Per un concetto dina* mico della famiglia - L’uomo dell’organizzazione.

Recensioni

A. Pizzomo, Comunità e razionalizzazione (A. Signo-

relli d'Ayala); T. Tentori, Donna, famiglia, lavoro (A. Signorelli d'Ayala).

Foto: pag. I, Museo Arti e Tradiz. Popolari - pagg. II, IV, V I, V II, A. Rossi - pagg. I l i, V ili, R. Pedretti - pagg. IV, V, V II, ENAPI - pagg. IX , X , UNESCO/ Schwab 1960. In copertina, F. Botts.

Periodico bimestrale redatto a cura del Centro di Educazione Profe&- sionale per Assistenti Sociali. Comitato di direzione: Achille Ardigò, Vanna Casara, Giorgio Molino, Ludovico Quaroni, Giovanni Spagnoili, Paolo Volponi, Angela Zucconi. Direttore responsabile: Anna Maria Levi.

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Lo studio delVarte popolare

Una possibile classificazione dei fenomeni: strumentazione, orna­ mentazione, figurazione.

Salvo rare eccezioni, lo studio dell’arte popolare si identifica ancora con quello delle tradizioni popolari e del folklore. Ciò si spiega anzitutto col fatto che lo storico dell’arte, il quale si proponga di affrontare questo pro­ blema, deve ben presto riconoscere l’insufficienza dei propri strumenti metedologici di fronte a una congerie di materiali estremamente vari e dispersi, e in grandissima parte attinenti alla storia del costume o della religione, mentre, d’altra parte, lo studioso di tradizioni popolari è costretto a condurre la propria ricerca su un materiale prevalentemente artistico, cioè musicale o poetico o figurativo, dato che nella sfera culturale popolare il modo di espressione estetica è modo prevalente, non affiancato né limitato da diversi e coesistenti modi di esperienza e di espressione, quali la scienza, la filosofia e simili. La stessa delimitazione dell’ambito del popo­ lare è quanto mai problematica.

Nel campo specifico dell’arte, tuttavia, una empirica distinzione è possi­ bile in rapporto al modo di organizzazione della produzione artistica che, nei cosiddetti strati superiori della cultura, appare altamente specializzata e collegata con altre sue qualificate attività culturali, laddove negli strati « popolari » appare più diffusa, collegata esclusivamente con la sapienza o saggezza tradizionale, associata con un lavoro più artigianale (per esempio l’agricoltura, la pesca e simili) o con un artigianato scarsamente specia­ lizzato, e, in genere, con un’economia prevalentemente autarchica o auto­ sufficiente e, in ogni caso, non direttamente interessata al progresso o al rinnovamento delle tecniche. Il basso grado di specializzazione conferisce all’arte popolare due caratteri apparentemente contraddittori: da un lato, un notevole grado di spontaneità ( al quale si richiamano talora gli studiosi d’arte per spiegare il fenomeno artistico alle sue origini e l’essenzialità dell’esigenza estetica) e, dall’altro, un alto grado di condizionamento, deri­ vante sia dalla tendenza dei ceti colti a influenzare culturalmente i ceti meno colti, sia dalla tendenza di questi ultimi a emulare i primi. Il

feno-Stralcio dall’articolo «Popolare, A rte» che comparirà nel voi. X àe\VEnci­ clopedia Universale dell’Arte, edita dall’Istituto per la Collaborazione Culturale, Venezia-Roma.

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meno è reso poi più complesso dal fatto che, a questa corrente dì influenza dall’alto al basso se ne aggiunge talvolta un’altra, assai meno importante, in senso inverso: si danno, cioè, circostanze in cui i ceti culturalmente più elevati assumono temi e forme dell’arte popolare, ma raffinandoli nella qualità dei materiali e nei procedimenti operativi.

La cosiddetta spontaneità dell’arte popolare, poi, non va intesa nel senso di libertà inventiva: l’arte popolare, al contrario, appare sempre fortemente vincolata da tradizioni iconografiche e tipologiche nonché da tecniche scarsa­ mente suscettibili di sviluppo o progresso. Per carattere di spontaneità deve invece intendersi il carattere che deriva all’arte popolare dal fatto che essa è prodotta, in parte, da maestranze artigiane a basso livello di spe­ cializzazione e in parte, forse preponderante, dalle stesse persone che fruiranno del bene artistico ed è, cioè, il prodotto di un artigianato domestico.

Tenendo conto del suo rapporto con una società organizata in piccole comunità, con un’economia a raggio limitato, con attività che, mentre mettono l’individuo in contatto diretto con la natura, hanno periodi di pausa in relazione ai cicli stagionali, una prima sommaria classificazione dei fenomeni dell’arte popolare potrebbe impostarsi sulle categorie della strumentazione, dell’ornamentazione, della figurazione.

Nell’ambito della strumentazione rientra in primo luogo l’architettura, in quanto strettamente collegata con l’organizzazione familiare e sociale e con il tipo delle attività comunitarie.

Un largo settore della strumentazione popolare è rappresentato dagli utensili per le attività tradizionali della comunità: e in primo luogo dai veicoli, siano essi carri agricoli o slitte o barche da pesca, e poi dai finimenti per gli animali. In quest’ordine di oggetti, che comprende ovviamente ogni categoria e tipo di utensili, la forma raggiunge un alto grado di qualificazione funzionale ed estetica grazie alla lunga consue­ tudine d’impiego e al suo progressivo modellarsi sulle esigenze concrete dell’operazione e dell’operatore. Tale funzionalità non esclude tuttavia l’ornamentazione, originariamente ispirata ai motivi culturali o rituali e semplicemente augurali collegati dall’uomo al proprio lavoro, e poi via via ridotta alla ripetizione di temi ornamentali tradizionali, ma che conserva tuttavia l’idea di un valore patrimoniale connesso con gli strumenti del lavoro e la loro trasmissione ereditaria. Rientrano in quest’ordine di oggetti anche gli attrezzi per Vartigianato domestico, specialmente femminile, come i telai, gli arcolai, le supplettili per cucina e simili.

L ’area dell’ornamentazione è ancora più estesa, in quanto si sovrappone in gran parte a quella della strumentazione. Il fatto saliente dell’ornamenta-4

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rione popolare è la permanenza, entro aree geografiche e in fasi temporali molto estese, di certi temi o motivi o modi di stilizzazione, e il loro ricorso in serie di oggetti affatto diverse, nonché la costanza di certe scelte colo­ ristiche. Particolare interesse, ha, in questo settore, l’artigianato domestico femminile, specialmente la tessitura, il ricamo, il merletto. E qui il domi­ nio proprio dell’arte popolare si sovrappone a quello del costume, che dell’arte popolare costituisce infatti un capitolo importante, sia per la varietà tipologica sia per la qualità degli elaborati.

La figurazione, come tale, occupa un settore relativamente ristretto nella fenomenica dell’arte popolare, dovendosi cominciare con l’escludere da essa le pitture e le sculture di mestieranti, che per lo più ripetono, fino all’ultima degradazione qualitativa, temi, forme e talvolta, opere dei maggiori artisti e che, nel migliore dei casi, valgono solo come tramiti di divulgazione culturale. In linea generale può dirsi che la figurazione costituisce il settore meno interessante ed autentico dell’arte popolare: per lo più illustrativa, traduce in figura fatti di cronaca, soggetti di poemi o di narrazioni, con un’ingenuità di dettato che può essere anche attraente, ma che raramente dà luogo a risultati artistici originali.

Più interessante è quella che potrebbe classificarsi sotto il titolo di strumentazione cerimoniale e devozionale, comprendendo in tale classe oggetti del culto, apparati processionali, maschere per feste, ma anche tutta l’infinita serie degli oggetti propiziatori, apotropaici e simili. A ffine a questa serie multiforme è l’altra, non meno varia, di quella che potremmo chiamare l’arte «effim era », con riferimento alla durata materiale degli oggetti, i cui tipi sono invece abbastanza costanti.

