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Come è nato un museo di Annabella Rossi

Interessarsi ai gioghi incisi della Lucania, alle terrecotte abruzzesi, alle culle del Trentino, potrà sembrare a molti una occupazione inutile e fuori del tempo. Eppure questi oggetti « curiosi » rappresentano le ultime tracce di un tipo di vita che da alcune decine di anni va rapidamente mutando, fino a scomparire del tutto: la vita popolare italiana, quella reale e vera, non quella che ci offrono i dépliants turistici. Testimonianze concrete di questa vita sono gli umili oggetti creati faticosamente per una vita di fatica: un aratro di legno, un boccale per il vino, una bandiera per ornare il cavallo, un amuleto. In quasi tutte le parti d’Italia queste forme di artigianato, che talvolta raggiungono il vero e proprio livello dell’arte, sono state sosti­ tuite con piatti di alluminio e secchi di plastica, in un processo naturale che non sempre si è accompagnato alla trasformazione delle condizioni di vita: la plastica ha preso il posto della terracotta nella casa che è la stessa di cento anni fa e per contenere lo stesso pasto di cento anni fa. Così, di tutta una produzione viva fino a pochi decenni orsono, non resta nulla o quasi; solo in alcune zone resta vitale ciò che quasi dovunque è morto e scomparso in maniera assoluta, senza nemmeno lasciar le tracce che hanno lasciato le civiltà lontane nel tempo, delle quali, con gli scavi, è ancora possibile trovare qualche coccio. Questo mondo popolare tradizionale scom­ pare di giorno in giorno, in un’epoca nella quale macchine fotografiche, cineprese e registratori sono strumenti di uso corrente in ogni tipo di lavoro.

Queste considerazioni tornavano alla mente visitando i vari padiglioni della Mostra delle Regioni di Torino, dove non era possibile non notare la sommarietà e la superficialità della scelta degli oggetti artigianali, e rilevare soprattutto che pochi oggetti belli erano stati tolti dalle vetrine o dalle soffitte di questo o di quel museo, anziché essere il frutto di nuove ricerche nelle campagne, nelle case contadine, nelle capanne dei pastori, nelle sacrestie e nelle chiese. Sarebbe stato assai utile, specialmente perche gli oggetti popolari non godono di alcuna tutela e sopravvivono nell attesa di essere gettati via e sostituiti, approfittare dell occasione e dei mezzi disponibili e organizzare una ricerca sistematica.

Il bisogno urgente di salvare il patrimonio artistico popolare era stato sentito in Italia la prima volta nel 1905, quando, come si è detto, Lamberto

Loria centrò il problema dichiarando che era inutile andare a far ricerche scientifiche in questo o in quel continente, dal momento che qui, tra noi, c’era tanto da raccogliere e da studiare in questo senso. Loria andò oltre la formulazione pura e semplice: ideò e riuscì, in mezzo alle solite iniziali mancanze di fondi, a creare un museo che accogliesse le testimonianze del mondo popolare. Alla raccolta di questo materiale si giunse proprio grazie al Comitato delle manifestazioni per il cinquantenario dell’unità d’Italia; Loria infatti, venuto in possesso di una certa somma stanziata dal Comitato per l’allestimento, nell’ambito delle varie manifestazioni, di una mostra di etnografia italiana, potè servirsi di una serie di collaboratori, più o meno specializzati ma tutti animati da una buona volontà quasi eroica, e assegnò a ciascuno di essi una zona del Paese nella quale cercare ed acqui­ stare ciò che era già allora in via di estinzione. Così questi professori di liceo, studiosi locali, maestri, ecc., partirono verso le varie zone alla ricerca di ciò che sarebbe andato irrimediabilmente perduto e che oggi, grazie a quell’instancabile lavoro, costituisce il fondo principale del Museo delle Arti e Tradizioni popolari di Roma.

La ricerca nell’Italia del 1908, 1909 e 1910 (in questi anni infatti si svolse la lenta e accurata ricerca) era davvero difficile. In alcune vecchie fotografie ingiallite ci appaiono le immagini di questi pionieri dell’etno­ grafia italiana: impettiti dentro stretti vestiti e con il viso coperto da enormi baffi, spesso a cavallo di un mulo. Il lavoro si svolgeva tra difficoltà di ogni genere. « Causa il colera non credetti opportuno spedirle gli oggetti che trovansi presso di me » ; « ...di sussistenza in certi luoghi ho dovuto portarmi perfino l’acqua. Oggi dovevo partire per paesi slavi (sette ore di vettura) ma pioggia e vento me l’hanno impedito » ; « In paese non c’è l’acqua ; a me le padrone dell’albergo fanno portare da una contadina una bottiglia d’acqua al giorno, ma venerdì quest’acqua non venne e stetti venti ore senza bere ». Queste sono alcune delle frasi contenute nelle lettere che i vari cercatori spedivano regolarmente al Comitato. E il lavoro era svolto con vera passione e con un disinteresse che commuove. L’attività di questi signori nell’Italia del primo Novecento, attività già iniziata alcuni decenni prima dai folkloristi scandinavi, non è solo commovente, ma è soprattutto importante alla conoscenza in profondo del nostro Paese.

