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Arte popolare in Italia di Annabella Rossi

Storia di una piccola mostra di arte popolare

L’idea di organizzare una piccola mostra di arte popolare in un piccolo paese mi era sempre piaciuta molto. Così, quando nell’agosto dello scorso anno un Ente mi telefonò al Museo delle Arti e Tradizioni popolari di Roma chiedendomi di lavorare per una decina di giorni in questo senso a Pesco- costanzo, accettai subito.

Pescocostanzo è un paese non molto distante da Sulmona ; si trova in una zona dell’Italia particolarmente ricca di tradizioni in genere e di artigianato popolare in particolare.

Eppure questo artigianato autentico' occupa un posto minimo nelle varie mostre-vendite organizzate da questo o da quel comitato nelle località di villeggiatura della zona; ad esempio, negli stands di una mostra che ho avuto modo di visitare a Roccaraso, la maggior parte degli oggetti esposti era costituita da portacenere di rame malamente sbalzato e da vasi di ceramica assai peggiori di quelli che si possono acquistare nell’ultimo dei grandi magazzini.

L’organizzazione di una mostra del genere comporta tre problemi. Innan­ zitutto la ricerca di ciò che di popolare è stato prodotto nei tempi passati, cosa che va fatta frugando nelle cantine e nelle soffitte delle abitazioni private; tale ricerca andrebbe fatta a tappeto, perché raramente gli abi­ tanti di un paese sanno di possedere qualcosa che possa essere oggetto del benché minimo interesse. Così, bussando alle porte di Pescocostanzo, mi sentivo dire : « non abbiamo più niente ; ’ c’è stata la guerra ” ; ” ci hanno portato via tutto ” ». E infatti gli interni delle case presentavano, salvo casi straordinari, mobili recenti, piatti in serie, nulla di più. Ma spesso, nelle cantine tra stoviglie rotte o nelle soffitte accanto alle patate, si trovava una bottiglia di ceramica dipinta del secolo scorso, una culla panciuta di ottone, cucchiai di legno rozzamente intagliati, piatti dipinti a grandi fiori, angio­ letti di pietra, una cassa nuziale scolpita, un braciere. A poco a poco la gente aveva cominciato a capire quello che volevo, e donne e ragazzi corre­ vano per dirmi che in « quella casa », e ridevano tra di loro, c’era una « pignata » sbeccata. Per contro, erano tenuti in grande considerazione i costumi, i merletti fatti al tombolo e gli ori in genere. Perché il costume 20

era costato molto e per fare un merletto ci erano voluti giorni e giorni ; a me forse il bel costume o il gioiello interessavano meno dell’angioletto di pietra. E questa venerazione riservata solo a ciò che era « caro » mi faceva pensare che se Michelangelo avesse dipinto la Cappella Sistina per poche lire, molto probabilmente avrebbe visto imbiancare con la calce i suoi affreschi nel giro di un anno.

Compiuta la ricerca dei prodotti del passato, bisogna raccogliere ciò che ancor oggi si produce di popolare. Questo lavoro all’inizio si presenta estre­ mamente difficile. Nel mio caso, le ceramiche e i rami abruzzesi, che cono­ scevo attraverso le tavole dei libri o perché esposti nelle vetrine del Museo, erano proprio introvabili; sembravano scomparsi, sommersi da piatti in serie, da pentole e da pentolini di alluminio e da secchi di materia plastica. Poi, a poco a poco, rintanati in rudimentali laboratori, trovai gli ultimi superstiti dell’artigianato popolare: i due ceramisti di Palena, i ramaioli di Carsoli, lo scultore di pupazzi per presepe di Pacentro, i fabbricanti di « chitarre » (quelle per far la pasta) di Sulmona, artigiani che ormai non sono compresi quasi più da nessuno e che seguitano a fare un lavoro perché quello è il solo lavoro che sanno fare e in quello1 soprattutto credono ancora. Così il vecchio di Pacentro seguita a creare ingenue figure che ormai da qualche anno nessuno più compra nel paese perché si preferiscono1 i pupazzi di plastica, non perché costino meno di quelli di coccio, ma per una sorta di incanto del cattivo gusto e del brutto venduto alla luce del neon ed esposto in vetrina. Poi il vecchio di Pacentro mi scriverà rivelando una situazione comune a questi « appassionati » (li voglio chiamare così questi artisti che resistono alla produzione in serie, creando qualcosa che sperano possa servire alla loro piccola economia): « ... se può far acquistare un pre­ sepio dal Ministro, se lei facesse questo favore sarebbe un’opera di carità, che mi trovo in condizioni disagiate, che io sto malato dal mese di agosto con degenza di due mesi all’ospedale e operato, e non so a chi rivolgermi, perciò raccomando1 a lei. In attesa di una sua risposta, acciò mia figlia potrà pitturarli, ancora chiedo scusa se le reco fastidio, in attesa la saluto assieme alla mia famiglia. Devotissimo... ».