Una ricerca specificamente sociologica sull’arte popolare dovrebbe poi porre particolare attenzione nello studio della sua organizzazione culturale e, in modo particolare, sui sistemi di produzione ad essa relativi. Il fattore economico appare, in questo campo, meno determinante che altrove, almeno nei termini dello scambio, in quanto frequentemente accade che l’oggetto artistico venga usato dalle persone medesime che lo producono o rimanga, comunque, nella cerchia familiare: né abbia altro fine che quello dell’ador­ namento o del piacere che procura. Più spesso, però, l’arte popolare, anche nella sua forma, economica più semplice di artigianato domestico, è un modo di conferimento e accrescimento di valore, e, quindi, di tesaurizza­ zione, corrispondente al concetto che il pregio di un oggetto aumenti in proporzione dell’ornamento e questo, a sua volta, valga in ragione della sua complessità, cioè del tempo richiesto per eseguirlo. Anche per tale ragione l’arte popolare, quand’anche sia stilisticamente rozza, è sempre eseguita con una certa diligenza, essendo questa la prima qualità richiesta alla sua tecnica quand’anche essa sia, per altri aspetti, rudimentale.

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L ’iniziativa individuale può anche limitarsi, in realtà, alle circostanziate richieste di un committente a un artigiano, come specialmente accade per ciò che ha attinenza alla decorazione della casa. Come spesso avviene nelle piccole comunità, il basso livello della specializzazione fa sì che il rapporto di lavoro avvenga per mutuazione di prestazioni o scambio di beni, e che la produzione si attui attraverso il sistema elementare della ripetizione testuale o con poche varianti. Il primo formarsi di gruppi spe­ cializzati, la cui attività rimane tuttavia limitata nella cerchia della comu­ nità e delle comunità viciniori, spiega la permanenza dei medesimi carat­ teri ornamentali nello stesso luogo e la loro differenziazione da luogo a luogo, mentre una maggior comunicazione e diffusione di tipi è deter­ minata dal progressivo formarsi di una rete di scambi mediante gli artigiani

»

e i mercanti girovaghi, le fiere, i mercati, ecc.

Le influenze dell’arte popolare sulle forme artistiche superiori è fenomeno specialmente moderno; il caso più tipico di artista popolare assurto al livello della grande arte è quello del doganiere Rousseau, a cui fa seguito la pletora dei pittori detti « ingenui » o « domenicali » ; contenuti popolari formano la base tematica del pittore Marc Chagaìl; a forme ornamentali popolari si ispirano vari artisti moderni, il più importante dei quali è W. Kandisky; in un livello più profondo I. Miro fonde in un perfetto sincretismo contenuti è ritmi popolari in immagini d’alta qualità stilistica.

G. C. Argan

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Storia dell’arte e storia del folklore

di Eugenio Battisti

E ’ evidente, anche se forse non si è avuta da noi una discussione aperta in proposito, che il metro di giudizio dello storico dell’arte e quello dello studioso di folklore divergono sostanzialmente, a proposito di quel molte­ plice e composito regno figurativo che è la cosiddetta arte popolare. Non è qui il caso di fare la storia dei due atteggiamenti che dipendono anche da diverse opzioni politiche; basterà esemplificare la situazione.

Da un punto di vista storico-artistico, ciò che comunemente s’intende per arte popolare (pitture, stampe, architetture, artigianato, ecc.) copre, per così dire, due direzioni opposte dell’evoluzione degli stili — la parola è brutta, ma il concetto è chiaro — . In larga parte è infatti la ripetizione e rielaborazione, su un piano di qualità non obbligatoriamente infimo, di formule culte che sono trasmesse e continuate consapevolmente, o per inerzia, e che acquistano in genere inflessioni originali, magari felicissime, anche in seguito a contaminazioni e a fraintendimenti. Il fenomeno è larga­ mente analogo a quello della trasmissione orale di una canzone, solo che mentre nella poesia narrativa il racconto funge da struttura costante, nelle arti, per lo più, si trasmettono singoli elementi e motivi decorativi, quasi emblematici, o ritmi compositivi : più parole e frasi, in certo senso, che strofe, oppure tecniche costruttive, a volte elaboratissime.

Da un altro verso, opposto, l’arte popolare, come anche recentemente ha sostenuto con buone prove il Buttitta (1), segnerebbe un momento di auto­ noma creatività, non inferiore a quello dell’arte delle élites: « Sta di fatto, egli scrive, che le produzioni artistiche popolari di ciascun artigiano, di ciascun ambiente, di ciascuna età hanno non diversamente da quelle non popolari, loro peculiari caratteristiche, le quali sono il frutto di molteplici e vari modi di stilizzare la realtà visiva. Stilizzazioni che, in quanto prodotto di innovazioni formali operate su tradizionali procedimenti tecnici, sono il frutto dei diversi modi culturali e sociali di esistere degli individui e dei popoli ». Il Buttitta esemplifica questo processo, in Sicilia, seguendo la nascita del carretto dipinto, ed anche l’arricchimento recente del costume dei pupi. Per quanto estrosi, questi artigiani, che riescono a costituirsi 1

(1) A. Bu t t i t t a, Cultura figurativa popolare in Sicilia; ed. Flacconio, Palermo, 1961.

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in botteghe, differenziate stilisticamente, anche nel grado di qualità del prodotto, e che pur dànno luogo a documenti, a registrazioni scritte, ecc., cioè ad una storia, restano però sempre assai lontani dal livello dell’arte oggetto di storia specializzata. Da essi non è mai uscito uno stile che abbia veri caratteri di autorità, come quello, ad esempio1, elaborato in una pur piccola città dell’Italia del trecento. Per di più, e questo complica straordinariamente il problema, non c’è un caso nell’età moderna, nonostante che moltissimi sommi artisti abbiano iniziato la loro carriera incominciando dalla gavetta, di uno stile che, originatosi su un livello popolare, sia salito a far parte delle arti maggiori (anche qui la dizione è insoddisfa­ cente, ma il concetto è chiaro). Dal popolare al culto, per almeno gli ultimi mille anni, non c’è stata continuità o transizione. Ciò del resto è indiret­ tamente confermato dalla organizzazione delle corporazioni artigiane, che miravano a limitare il numero delle botteghe aventi il diritto di assumere molti apprendisti (anche per migliorare la preparazione dei giovani): i nuovi maestri potevano uscire solo dalla scuola di grandissimi maestri di una o più generazioni più vecchi di loro, e chi non seguiva come apprendista i modi consuetudinari del loro insegnamento, non poteva praticare in proprio, né quindi avere allievi con cui creare una propria scuola. Si può parlare di una dittatura dall’alto: ma dal punto di vista dello stile, una dittatura siffatta (che meglio si potrebbe definire un’oligarchia di tecnici) si è dimostrata storicamente quanto mai positiva, mentre il moltiplicarsi delle accademie, degli insegnanti e delle botteghe nell’ottocento, ed oggi delle officine artigiane, ha condotto ad un abbassamento pauroso del livello

stilistico generale.

Precisati così i due ambiti del « popolare », essi si potrebbero rappresen­ tare graficamente non come la linea ascendente e poi discendente di un trian­ golo, al cui vertice ci sarebbero le arti delle élites, ma come una piramide a gradini, per cui esiste un salto dal popolare al culto e, come vedremo, anche dal culto al popolare.