Le poche lettere che seguono stanno a testimoniare l’onestà e la diffi­ coltà di lavoro di questi etnografi di cinquanta anni fa ; la loro pubblica­ zione è oggi un riconoscimento delle loro fatiche.

Esse sono state scelte dall’archivio della biblioteca del Museo nazionale di Arti e Tradizioni popolari di Roma, e sono state scritte da due collabo-54

ratori, il prof. Giovanni Tancredi di Monte S. Angelo (Foggia) e il prof. Athos Mainardi di Livorno, che effettuarono le loro ricerche nelle regioni meridionali. Sono indirizzate al Comitato esecutivo della Mostra. La prima lettera è del Loria stesso.

Ch.mo Signore

Prof. Giovanni Tancredi

Monte S. Angelo (Prov. di Foggia)

9 agosto 1909 Chiarissimo Professore,

appunto perché sapevo di rivolgermi a persona disinteres­ sata e solo desiderosa di incoraggiare un’impresa che può tornare a onore d’Italia, io mi sono rivolto a Lei e non invano. Apprezzo dunque e comprendo il Suo disinteresse ma non capisco per quale ragione Ella non vuole maneg­ giare denaro altrui. Come potrà acquistare gli oggetti senza pagarli? E d’altra parte sarebbe inutile scavar cose belle e notevoli senza acquistarle. Sono dunque pronto a inviarLe qualche centinaio di lire: Ella accondiscenda di buon grado alla mia preghiera, e, sicuro di farmi un vero piacere, mi dica la somma che Le è necessaria.

Grazie di tutto e cordiali, deferenti saluti.

L . Lo r ia

Arpino (Caserta), U settembre 1909 Carissimo Signor Loria,

come Le annunciai con una cartolina sono in Arpino, e qui mi tratterrò diversi giorni per passare quindi nella Ciociaria più propriamente detta.

Stimo mio dovere farLe una piccola relazione su quei che ho fatto in questi primi 15 giorni di lavoro, così Lei potrà farmi quelle osservazioni e darmi quei consigli che stimerà necessari.

Mi sono sempre attenuto alla Sua prescrizione per quanto concerne le osservazioni e le indicazioni di ciascun oggetto, senza curarmi del molto tempo che è necessario spendere a tal uopo.

Avevo, ed ho, con me l’elenco delle cose e indicazioni mancanti che combinai insieme al Baldasseroni e con quello alla mano lavoro, senza tralasciare, s’intende, tutte le altre ricerche.

Feci centro della prima tappa Picinisco, luogo assai inte­ ressante perché posto ai confine della Terra di Lavoro con l’Abruzzo e col Molise di modo che in tempi andati fu luogo di transito assai più che non sia ora.

Lì sarei addirittura morto di fame perché il sagrestano della Chiesa, presso la quale dormivo, è un uomo luridis­ simo e che non disdegna (dicono in paese) cani e topi. Meno male che il Canonico Luigi Doni, un vecchio di 90 anni ma vispo, impietositosi mi tenne sempre a mangiare in casa sua dove son molti di famiglia; tutto ciò, s’intende, gratis. E si può dire non abbiamo mangiato che polli e trote. Ieri, di qui, ho mandato a regalare al detto Cano­ nico una cassettina di dolci. Ho fatto bene? Le gentilezze che ho ricevute sono tali che forse (se Lei lo crede oppor­ tuno) sarebbe una buona cosa che Lei mandasse due parole di ringraziamento al detto Canonico su carta intestata del Comitato. Son piccoli paeselli di montagna e la gente tiene molto a simili cose!

Inoltre il Doni mi ha imprestato una vasta stanza nel solaio, ove ho posto tutte le robe acquistate e dove egli stesso farà porre via via le molte altre da me ordinate e che richiedono molto tempo per la fabbricazione. Così quando tra qualche mese tutto sarà pronto, io farò una scappata rapidissima là, caricherò tutto sopra uno char-à- bancs e lo porterò a Sora o a Cassino per la spedizione. Ho stimato bene far così piuttosto che spedire pezzo per pezzo e ciò per diminuire le spese di trasporto ingentis­ sime in quei luoghi. Inoltre i Sigg. Raffaele e Don Fran­ cesco Doni si sono assunti l’incarico di fornirmi una quan­ tità di notizie folkloristiche e letterarie sul loro comune che conoscono a fondo, notizie che unite alle molte che io so già, vengono a costituire una piccola monografia del luogo.