Gli orafi e le merlettaie invece, tornando al discorso di ciò che « costa », non sono abbandonati da nessuno, ma tenuti in grande considerazione. I merletti sono ammirati ma difficilmente trovano smercio, perché utilizzarli è difficile. Così spesso sono acquistati per quattro soldi da negozianti che li montano in maniera da renderli utilizzabili. Gli orafi, che si rifanno' a tradizioni colte che da secoli ormai hanno incontrato il gusto popolare al punto che quasi nessuna donna del paese è priva di un paio di orecchini o di una collana di vuote palline d’oro, vendono in paese e fuori. Sono però così attaccati a ciò che esce dalle loro mani che spesso si rifiutano di vendere, o perché un oggetto non è riuscito bene o perché è riuscito talmente bene

che non vogliono separarsene. Due sono gli orafi di Peseocostanzo ; potranno avere sessant’anni e trascorrono la loro vita da personaggi di Hoffmann, mutando l’oro in lunghi fili che avvolgendosi prendono forma di cestini, di angeli, di collane.

Una volta trovato ciò che cercavo, bisognava sistemarlo nella maniera migliore. I locali della scuola, tre grandi stanzoni scrostati e squallidi, erano il luogo assegnato per la mostra. Premetto che lo scopo non era quello di vendere, e poi vendere gli oggetti non sarebbe stato tanto facile per colpa degli stessi artigiani che non riuscivano a stabilire un solo prezzo della merce che avevano portato: «M a ! dipende; se qualcuno vuole questo o quello, venga a casa mia » era la risposta alle mie insistenze di stabilire prezzi. Gli artigiani dei paesi vicini poi si rifiutavano di consegnare piatti e conche sia pure per una sola settimana; non si fidavano. L’improv­ visa richiesta di cose di solito invendute faceva balenare loro visioni di macchinazioni sospette e nello stesso tempo la possibilità di favolosi affari.

Allora perché fare una mostra del genere? Perché raccogliere rifiuti nelle cantine, andare in cerca di ciò che nel paese è scartato, per esporlo nel migliore dei modi? Qualcuno potrebbe rispondere: « P e r attirare l’atten­ zione dei turisti su Peseocostanzo ». In parte lo scopo era questo, ma solo in piccolissima parte. Allora? Il punto è questo, che cioè la piccola mostra di Peseocostanzo era stata fatta soprattutto per gli abitanti del paese, per far loro comprendere che ciò che hanno fatto e che alcuni di loro seguitano a fare è qualcosa di importante, perché solo loro sono in grado di farlo e non è per capriccio che lo sanno fare così ; ma perché così facevano i padri, i nonni e i bisnonni. Bisognava soprattutto far loro intendere che ciò che erano in grado di produrre era più « bello » di quello che preferivano. Tutto ciò era molto diffìcile e i risultati raggiunti poco vistosi, ma sod­ disfacenti.

In paese non ero considerata gran che, perché tra « tante belle cose » appuntavo lo sguardo su tutto ciò che di « brutto » era a portata di mano. E fin qui la gente si limitava a ridere senza chiedersi la ragione di tutto questo1: non le interessava. Ma quando videro escluse dall’esposizione le opere di alcuni artigiani che avevano furoreggiato negli anni precedenti con intagli e sculture raffiguranti Bartali in corsa e calciatori, e ferro­ battuti a forma di cavallette, mosche e ragni, si ribellarono apertamente. Con aria ostile arrivavano nei locali della scuola, si piazzavano a gambe larghe davanti a me e chiedevano minacciosi : « Dunque Bartali non lo volete? ». Il « no » deciso delle risposte li impensierì; presero a confabulare tra di loro in piazza ; seguivano le mie mosse ; osservavano, finalmente inte­ ressati, ciò che sceglievo. Alcuni ragazzi, gratuitamente, pulirono la stanza e imbiancarono le pareti ; uno verniciò le porte. Modificai il « no » : gli oggetti che gli altri anni avevano costituito la mostra potevano essere 22