Se questo schema fosse del tutto soddisfacente, il campo di studio potrebbe essere nettamente diviso fra due gruppi diversi di specialisti : gli uni che come criterio si affidano alla qualità dello stile; gli altri che non sanno che cosa farsene della qualità, e si limitano — perché anche a modo loro documenti di storia — a constatare la presenza di ingenue pitture su vetro, di goffi ex voto, di manufatti ispirati, nelle loro decorazioni, alle oleografie ottocentesche o alla Domenica del Corriere. Una dico­ tomia così assoluta equivarrebbe però alla concezione di una società nettamente divisa in due parti, fra quelli che vanno ai concerti e quelli che vanno alle corse di cavalli, come disse una volta Shaw; fra chi si crea da solo il paradiso e chi si crea per sua volontà l’inferno. D’altronde, molte obiezioni ad una dicotomia siffatta sono possibili, anche senza uscire 8

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dal tema dell’arte. Ammesso, ad esempio, che nell’occidente tardo-medioe- vale e moderno non è uscito mai direttamente dall’artigianato popolare uno stile con la S maiuscola, evidentemente non si può estendere questo' prin­ cipio ad altri tipi di società, ad esempio alla tribù, dove è assurdo, o quasi (ma anche qui sono ormai consigliabili ulteriori precisazioni), distinguere fra arte ed artigianato. Gli artisti come individui, d’altronde, in ogni caso nascono dagli artigiani, ed ancor oggi provengono', in grande numero, dalle classi popolari. Inoltre, sono quasi innumerevoli i casi in cui, anche solo per un certo' gusto esotico o campagnolo, le arti superiori s’impadro­ niscono di temi iconografici, di motivi decorativi, ecc., propri delle arti popolari. Già nel quattro e cinquecento questo processo era vivacissimo: e l’immagine devozionale ne è l’esempio universalmente più tipico e più famoso. Chi scrive è un accanito visitatore di musei d’arte popolare, ed è specialmente estasiato' quando — come in moltissime città della Germania, della Svizzera, dell’Austria — trova riunito, dalla preistoria ad oggi, tutto ciò che è stato creato in quel centro, e ne rappresenta, a tutti i livelli, la storia. Nonostante questa confessione, nonostante una spiccata simpatia per l’arte delle regioni alpine, e nonostante tutti i dubbi che lo scrupolo sto­ rico fa nascere allorché si deve giungere ad una qualsiasi generalizzazione, lo schema prima proposto, della piramide a gradini, sembra però l’unico valido.

La questione, infatti, è, caso mai, un’altra. Cioè la linea di demarcazione fra culto e popolare, nelle arti, è tutt’altro che rigida, è duttilissima dal punto di vista della qualità, quando cioè ci si metta davanti a degli oggetti per sceglierli e decidere : questo può entrare in un museo1, questo' deve finire in un magazzino, anche se proviene dal più povero e lontano paese delle Cinque Terre, o dalla grande asta antiquaria di Londra. Per esemplificare, il culto, se comprende da un lato la pittura astratta e Picasso, oggi stesso, può anche comprendere i tappeti tessuti a mano a Cordova, le sedie di paglia fabbricate nei vicoli di Roma, la ceramica delle antiche manifatture paesane, i dolci antropomorfi o cerimoniali. Pur mantenendo rigido lo spartiacque, il confine corre qua e là, a seconda del livello regio­ nale, dell’organizzazione delle officine, del modo di vita. Firenze, al massimo della sua gloria, aveva poche migliaia di abitanti, quanti ne ha una citta­ dina moderna di quarto, quinto' ordine: eppure ha dato un capolavoro dopo l’altro: popolare, al suo confronto, era solo il paesino di campagna di quattro-cinque case. Oggi, Firenze non riesce più ad alimentare uno stile artistico, è divenuta provincia rispetto a Roma, Parigi, New York. Ma in talune sue produzioni, come i pizzi, non esistono molti termini di con­ fronto che possano farla definire provinciale (anche se purtroppo la loro qualità non è alta) ; cosicché essi partecipano con dignità assoluta alle grandi mostre internazionali, come la Triennale. Lo stesso dicasi -— e più ancora — per Murano, capitale culta del vetro soffiato, e niente affatto provincia.

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L’arte popolare, per essere veramente tale, deve nascere, in certo senso, da una accettata ed orgogliosa condizione d’inferiorità, priva, nello stesso tempo, di una capacità positiva di ribellione. Il pittore del carretto sici­ liano non ha frequentato l’accademia, rifiuta sprezzantemente il modo di dipingere alla moda, si riduce entro un ambito figurativo più modesto, adeguato ai suoi mezzi elementari, e si accontenta pienamente di questa sua posizione: non vuole far mutare lo stile dei professori col suo esempio. E’ come l’attore dilettante che assegna, alla recitazione, un valore ludico, e non impegna, in essa, la sua vita, la sua carriera, la sua moralità. Ha passione, è spontaneo, ma non ha autocontrollo e disciplina. Lo stesso salto che c’è, in ogni campo, fra dilettantismo e professionismo, c’è fra arte culta e arte popolare, anche se il dilettante finisce per essere, alla fine, un mestierante, e l’artista magari lavorerà sconosciuto e anonimo come un artigiano.

La conclusione di queste osservazioni è però tutt’altro che negativa rispetto al mondo del folklore; anzi mira a strapparlo di mano agli storici delle tradizioni popolari, per assorbirlo, in gran parte, nella storia dell’arte. Chi scrive, in certo senso, è un espansionista della cultura a scapito dell’incultura, e, ritornando ai musei di oltrealpe, li ammira proprio perché allineano tutto in alto, accostando ad una cassapanca una squisita madonna lignea, ad un ricamo un polittico. In Italia gli unici musei, oltre a quello Pitrè, che abbiano una pari dignità, anche se terribilmente squallidi, sono il Castello di Fenis in Valle d’Aosta, Casa Cavazza a Saluzzo, il Castello del Buonconsiglio di Trento e, ovviamente, i musei dell’Alto Adige, anzitutto Bolzano. Ma anche Pompei ed Ercolano potrebbero essere considerate dei musei mirabili in tal senso.

Non è molto difficile dimostrare con documenti alla mano che una quantità di fatti ritenuti popolari appartengono alla più genuina storia dell’arte. Non è passato troppo tempo da quando, in un volume illustrante l’edilizia rustica del Lazio, si sono inclusi, solo perché fuori di città, per l’ottanta per cento almeno, edifici documentati o documentabili come opera dei mas­ simi architetti del sei e settecento romano. Con lo stesso criterio si potrebbe dedicare una sala del Musée de l’Homme a Chagall, o a Klee, perché si sono ispirati a temi popolari, o agli impressionisti, perché hanno dipinto in campagna. Converrà esemplificare proprio con l’architettura, in quanto essa è stata più studiata e con risultati tali da limitare drasticamente i limiti della presunta spontaneità di molte forme. Basterà riferirsi, per l’Italia, alle eccellenti inchieste comparse nei quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura dell’Università di Roma, o alle ricerche condotte per le zone alpine da quel serissimo studioso che è il torinese Augusto Cavallari-Murat. Ma anche fuori degli studi specifici sul piccolo abitato, il miglioramento 10

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delle conoscenze storiche ha condotto ad alcune interessanti constatazioni di valore generale.

Di primaria importanza (anche in rapporto con le esperienze attuali del­ l’edilizia pianificata da enti statali) è risultata l’influenza dei grandi centri su quelli minori. Influenza che è il più delle volte dovuta all’intervento diretto degli stessi artisti, che mentre pianificavano il palazzo di città, progettavano, per gli stessi signori, la villa, con il suo complesso di servizi, granai, stalle o, addirittura, in ogni secolo, di adiacenti abitati contadini. Gli abitanti del contado, inoltre, hanno manifestato il più delle volte una auto­ noma simpatia di gusto, ricorrendo a maestri se non di primo di secondo piano, almeno per opere pubbliche (come la cattedrale, il palazzo di città, le fontane) attorno a cui sorsero opere d’imitazione. Il sistema del feudo, durato assai a lungo in tutta Europa, ed a cui risalgono quasi tutti i superstiti abitati che conservano un aspetto elegantemente stilizzato, era del resto tale da stabilire una loro netta dipendenza dal centro signorile, sia come edilizia, che come costume, ecc. Anche i tipi di abbigliamento spesso obbedienti a rigorose leggi suntuarie e a principi di moralità, vennero largamente pianificati in sede di consuetudine o di diritto. Tuttora, seguendo le grandi strade di comunicazione antiche, possiamo constatare come le differenze dell’edilizia rustica dipendano dai confini storici prima nazio­ nali, poi regionali e, infine, dalle amministrazioni pubbliche provinciali. Gli statuti comunali, del resto, dimostrano come assai poco nell’urbanistica e nell’edilizia civica fosse lasciato al caso e all’estro individuale, ma come il decoro delle principali strade fosse considerato di tale importanza da permettere espropri, o interventi diretti dall’alto, se il privato si dimostrava inadempiente agli obblighi statutari. Le citttadine ed i maggiori borghi medioevali, rinascimentali e barocchi sono più volte vere opere d’arte, collet­ tive, ma non certo per germinazione spontanea.