esposti in una delle tre stanze per essere eventualmente venduti. La dome­ nica mattina (la mostra si doveva aprire nel pomeriggio verso le cinque) stavo terminando di sistemare legni, rami e cocci nelle due stanze. Coperte le vecchie vetrine con pannelli di cartone verniciati lì per lì con un bel rosso mattone, le pareti candide, i pavimenti puliti, tutti gli oggetti facevano proprio una bella figura. I ragazzi, nell’altra stanza, erano al colmo di un’agitazione cominciata almeno da un paio di giorni ; ad un certo punto uno entrò e mi disse: « Signorina, ci dà una mano? ». Entrai da loro e tra mosche di ferro e personaggi traforati vidi in un angolo un grosso orcio di coccio.

Perché salvare ciò che muore

L’episodio di Pescocostanzo è stato un tentativo, un esperimento che mirava a risvegliare il gusto per il popolare in chi vive in una comunità nella quale bene o male esistono degli artigiani che dedicano, se non interamente, almeno buona parte della loro esistenza a una qualsiasi attività artistica.

Perché creare la forma di un vaso o di un rame va assai al di là del fatto che è stato fabbricato, al pari di un paio di calzoni, con le mani. Il discorso è vecchissimo, ovvio, ma bisogna sempre tornarci sopra. Quindi ogni volta che si parlerà di « artigianato » si intenderà qualcosa che, oltre che essere un manufatto, risponde ad esigenze estetiche più o meno volute, ma in ogni modo presenti, e’ a qualcosa che ha una funzione, sia pur minima, tra la gente che la produce. Il fatto di voler risvegliare il gusto per il popolare non consiste di certo in un rimpianto per il passato, per i « bei costumi », per i balli, per quella parola spesso ambigua, folklore, che talvolta com­ prende le cose più inutili della storia dell’uomo ed espelle con sicurezza quelle più importanti e vere. Questo rimpianto si addice a chi ama le « sagre del carciofo », le « infiorate », la saggezza o la salacità popolari, i tacchi dei componenti dei complessi di questo o di quel paese che battono con mala­ grazia sui palchi issati dai vari enti del turismo. Atteggiamento opposto a questo, ma non meno antiquato, da manifesto futurista, è quello di chi grida : « L’arte popolare non ha più nessuna funzione, occorrono forme nuove ».

Risvegliare il gusto per il popolare nei centri dove ancora esiste una qualsiasi forma di attività, ha la fuzione di mantenere una continuità tra gli artigiani e il pubblico « colto » che oggi è tutto proteso verso la rivalu­ tazione, anzi verso la valutazione, del popolare e del primitivo. Bisogna conservare questa continuità, possibile oggi per un particolare atteggiamento di gusto, affinché, morti i « veri » artigiani, non ne vengano creati di falsi, fatti resuscitare per esigenze di mercato.

L’interesse per il popolare dal Cinquecento fino a tutto il secolo scorso si è limitato al campo della poesia ; esso comincia a manifestarsi nel Cinquecento, il secolo dei grandi viaggi, che comportò la conoscenza di popoli dagli usi e costumi diversi dai nostri. Il contatto* con mondi nuovi rese possibile* la conoscenza di un altro nuovo mondo: quello popolare, che era sempre esistito lì a poca distanza dalla casa di coloro che da questo momento se ne occuperanno. La sola poesia fu subito oggetto di interesse: nel 1511 venne pubblicato in Spagna il Cancionero General di Heranzo del Castillo, com­ prendente vecchi canti conservati dalla tradizione orale. Questa raccolta non si esaurì, ma continuò negli anni successivi per opera di vari studiosi, culminando nel Settecento con il Romancero General di Pedro Flores.