Ancor più singolare è la situazione degli abitati minimi, rurali e di mon­ tagna. Essi, in gran parte, hanno- una pianificazione ancor più rigorosa, essendosi sviluppati da grange o baite, dipendenti da importanti abbazie, e vennero quindi, almeno in origine, sistemati urbanisticamente dagli uffici tecnici — diciamo così — degli ordini religiosi, ad esempio benedettini e cistercensi. Naturalmente il tempo ha condotto ad accrescimenti, spesso- cao­ tici ; la severità degli ordinamenti urbani non è stata costante ; sono interve­ nute di frequente violazioni ed abusi, tali da compromettere o modificare l’organizzazione generale dell’abitato. Tuttavia, in molti casi, nell’atto di interventi di restauro o di ricostruzioni, si è constatato come la percentuale dei rifacimenti sia stata, fino ad epoca vicina a noi, assai limitata; e come sia sempre conveniente, in ogni caso, anche da un punto di vista sociolo­ gico-, ripristinare lo status originario.

Naturalmente, ancor più in passato che oggi, essendo le case costruite 11

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dai loro proprietari (non materialmente, s’intende, ma come partecipa­ zione attiva alla loro progettazione), la casa di campagna risponde, in genere, ad esigenze specifiche di abitabilità, di lavoro e di funzione. In larga parte, questa rispondenza fu risultato di tradizione; ma si avvertono a ben vedere numerossime svolte dovute all’introduzione di nuovi com- forts, come il camino non centrale', ma a parete, con cappa, o di nuovi sistemi di lavorazione, come ad esempio quello meccanico mediante la forza idraulica, per cui la casa si allinea al condotto idrico; o di nuovi tipi di coltivazione, che richiedono a volta pagliai all’aperto, o granai in muratura, o aie battute. Di fondamentale importanza l’uso dei carri (per cui sono necessari appositi depositi), e degli animali da soma. La specia­ lizzazione delle coltivazioni e deH’allevamento furono e sono assai più vaste di quanto possa sembrare —- dando luogo per conseguenza ad una tipologia edilizia assai varia. In genere, industria, tipi di coltivazione ed allevamento sono anch’essi un prodotto d’una riforma o d’un perfezionamento' di carata tere culto. E ancora una volta, gli ordini monastici, i benedettini e i cistercensi in particolare, interessati al miglioramento delle condizioni agrarie, dovettero diffondere svariati tipi di strumentazione, poi volgariz­ zati. Il monastero, spesso, costituì a tutti i fini una specie di fattoria modello, con ampia capacità produttiva e larga possibilità di sperimenta­ zione. Anche molti tipi di coltivazione, come quello della vite, vennero diffusi da ordini monastici per ragioni religiose, essendo il vino indispen­ sabile alla messa. La stessa coltivazione dei fiori per ragioni rituali fu per secoli continuata nei chiostri, ed anzi solo in essi, come denota il fatto che pochissimi nomi antichi di fiori pregiati si siano trasmessi direttamente dal latino tardo alle lingue romanze.

E’ del tutto probabile che anche per ciò che concerne la plastica, la pittura, le arti cosiddette industriali e perfino quelle domestiche, il processo1 fonda- mentale sia sempre stato quello dell’irradiazione dal centro nel contado. Naturalmente, mutano con le condizioni storiche anche i rapporti fra capitale e provincia. La moda elaborata nel quattrocento a Ferrara vantava, sugli stati vicini, la stessa autorità morale che nell’ottocento Parigi avrebbe esercitato su tutta l’Europa. Le botteghe e le manifatture artigiane, come la fabbricazione dei vasi, dei tessuti, ecc., dovettero essere poi assai meno numerose e addensate di quanto ora pensiamo; bisogna inoltre pen­ sare che una città, in antico, aveva una produzione necessariamente limi­ tata, ma, in cambio, pressoché monopolistica, e tale da servire tutta la sua campagna. Il fatto che ora vasi, suppellettili, vecchie insegne, costumi, ecc. si trovino più in campagna che in città, non significa affatto che essi siano stati prodotti nel contado. Inoltre, l’ascendente cittadino si svolgeva attraverso i mercati, che esponevano i prodotti migliori, e ne potevano suggerire l’imitazione, attraverso veri e propri album di modelli, 12

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disegni tecnici, ecc., ma anche attraverso la spontanea divulgazione dei segreti delle botteghe (la cui gelosa custodia era più volte severamente imposta negli statuti corporativi): il che dimostra quanto essi facessero gola. Perfino le produzioni domestiche sono il risultato di interventi dal­ l’alto: dipendono da scuole di cucito, istituite anche in tempi ormai lontani, presso gli orfanotrofi, i conventi, i palazzi, ecc.

Quando la xilografia e l’incisione assunsero una possibilità produttiva di vasto smercio, i fogli di modelli si moltiplicarono e si diffusero ovunque, ed il fatto di servirsene non significò mai porsi su un piano di bassa imitazione; di modelli si valsero anche maestri di una certa fama, e gli artigiani, in genere, riconoscendo la superiorità dei pittori, si rivolsero, continuamente a loro per avere disegni. Ecco quindi che nei momenti di maggior qualità pittorica anche l’artigianato si disponeva più in alto, e viceversa.

Per epoche più vicine a noi, è possibile determinare con una certa esattezza quando incominciò a stabilirsi una differenziazione di stile e gusto fra arte in genere, ed arte avente un carattere, diciamo così, popolare: cioè caratterizzato da una qualità singolarmente bassa, da una evoluzione distinta da quella delle arti superiori (per cui l’ex voto, ad esempio, non è più una imitazione o una replica del quadro che sale sull’altare, ma qualcosa che sta a sé, come oggi i fumetti non hanno nulla a che fare con i dipinti esposti alla Biennale di Venezia). L’artista popolare si chiude in se stesso, diventa tradizionalista, ma senza seguire una tradizione precisa e senza conformarvisi.

Nell’ex voto ciò avvenne relativamente presto. Già alla fine del quattro- cento sembra di poter individuare la presenza di mediocri botteghe spe­ cializzate, connesse, con diritti di monopolio, ai principali santuari. Nel cinquecento, il legame di gusto che ancora sussisteva fra queste e le grandi botteghe pittoriche si rompe; solo nelle regioni più periferiche, e dove le botteghe cittadine restano su livelli bassissimi di qualità, troviamo qualche somiglianza. Il pittore di ex voto rifiuta talmente la cultura da intrecciare il suo dialogo, caso mai, soltanto con artisti solo di poco meno scadenti di lui.

In scultura il caso più singolare, e che dimostra come sul livello che ora definiamo « popolare » non riescano ad agire positivamente le buone condizioni economiche di lavoro né l’intervento di geniali committenti, sono i troppo famosi Calvari bretoni, che, visti da vicino, rivelano una paurosa mancanza di aggiornamento culturale da un lato, e dall’altro, la indifferenza per ogni tradizione plastica, mentre le adiacenti architetture religiose, pur piene di incongruenza, pur povere di eleganza nei dettagli, hanno però un nobile orientamento in senso manieristico, e rielaborano negli interni, con una certa intelligenza, le forme del gotico. La nascita dei Calvari è dovuta, senza dubbio, all’opera di un riformatore religioso,

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che mira a rianimare il culto cattolico nella regione, già prima scarsa­ mente evangelizzata, e si serve largamente di immagini in polemica col calvinismo. Poiché non ha scultori a cui rivolgersi, si rivolge ad artigiani, che danno opere vistose, ricche, elaborate ma completamente fuori della storia stilistica, se non per una generica ispirazione a xilografie devo­ zionali tardo quattrocentesche, cioè ai più volgari mezzi d’informazione. Nella grafica del cinquecento, alcuni stampatori, per ragioni economiche, oltre a servirsi di artisti di una certa capacità, si creano delle strane équipes specializzate1, ma isolate dal gusto ufficiale, che per la loro» situa­ zione di lavoro fanno pensare agli attuali studi di disegnatori di fumetti. Il processo è curioso e dovrebbe essere indagato documentariamente. Questi stampatori servono il pubblico delle fiere, e divulgano i loro» fogli da pochi soldi prodotti in serie per tutta l’Europa. Non si rivolgono per dise­ gni ad artisti di talento, è evidente, non per risparmiare in questa fase di lavorazione, ma perché li disprezzano : convinti, come un produttore cine­ matografico di ieri, che le loro opere non piacerebbero al grosso pubblico. L’arte che si caratterizza da se stessa come « popolare » è, assai spesso, vittima di un cerchio» chiuso : nasce da ignoranti ed è destinata ad ignoranti. Dal punto di vista storico, questa produzione presenta però solo un valore assai parziale e discutibile di cronaca.

Una valutazione ed un giudizio» del tutto diversi vanno formulati, invece, per quelle vaste» zone di produzione» artigiana che hanno ripetuto fino» a poco tempo» fa con poche inflessioni alcuni stili storicamente accertabili, anche se straordinariamente arcaici. E’, praticamente, il caso delle icone di stile bizantino», prodotte fino al settecento con un abbassamento di qualità, sì, ma con grande coerenza stilistica; è il caso dell’architettura alpina, dell’arte dell’intaglio, dei tessuti paesani, delle ceramiche di taluni piccoli centri isolati, così bene esemplificate, nella loro attuale decadenza, da Annabella Rossi nell’articolo» che compare in questa stessa rivista. Queste produzioni hanno subito influssi dagli stili delle grandi capitali europee, ma limitatamente, e in genere li hanno riassorbiti nella propria tradizione. Sono produzioni provinciali, ma rispettabilissime, che spesso sono anche le uniche del loro tipo. Si può esaltare o lamentare il loro isolamento, ma non si può disconoscere il fatto che sono un fatto vivo di cultura locale e che i centri dove esse si trovano costituiscono delle piccole capitali, anche se rette dal demone della conservazione invece che dell’innnovazione.

La storia dell’arte è sempre alle prese con fatti di asincronismo stili­ stico» ; tutti sanno che nel quattrocento non solo in tutta l’Europa si costruiva in gotico mentre in Italia si costruiva in stile anticheggiante, ma che a Firenze e a Roma stessa maestri tardogotici come Gentile da Fabriano e Pisanello si affiancarono ai massimi creatori dello stile rinascimentale. L’asin- cronismo, nelle zone di conservazione, appare più spinto; ma, dal punto

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di vista degli scambi sociali, denota solo 1’esistenza di un confine ; ad esempio nella valle dell’Adige, dove pressappoco coincide con lo spartiacque lingui­ stico. Certo, una cassapanca altoatesina stona accanto ad un cassone dipinto fiorentino; ma non stona affatto quando sia posta entro un edificio roma­ nico; mentre la rozza stampa destinata al pubblico' rozzo, prodotta nel seicento, non sta bene né accanto a quella del cinquecento, né accanto' a quella del quattrocento1; ed il carretto dipinto siciliano non può venire mai accostato in un museo ad un Serpotta o ad un Antonello. Continuità significa fedeltà ai propri usi, non velleità di ribellione contro gli usi moderni. La canzone popolare registrata nel Molise o in Puglie non è la canzonetta presentata a San Remo: ha una dignità da nobile decaduta, non la volga­ rità della servetta presuntuosa.

Poiché la conservazione dei manufatti creati dall’uomo è sempre più precaria coH’allontanarsi nel tempo, ed è condizionata da eccezionali con­ dizioni storiche ed ambientali (come il clima), il folklore figurativo’ costi­ tuisce, come quello musicale, un archivio storico di straordinaria importanza, che documenta ambiti di civiltà altrimenti quasi ignoti, e soprattutto dà un panorama plurimillenario della casa d’abitazione, della vita dome­ stica e delle credenze religiose. Ciò tutti lo sanno; ma più per intuizione che per adeguate conoscenze reali. Infatti questa archeologia vivente o sopravvivente, specialmente in Italia è stata pochissimo studiata. D’altronde è ovvio che anche questi fenomeni ebbero dei centri e delle vie d’irradia­ zione, in quanto prodotti di un consapevole e coerente Kunstwollen, anche se questa irradiazione è magari avvenuta migliaia di anni fa, e la loro diffusione è stata, per particolari ragioni di ambiente e di società, estre­ mamente vasta. Anche un’irradiazione a volte così vasta da toccare quasi tutta l’Europa, ed una penetrazione così capillare da giungere fino al livello del piccolo gruppo umano disperso sulla montagna più impervia, sono fatti che richiedono spiegazioni sociali, economiche e tecniche, e fanno pensare subito a maestranze nomadi, o ad uno sviluppo enorme della lavo­ razione di materiali poveri, reperibili ovunque (come il legno), per opera di un grandissimo numero di botteghe, fra di loro connesse, o alla predicazione di missionari, che abbiano divulgato motivi decorativi aventi valore sim­ bolico (pressappoco come per opera loro la figura del « Crocifisso » si è diffusa dovunque). Possiamo, per dare un esempio di siffatta ricerca, chie­ derci quali furono i tramiti di diffusione delle decorazioni geometriche a compasso, a stellette, a foglie, a dentelli, ecc. che ricorrono in modo così stilisticamente omogeneo in gran parte degli intagli lignei dell’Europa, e a quale epoca tale diffusione avvenne. Ci scusiamo di intraprendere qui un primo tentativo, necessariamente erudito, di indagine, ma nonostante la sua ricchezza, bellezza ed attualità di gusto', l’arte dell’intaglio ligneo è pochis­ simo studiata, ed è un po’ l’emblema della povertà di interessi storici dimo­ 15

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strati dalla cultura europea per il folklore figurativo. Fra i pochi studiosi interessati al problema, ha acquistato un posto di onore il Deonna, purtroppo recentemente scomparso, ma di cui sarebbe urgente tradurre, raccogliendoli in un volume, i dispersissimi saggi. Il Deonna fu però troppo' preoccupato della trasmissione e continuazione, a livello popolare, dei singoli temi iconografici, per soffermarsi abbastanza sullo stile. Ora lo stile di questi intagli, che io proporrei di chiamare « alpino », allo stesso modo in cui si parla di romanico o di gotico, ha delle precise peculiarità, come un deciso aniconismo, una distribuzione simmetrica dei motivi decorativi, una ten­ denza relativamente accentuata a coprire tutta la superficie, senza giungere all’horror vacui. C’è inoltre una rigorosa limitazione nell’uso dei suoi motivi, tipicamente connessi al simbolismo cosmologico, che sono riservati a stru­ menti o arredi che abbiano un valore cerimoniale: come la cassapanca nuziale, in cui si teneva riposto l’abito indossato durante lo sposalizio e desti­ nato a venire riindossato nell’atto del seppellimento ; la culla, il giogo, gli stampi per le forme cerimoniali di burro, per i dolci, lo sgabello del padre di famiglia, ecc. Scarsissima è la penetrazione di simboli cristiani, ed ugualmente, di simboli pagani; nonostante il profondo carattere religioso insito in queste opere, la divinità è vista come una forza cosmologica, ma senza che venga antropomorfizzata. Se esistono allusioni demoniache, tutt’al più esistono in qualità di simboli animali o vegetali : la tematica, come si vede, è in sé coerente, costituisce un vero sistema, allo stesso modo dello stile con cui essa è rappresentata. Infatti, nonostante l’elementarità del disegno, c’è modo e modo di eseguire anche una stelletta e le stellette dello stile rustico sono riconoscibili a prima vista.