Raccolte di poesia popolare si ebbero poi in diverse parti d’Europa; non staremo di certo ad elencare questi studiosi e le loro opere, perché è stato già autorevolmente ed esaurientemente fatto da altri, e perché in questa sede il nostro interesse è volto alle manifestazioni d’ordine figurativo, sia pure in senso lato : su quel ramo cioè della creatività popolare che è rimasto in parte o del tutto trascurato dagli studiosi dei vari paesi.

Solo tra la fine dello scorso secolo ed il nostro venne scoperto il patrimonio artistico popolare ; tale scoperta non si limitò ad una semplice notazione, ma pose il problema della necessità di salvare ciò che ancora si faceva, la cui vitalità era gravemente compromessa dalla civiltà delle macchine. Ma, in questo caso, alla pari di ciò che era avvenuto quattrocento anni prima per la poesia, furono le raccolte di oggetti primitivi, con le quali si era venuto in contatto in seguito alla colonizzazione, a sollecitare quelle di oggetti popolari. In Europa le raccolte costituirono i fondi dei primi musei di folklore: nel 1891 venne fondato quello di Stoccolma e nel 1891-92 aprì i battenti la Mostra etnografica siciliana.

Lamberto Loria, un etnologo che aveva girato il mondo in lungo e largo, all’inizio di questo secolo, trovandosi in un paesino del meridione dell’Italia, si accorse quanto fosse impellente il lavoro dell’etnologo nella sua stessa patria. Scrive Loria: « Nella primavera del 1905, andando, per la prima volta, a Circello nel Sannio, fui fortemente impressionato dalla diversità delie usanze, dei costumi e della psiche di quelle popolazioni meridionali. La ceramica, gli utensili domestici, i vestiti, perfino il modo di differen­ ziare il bene dal male, il lecito dall’illecito, tutto era caratteristico e, in gran parte, diverso da quanto si riscontra comunemente nell’alta Italia e in quella centrale. Stavo allora preparando il viaggio che poi ho compiuto, in Assaorta, e mi chiesi se non fosse più conveniente di raccogliere docu­ menti etnici in Italia che non in lontane regioni. E se non avessi già pro­ messo ad altri di organizzare e di dirigere questo viaggio, non avrei lasciato

Il gusto per il popolare

Il Comitato della Mostra .di Etnologia italiana del 1911. Sotto : Mainardi, uno dei collabo­ ratori della Mostra, durante una spedizione in Abruzzo.

Sistemi primitivi usati dai ceramisti di Vetralla. Pagina di fronte, in alto : Ruffano : esempi di produzione tradizionale ; in basso : sempre a Ruffano, esempi di produzione attuale. Dal confronto tra le due fotografie è facile vedere come elementi assurdi e spurii si siano sovrapposti alla semplicità delle forme originali.

Fischietto di Vetralla. Sotto : bottiglie policrome prodotte a Caltagirone. Presentano una caratterizzazione tipologica di derivazione settecentesca ed assumono una grande varietà di forme antropomorfe e zoomorfe ; talvolta si tratta di veri e propri ritratti e caricature.

l’Italia, e avrei fin da allora atteso alla fondazione di un museo di etnografia italiana. II mio viaggio in Eritrea non mi impedì tuttavia di pensare alle istituzioni che avevo in animo di creare » (1).

Infatti l’etnologo scelse alcuni collaboratori ed a Firenze, dove risiedeva, organizzò una lunga spedizione attraverso le varie regioni italiane, affidando la ricerca a diversi entusiasti (Mainardi, Tancredi, Roccavilla e altri), i quali in breve tempo riunirono il materiale che, dopo essere stato un’attrat­ tiva utile dell’Esposizione di Roma del 1911, costituisce ancor oggi il fondo maggiore del Museo delle Arti e Tradizioni popolari di Roma, nato sia pure di nome il 20 settembre del 1907 in virtù, come dice Gaetano Amalfi, della « munificenza del conte G. A. Bastogi che mercè il suo largo aiuto e l’ope­ roso buon volere di due studiosi, cioè con semplice iniziativa privata e senza soccorsi governativi, fece sorgere fin dal 1907 questo Museo».