La via per individuare il momento storico di creazione e diffusione dello stile « alpino » è duplice. Da un lato il confronto con altri stili decorativi, dall’altro l’esame della sua distribuzione geografica. Questo studio purtroppo per ora non è stato fatto né in un senso, né nell’altro. Per ciò che concerne la distribuzione topografica, essa comprende, grosso modo, la Spagna, l’Ita­ lia, la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Germania, i paesi scandinavi e s’irradia larghissimamente verso l’Est, dove ne abbiamo testimonianze antichissime, dalla Jugoslavia alla Russia. Come potè costituirsi questa unità? Politicamente? L’obiezione maggiore a questa ipotesi, da un punto di vista storico-artistico, è che queste testimonianze mancano nelle mag­ giori capitali storiche dove invece le traccie dovrebbero caso mai essere più numerose. Inoltre tale diffusione è troppo vasta per coincidere con qualsiasi degli stati politici che si sono stabilmente succeduti in Europa, dopo l’Impero Romano. Quindi o bisogna risalire a delle culture proto- storiche, o bisogna pensare a delle culture in certo senso nomadi (come potrebbero essere quelle barbariche). Fu una diffusione dovuta a scambi commerciali, per mezzo di venditori ambulanti? L’obiezione più grave

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sta nel fatto che l’arte « alpina », benché le testimonianze pervenuteci siano notevolmente tarde, è documentata in zone isolate e commercial­ mente poverissime di scambi, come appunto le zone montane. Invece l’ipotesi di una diffusione dovuta ad una corrente eretica, che si sia valsa tramite le sue missioni di una simbologia religiosa puramente schematica e geometrica, non è affatto da scartare, tanto più che sappiamo che alcuni movimenti religiosi, nel loro dissolversi, finirono per dar luogo a comunità isolate proprio nel cuore delle montagne. Siamo scarsamente informati sulla loro iconografia religiosa, ma ci possono aiutare per ora gli studi della Milevitch sui Bogomili jugoslavi. Alcune di queste eresie, come il Manicheismo, ebbero diffusione continentale, ed una tematica cosmo­ logica, proprio come quella che compare figurata negli intagli. E la irradia­ zione stilistica potè essere favorita dall’abile campagna predicatoria. E’ ovvio però che nessuna conclusione sarà possibile prima che sia stesa una carta esatta della diffusione dello stile « alpino » (che individui le aree precise dove è attestato, non solo provincie, ma vallate, comuni, ecc., con date precise) e prima che venga fatta una lettura simbolica del sistema concettuale rappresentato dalle più vaste decorazioni, come, in particolare, le cassapanche.

Stilisticamente, la localizzazione cronologica dello stile « alpino » è altrettanto ardua da precisare, per mancanza di convincenti punti di riferimento. Anzitutto, nonostante che i documenti pervenutici risal­ gano, al massimo, al XVI secolo, va scartato ogni rapporto sia col rinascimento, sia col gotico, ed è incertissimo, data la distruzione subita dagli arredi lignei, un eventuale rapporto con il romanico, stile che del resto non riuscirebbe a spiegare una diffusione così larga di questi motivi. Mentre per il romanico quasi unica testimonianza correlata che si possa addurre è uno stallo del Museo di Barcellona (che però è singolarmente popo­ lareggiante, forse tardo e in ogni caso eccezionale), sempre nel medioevo troviamo una zona piuttosto vasta di riscontri nel gruppo di tombe arcaiz­ zanti da Colaures, ora nel museo del Périgord (di cui una illustrazione è stata data da M. Veillard-Troiekouroff nel primo numero di A rt de France). La somiglianza, sia detto per inciso, è tanto nella tipologia degli ornamenti, quanto nello stile, un po’ greve, relativamente incavato, assai chiaroscurato. Purtroppo la datazione di questi sarcofagi è incerta, tanto che nel commentarli si è parlato di « sopravvivenze merovingie ». Lo stile « alpino » è, d’altronde, sopravvissuto tanti secoli, verso di noi, da poter benissimo essere previssuto molti secoli all’indietro. Risalendo ancora nel tempo, troviamo altre possibilità di confronto con altri nobili cassoni lignei miracolosamente superstiti della Russia meridionale, che hanno una data­ zione, almeno1 secondo gli studiosi locali, estremamente antica, e risultano quindi una testimonianza solo di poco tardiva dell’ebanisteria della tarda

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latinità. Risalendo ancora in là nel tempo troviamo sì dei singoli motivi iden­ tici, ma non più una loro organizzazione simile, né un analogo stile esecutivo. Una sorprendente eccezione è costituita — come ha già avuto* modo di osservare il Deonna — da alcuni ossari ebraici, a cavallo fra il I secolo a. Cristo e il I secolo d. Cristo* (di cui uno illustrato* a tav. 292 del IV volume dell’Enciclopedia Universale dell’Arte). Più in là continuano a trovarsi cerchietti, rosette, cerchi cosmologici, ecc., ma dispersi od organizzati in altro* modo. E’ da escludersi in ogni caso, nonostante le autorevoli afferma- zioni in tal senso, una continuità dalla preistoria. Casi di persistenze, naturalmente, non mancano, ma si riducono a pochissime regioni, rimaste isolate anche più delle altre, e non nell’intaglio. E’ il caso, in Italia, proprio per ciò particolarmente studiato, della Val Camonica e in genere delle più chiuse popolazioni montane, in cui l’artigianato popolare con­ tinua a servirsi anche oggi di arcaici motivi ornamentali (ad esempio cerchietti, ornamenti ad occhi di dado) sopra strumenti e suppellettili a volte perfino tipologicamente affini a quelli dell’età del ferro. E’ però da notare che* questi stessi temi vennero assunti, nell’alto medioevo*, dalle arti industriali romano-provinciali, come sembrano dimostrare alcuni rari esemplari di oltralpe, come il coperchio d’osso d’una cassetta del V-VI secolo, che già presenta inflessioni « popolari » per il suo singolare disordine decorativo (ora al museo* di Heilbronn, riprodotta in ReaXlexikon, II, 1948, col. 201).

Se si volesse trarre ad ogni costo una conclusione da questi pochi dati (a cui una ricerca sistematica molti altri dovrebbe aggiungerne), e da come si configura (prima di studi approfonditi) l’ambito crono-topografico dello stile « alpino », si potrebbe ipotizzare che esso sia sorto nell’alto medioevo, presumibilmente precarolingio ; dedurre che la costanza di simbologia (per cui le decorazioni lituane risultano interpretabili, anche in base alla notizia di un persistente culto* delle forze naturali, allo stesso modo delle analoghe decorazioni del vicino Oriente, risalenti a vari millenni a. Cristo), sia dovuta ad una continuità se non di culto, di superstizione, per cui a taluni segni restò sempre connesso* un significato propiziatorio ; indurre che la diffusione di questa simbologia, risultando avvenuta in tempi post-cristiani, dipenda dall’adozione di questa simbologia aniconica da uno o più movimenti eretici o magici, le cui testimonianze maggiori furono, come sempre accadde durante le lotte contro l’eresia, altrove distrutte. E’ però ovvio che altri dati potranno correggere, magari dimostrare assurda questa ipotesi. Se l’abbiamo avanzata, è solo per indicare quale importanza per lo studioso del medioevo e della religione possa avere lo stile « alpino », come esso sia ben definito e problematico nei suoi caratteri; come meriti studi, catalogazione, discussione, anche se invece di essere da tempo defunto come uno stile del passato, è ancor oggi, in qualche lontano paese, semivivo. 18

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Ora, tutte le civiltà conservatrici sono ricche di analoghe persistenze; mentre, d’altronde, le civiltà innovatrici sono assai meno frequenti e diffuse di quanto si creda. Un’arte tradizionale, ovviamente, suscita nel critico' che la studia una certa diffidenza: ciò del resto avviene anche per la millenaria e statica tradizione dell’icona bizantina; ma da questo punto di vista sarebbero condannabili a priori anche le civiltà orientali, più statiche certo della nostra. Conservazione va però distinta da velleità di innovazione, non assistita dalla cultura. Per l’arte « popolare » che è sì il linguaggio biasci­ cato di un vecchio, ma può essere studiata da uno storico, e l’arte « popolare » che è il balbettio incoerente di un bambino, non può esserci uguale considerazione. La prima rappresenta delle realizzazioni, delle sintesi ; la seconda avanza, caso mai, delle istanze. La seconda può interessare il sociologo, la prima deve interessare lo storico. In certo senso, il tradizionale museo del folklore dovrebbe, come del resto si è fatto largamente fuori Italia, venir scomposto' in due parti, di cui la prima, comprendente i manu­ fatti di reale qualità e interesse, potrebbe venire assegnata ad un « museo della città », o dello « stato », quindi giustapposta ai grandi capolavori degli stili storici, oppure, se i manufatti presentano caratteri di arcaicità, addirittura assegnata ad un museo etnografico generale, come avviene, con tutti i vantaggi della possibile e immediata comparazione, a Parigi o ad Amburgo. La seconda parte potrebbe, invece, dar luogo ad una specie di « museo degli orrori », assai ricco', perché pure il brutto testimonia un costume, anche se in genere questo è un malcostume (come le figurine per scatole di sigari che rappresentano tutte le fasi dello streap-tease di famose spogliarelliste, raccolte a centinaia in un museo1 siffatto' a Barcellona). La prima parte varrebbe ad ampliare, notevolmente, il panorama storico del passato; la seconda finirebbe, invece, per dar luogo, caso mai, alla storia dell’ignoranza. La prima potrebbe indicarci, al di là d’ogni schematismo politico, che il « popolo », in antico, ha goduto' più volte di tutta la dignità che era conseguibile, raggiungendo anche un autogoverno culturale; la seconda dovrà farci capire che il popolo del sette-ottocento e specialmente quello dei fumetti di oggi, va soprattutto educato, portato almeno alle soglie della cultura.

Eugenio Battisti

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Arte popolare in Italia

di Annabella Rossi

Storia di una piccola mostra di arte popolare

L’idea di organizzare una piccola mostra di arte popolare in un piccolo paese mi era sempre piaciuta molto. Così, quando nell’agosto dello scorso anno un Ente mi telefonò al Museo delle Arti e Tradizioni popolari di Roma chiedendomi di lavorare per una decina di giorni in questo senso a Pesco- costanzo, accettai subito.

Pescocostanzo è un paese non molto distante da Sulmona ; si trova in una zona dell’Italia particolarmente ricca di tradizioni in genere e di artigianato popolare in particolare.

Eppure questo artigianato autentico' occupa un posto minimo nelle varie mostre-vendite organizzate da questo o da quel comitato nelle località di villeggiatura della zona; ad esempio, negli stands di una mostra che ho avuto modo di visitare a Roccaraso, la maggior parte degli oggetti esposti era costituita da portacenere di rame malamente sbalzato e da vasi di ceramica assai peggiori di quelli che si possono acquistare nell’ultimo dei grandi magazzini.

L’organizzazione di una mostra del genere comporta tre problemi. Innan­ zitutto la ricerca di ciò che di popolare è stato prodotto nei tempi passati, cosa che va fatta frugando nelle cantine e nelle soffitte delle abitazioni private; tale ricerca andrebbe fatta a tappeto, perché raramente gli abi­ tanti di un paese sanno di possedere qualcosa che possa essere oggetto del benché minimo interesse. Così, bussando alle porte di Pescocostanzo, mi sentivo dire : « non abbiamo più niente ; ’ c’è stata la guerra ” ; ” ci hanno portato via tutto ” ». E infatti gli interni delle case presentavano, salvo casi straordinari, mobili recenti, piatti in serie, nulla di più. Ma spesso, nelle cantine tra stoviglie rotte o nelle soffitte accanto alle patate, si trovava una bottiglia di ceramica dipinta del secolo scorso, una culla panciuta di ottone, cucchiai di legno rozzamente intagliati, piatti dipinti a grandi fiori, angio­ letti di pietra, una cassa nuziale scolpita, un braciere. A poco a poco la gente aveva cominciato a capire quello che volevo, e donne e ragazzi corre­ vano per dirmi che in « quella casa », e ridevano tra di loro, c’era una « pignata » sbeccata. Per contro, erano tenuti in grande considerazione i costumi, i merletti fatti al tombolo e gli ori in genere. Perché il costume 20

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era costato molto e per fare un merletto ci erano voluti giorni e giorni ; a me forse il bel costume o il gioiello interessavano meno dell’angioletto di pietra. E questa venerazione riservata solo a ciò che era « caro » mi faceva pensare che se Michelangelo avesse dipinto la Cappella Sistina per poche lire, molto probabilmente avrebbe visto imbiancare con la calce i suoi affreschi nel giro di un anno.

Compiuta la ricerca dei prodotti del passato, bisogna raccogliere ciò che ancor oggi si produce di popolare. Questo lavoro all’inizio si presenta estre­ mamente difficile. Nel mio caso, le ceramiche e i rami abruzzesi, che cono­ scevo attraverso le tavole dei libri o perché esposti nelle vetrine del Museo, erano proprio introvabili; sembravano scomparsi, sommersi da piatti in serie, da pentole e da pentolini di alluminio e da secchi di materia plastica. Poi, a poco a poco, rintanati in rudimentali laboratori, trovai gli ultimi superstiti dell’artigianato popolare: i due ceramisti di Palena, i ramaioli di Carsoli, lo scultore di pupazzi per presepe di Pacentro, i fabbricanti di « chitarre » (quelle per far la pasta) di Sulmona, artigiani che ormai non sono compresi quasi più da nessuno e che seguitano a fare un lavoro perché quello è il solo lavoro che sanno fare e in quello1 soprattutto credono ancora. Così il vecchio di Pacentro seguita a creare ingenue figure che ormai da qualche anno nessuno più compra nel paese perché si preferiscono1 i pupazzi di plastica, non perché costino meno di quelli di coccio, ma per una sorta di incanto del cattivo gusto e del brutto venduto alla luce del neon ed esposto in vetrina. Poi il vecchio di Pacentro mi scriverà rivelando una situazione comune a questi « appassionati » (li voglio chiamare così questi artisti che resistono alla produzione in serie, creando qualcosa che sperano possa servire alla loro piccola economia): « ... se può far acquistare un pre­ sepio dal Ministro, se lei facesse questo favore sarebbe un’opera di carità, che mi trovo in condizioni disagiate, che io sto malato dal mese di agosto con degenza di due mesi all’ospedale e operato, e non so a chi rivolgermi, perciò raccomando1 a lei. In attesa di una sua risposta, acciò mia figlia potrà pitturarli, ancora chiedo scusa se le reco fastidio, in attesa la saluto assieme alla mia famiglia. Devotissimo... ».

Gli orafi e le merlettaie invece, tornando al discorso di ciò che « costa », non sono abbandonati da nessuno, ma tenuti in grande considerazione. I merletti sono ammirati ma difficilmente trovano smercio, perché utilizzarli è difficile. Così spesso sono acquistati per quattro soldi da negozianti che li montano in maniera da renderli utilizzabili. Gli orafi, che si rifanno' a tradizioni colte che da secoli ormai hanno incontrato il gusto popolare al punto che quasi nessuna donna del paese è priva di un paio di orecchini o di una collana di vuote palline d’oro, vendono in paese e fuori. Sono però così attaccati a ciò che esce dalle loro mani che spesso si rifiutano di vendere, o perché un oggetto non è riuscito bene o perché è riuscito talmente bene

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che non vogliono separarsene. Due sono gli orafi di Peseocostanzo ; potranno avere sessant’anni e trascorrono la loro vita da personaggi di Hoffmann, mutando l’oro in lunghi fili che avvolgendosi prendono forma di cestini, di angeli, di collane.

Una volta trovato ciò che cercavo, bisognava sistemarlo nella maniera migliore. I locali della scuola, tre grandi stanzoni scrostati e squallidi, erano il luogo assegnato per la mostra. Premetto che lo scopo non era quello di vendere, e poi vendere gli oggetti non sarebbe stato tanto facile per colpa degli stessi artigiani che non riuscivano a stabilire un solo prezzo della merce che avevano portato: «M a ! dipende; se qualcuno vuole questo o quello, venga a casa mia » era la risposta alle mie insistenze di stabilire prezzi. Gli artigiani dei paesi vicini poi si rifiutavano di consegnare piatti e conche sia pure per una sola settimana; non si fidavano. L’improv­ visa richiesta di cose di solito invendute faceva balenare loro visioni di macchinazioni sospette e nello stesso tempo la possibilità di favolosi affari.