11 gusto popolare di Loria e degli altri organizzatori di musei di folklore si manifestò sul piano concreto, in quanto vennero raccolte cose che irrime­ diabilmente sarebbero andate perdute, ma non si formò su quello ideolo­ gico. Loria infatti cercava oggetti, né più né meno come un archeologo, e nella prospettiva di creare un museo e di allestire un padiglione all’Espo­ sizione di Roma; ma non vedeva, né poteva vedere, se era importante impedire che i materiali raccolti non cessassero di essere prodotti. E questo avveniva fatalmente, perché ciò che egli faceva acquistare dai suoi colla­ boratori certamente non sarebbe mai stato scelta per un acquisto personale da lui e dai suoi amici, che forse vivevano in scomodissime case Liberty ed erano loro stessi schiavi di un gusto non di certo popolare.

Negli stessi anni, cominciavano invece ad entrare nelle case di Parigi le prime sculture negre, e ciò non tanto per polemica o rivolta contro il gusto Liberty, quanto piuttosto per una continuazione e una specificazione dell’orientamento di gusto che aveva fatto nascere il Liberty stesso. Infatti, fin dall’Esposizione universale di Londra del 1862, alla quale il Giappone partecipò con vari manufatti, nelle case inglesi ed europee in genere comin­ ciarono ad apparire parecchi mobili e soprammobili orientali ; questi ultimi avevano il pregio di essere non inutili, ma funzionali nella quasi totalità. E non basta ; per soddisfare questa esigenza di « esotico » furono aperti vari negozi pieni di quelle cose che vanno raggruppate sotto il nome generico di « cineserie » anche se non lo sono affatto. Tra i più noti « La porte Chinoise » nella rue de Rivoli a Parigi (inaugurato nel 1863) e soprattutto il negozio di Mr. Liberty in Regent Street a Londra. Il mondo esotico così cominciò ad entrare nelle case fin dalla seconda metà dell’Ottocento assieme al mondo del passato dell’Occidente, quello gotico, celtico, ecc. Seguendo un 1

(1) L. Lokia, Come è sorto il M useo di Etnografia Italiana in F irenze. Comunicazione al V I Congresso geografico italiano; Firenze, 1907.

naturale svolgimento, entrarono all’inizio del Novecento nelle case europee manufatti appartenenti sempre al mondo dell’esotismo; manufatti esclusi­ vamente decorativi, ma che avevano un valore di contenuto e non formale: sculture negre, maschere della Nuova Guinea e altri prodotti di popoli con i quali si era venuti in contatto in seguito alla colonizzazione. All’inizio fanno il loro ingresso esclusivamente nelle case di intellettuali che con un atteg­ giamento cosciente avevano volto la loro simpatia verso la parte dei vinti, dei colonizzati. Il manufatto esotico rappresentò per loro uno dei mezzi per comprendere i vinti; in seguito le statuette e le maschere negre vennero riprodotte ovunque: oggi se ne possono acquistare, di bruttissime, fatte magari in Germania o in Svizzera (ma anche se fossero state fatte nella Costa d’Avorio ad uso dei turisti le cose non cambierebbero gran che) in qualsiasi negozio di mobili svedesi o di cosidetti oggetti per regalo, e l’acquirente non ha di certo la coscienza anticolonialista o estetica ; acquista l’oggetto in questione solo perché è «stra n o».

L’applicazione e l’utilizzazione dei manufatti popolari, la cui origine penso vada rintracciata nella ricerca di fonti esotiche presenti nelle varie Esposizioni universali che si sono succedute a partire, come abbiamo già visto, dal 1862, rientrano in un atteggiamento generico di comprensione e soprattutto di conoscenza del primitivo; tale conoscenza è avvenuta tramite i più normali mezzi di diffusione: libri, riviste, foto, films, ecc. Chi oggi compra un vaso di Vetralla o un tappeto sardo, comprerebbe, qualora il mercato glielo offrisse, un candelabro di gesso messicano o una tapa neo- zelandese. L’acquirente di manufatti popolari non è mosso dalla ricerca di cose del proprio paese ; è completamente libero da ogni forma romantica di interesse per un proprio mondo «popolare». Egli è semmai mosso dalla ricerca di cose diverse e autentiche prodotte da qualsiasi paese; è mosso, credo, dal desiderio di raccogliere tutto ciò che di istinto l’umanità ancora produce, prevenendo quasi un immediato futuro nel quale esisteranno mac­

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