Allora perché fare una mostra del genere? Perché raccogliere rifiuti nelle cantine, andare in cerca di ciò che nel paese è scartato, per esporlo nel migliore dei modi? Qualcuno potrebbe rispondere: « P e r attirare l’atten­ zione dei turisti su Peseocostanzo ». In parte lo scopo era questo, ma solo in piccolissima parte. Allora? Il punto è questo, che cioè la piccola mostra di Peseocostanzo era stata fatta soprattutto per gli abitanti del paese, per far loro comprendere che ciò che hanno fatto e che alcuni di loro seguitano a fare è qualcosa di importante, perché solo loro sono in grado di farlo e non è per capriccio che lo sanno fare così ; ma perché così facevano i padri, i nonni e i bisnonni. Bisognava soprattutto far loro intendere che ciò che erano in grado di produrre era più « bello » di quello che preferivano. Tutto ciò era molto diffìcile e i risultati raggiunti poco vistosi, ma sod­ disfacenti.

In paese non ero considerata gran che, perché tra « tante belle cose » appuntavo lo sguardo su tutto ciò che di « brutto » era a portata di mano. E fin qui la gente si limitava a ridere senza chiedersi la ragione di tutto questo1: non le interessava. Ma quando videro escluse dall’esposizione le opere di alcuni artigiani che avevano furoreggiato negli anni precedenti con intagli e sculture raffiguranti Bartali in corsa e calciatori, e ferro­ battuti a forma di cavallette, mosche e ragni, si ribellarono apertamente. Con aria ostile arrivavano nei locali della scuola, si piazzavano a gambe larghe davanti a me e chiedevano minacciosi : « Dunque Bartali non lo volete? ». Il « no » deciso delle risposte li impensierì; presero a confabulare tra di loro in piazza ; seguivano le mie mosse ; osservavano, finalmente inte­ ressati, ciò che sceglievo. Alcuni ragazzi, gratuitamente, pulirono la stanza e imbiancarono le pareti ; uno verniciò le porte. Modificai il « no » : gli oggetti che gli altri anni avevano costituito la mostra potevano essere 22

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esposti in una delle tre stanze per essere eventualmente venduti. La dome­ nica mattina (la mostra si doveva aprire nel pomeriggio verso le cinque) stavo terminando di sistemare legni, rami e cocci nelle due stanze. Coperte le vecchie vetrine con pannelli di cartone verniciati lì per lì con un bel rosso mattone, le pareti candide, i pavimenti puliti, tutti gli oggetti facevano proprio una bella figura. I ragazzi, nell’altra stanza, erano al colmo di un’agitazione cominciata almeno da un paio di giorni ; ad un certo punto uno entrò e mi disse: « Signorina, ci dà una mano? ». Entrai da loro e tra mosche di ferro e personaggi traforati vidi in un angolo un grosso orcio di coccio.

Perché salvare ciò che muore

L’episodio di Pescocostanzo è stato un tentativo, un esperimento che mirava a risvegliare il gusto per il popolare in chi vive in una comunità nella quale bene o male esistono degli artigiani che dedicano, se non interamente, almeno buona parte della loro esistenza a una qualsiasi attività artistica.

Perché creare la forma di un vaso o di un rame va assai al di là del fatto che è stato fabbricato, al pari di un paio di calzoni, con le mani. Il discorso è vecchissimo, ovvio, ma bisogna sempre tornarci sopra. Quindi ogni volta che si parlerà di « artigianato » si intenderà qualcosa che, oltre che essere un manufatto, risponde ad esigenze estetiche più o meno volute, ma in ogni modo presenti, e’ a qualcosa che ha una funzione, sia pur minima, tra la gente che la produce. Il fatto di voler risvegliare il gusto per il popolare non consiste di certo in un rimpianto per il passato, per i « bei costumi », per i balli, per quella parola spesso ambigua, folklore, che talvolta com­ prende le cose più inutili della storia dell’uomo ed espelle con sicurezza quelle più importanti e vere. Questo rimpianto si addice a chi ama le « sagre del carciofo », le « infiorate », la saggezza o la salacità popolari, i tacchi dei componenti dei complessi di questo o di quel paese che battono con mala­ grazia sui palchi issati dai vari enti del turismo. Atteggiamento opposto a questo, ma non meno antiquato, da manifesto futurista, è quello di chi grida : « L’arte popolare non ha più nessuna funzione, occorrono forme nuove ».

Risvegliare il gusto per il popolare nei centri dove ancora esiste una qualsiasi forma di attività, ha la fuzione di mantenere una continuità tra gli artigiani e il pubblico « colto » che oggi è tutto proteso verso la rivalu­ tazione, anzi verso la valutazione, del popolare e del primitivo. Bisogna conservare questa continuità, possibile oggi per un particolare atteggiamento di gusto, affinché, morti i « veri » artigiani, non ne vengano creati di falsi, fatti resuscitare per esigenze di mercato.

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L’interesse per il popolare dal Cinquecento fino a tutto il secolo scorso si è limitato al campo della poesia ; esso comincia a manifestarsi nel Cinquecento, il secolo dei grandi viaggi, che comportò la conoscenza di popoli dagli usi e costumi diversi dai nostri. Il contatto* con mondi nuovi rese possibile* la conoscenza di un altro nuovo mondo: quello popolare, che era sempre esistito lì a poca distanza dalla casa di coloro che da questo momento se ne occuperanno. La sola poesia fu subito oggetto di interesse: nel 1511 venne pubblicato in Spagna il Cancionero General di Heranzo del Castillo, com­ prendente vecchi canti conservati dalla tradizione orale. Questa raccolta non si esaurì, ma continuò negli anni successivi per opera di vari studiosi, culminando nel Settecento con il Romancero General di Pedro Flores.

Raccolte di poesia popolare si ebbero poi in diverse parti d’Europa; non staremo di certo ad elencare questi studiosi e le loro opere, perché è stato già autorevolmente ed esaurientemente fatto da altri, e perché in questa sede il nostro interesse è volto alle manifestazioni d’ordine figurativo, sia pure in senso lato : su quel ramo cioè della creatività popolare che è rimasto in parte o del tutto trascurato dagli studiosi dei vari paesi.

Solo tra la fine dello scorso secolo ed il nostro venne scoperto il patrimonio artistico popolare ; tale scoperta non si limitò ad una semplice notazione, ma pose il problema della necessità di salvare ciò che ancora si faceva, la cui vitalità era gravemente compromessa dalla civiltà delle macchine. Ma, in questo caso, alla pari di ciò che era avvenuto quattrocento anni prima per la poesia, furono le raccolte di oggetti primitivi, con le quali si era venuto in contatto in seguito alla colonizzazione, a sollecitare quelle di oggetti popolari. In Europa le raccolte costituirono i fondi dei primi musei di folklore: nel 1891 venne fondato quello di Stoccolma e nel 1891-92 aprì i battenti la Mostra etnografica siciliana.

Lamberto Loria, un etnologo che aveva girato il mondo in lungo e largo, all’inizio di questo secolo, trovandosi in un paesino del meridione dell’Italia, si accorse quanto fosse impellente il lavoro dell’etnologo nella sua stessa patria. Scrive Loria: « Nella primavera del 1905, andando, per la prima volta, a Circello nel Sannio, fui fortemente impressionato dalla diversità delie usanze, dei costumi e della psiche di quelle popolazioni meridionali. La ceramica, gli utensili domestici, i vestiti, perfino il modo di differen­ ziare il bene dal male, il lecito dall’illecito, tutto era caratteristico e, in gran parte, diverso da quanto si riscontra comunemente nell’alta Italia e in quella centrale. Stavo allora preparando il viaggio che poi ho compiuto, in Assaorta, e mi chiesi se non fosse più conveniente di raccogliere docu­ menti etnici in Italia che non in lontane regioni. E se non avessi già pro­ messo ad altri di organizzare e di dirigere questo viaggio, non avrei lasciato

Il gusto per il popolare

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