Disgraziatamente il tempo, sempre pessimo, non mi ha permesso di fare tutte le fotografie e le escursioni che desi­ deravo: ci vuol pazienza. Anche qui, anch’oggi, piove a dirotto!

Monte S. Angelo, 2 gennaio 1910 Egregio amico,

ricevetti le trecento lire, e La ringrazio dell’assoluta fiducia che ripone in me. Le avrei già spedito abiti da donna e da uomo se non mi mancasse qualche oggetto importante. Devo dirLe schiettamente che avrei già rinun­ ziato alla difficile impresa se non ne avessi fatta formale promessa al Prof. Loria. Bisogna, con questa gente anal­ fabeta, incredula, astuta, ricorrere a sotterfugi, discutere, convincere, gridare, inquietarsi per raggiungere l’intento ed io in realtà ho stiracchiato il centesimo sui prezzi, come più non si poteva. Certi oggetti li ho pagati il quarto del costo primiero, certi altri il terzo, la metà e qualcuno, dif­ ficile a trovarsi per la forma, l’intero.

Ella, appena riceverà i manufatti, li esaminerà atten­ tamente, e se rimarrà contento continuerò, al contrario sceglierà altri più esperti di me.

Intanto Le dico che non ho comprato le tìbie d’argento da mettersi sui numeri 11902 e 11903 perché esse pesano 10, 11, 12 once e la padrona non vuol cederle per un prezzo inferiore a L. 5,10 l’oncia. Esse verrebbero a costare dalle 50 alle 60 lire, mentre qui l’argento vecchio si vende a L. 2,50 oppure 3,00 l’oncia.

Dappoiché il costo è esagerato, dato il valore dell’argento vecchio, ho creduto bene di non agire senza il Suo permesso.

Come devo regolarmi per la spedizione degli oggetti voluminosi già acquistati?

Raccomando di mandarmi altro denaro. Distinti ossequi.

Dev.mo

A . Ta n c r e d i

Termoli, 27 gennaio 1910 Caro Baldasseroni,

[...] delle cose che oggi mi chiedi qui ce ne è: già avevo pensato io a raccoglierne. Ora sono internato nelle colonie slave e albanesi : lavoro difficoltoso per molti rispetti (ho

trovato altre tracce della « couvade » e una faida ancora in pieno uso). Disgraziatamente non ci sono mezzi di comu­ nicazione e il lavoro procede un po’ lento. Ier l’altro avemmo un ciclone da S.W. ed io ero in piena campagna ma me la cavai assi bene. Domattina vado a Petacciato (pedibus calcantibus). Ti saluto insieme a tutti gli altri.

Spesso penso a te che la sera te ne vai nelle conversazioni e nei teatri. Spero che un giorno vorrai fare una corsa in queste campagne tanto per averne un’idea. Ma per ora non te lo consiglio! [...].

Tuo aff.mo

Ma in a r d i

Termoli, 10 febbraio 1910 Caro Loria,

ho avuto i Suoi saluti : grazie. Mando questa a Catania, così alla ventura, perché né so il suo indirizzo né so quanto si tratterrà costì. Io, come Lei, lavoro con fervore ma purtroppo debbo dirLe che qui il lavoro va lento sia per la stagione sia per l’assoluta mancanza di mezzi di trasporto (ho fatto già a piedi un numero di chilometri rispettabile) e di sussistenza (in certi luoghi ho dovuto portarmi per­ sino l’acqua!!), sia perché molti promettono e nessuno ha l’energia di muovere un passo! Ma si farà lo stesso: la mia fiducia è sempre la stessa. Oggi dovevo partire per paesi slavi (7 ore di vettura) ma la pioggia e il vento me lo hanno proibito: e anche stasera piove. Arrivederci e coraggio !

Affettuosamente,

Ma in a r d i

Termoli, 25 marzo 1910 Caro Baldasseroni,

ho ricevuto la raccomandata con i due chèques di lire mille ciascuno. Disgraziatamente l’improvvisa bufera di neve di jeri mattina mi ha arrestato a Campobasso e così

non ho potuto vedere la fiera di Bojano dove avevo già stabilito tutto per molti acquisti importanti e ritiro di robe ordinate, ecc., ecc. Ma col tempo non si discute e ci vuol pazienza. E che freddo, jeri. Oggi qui non si può camminare dal vento. Entro oggi spedisco tutto al Museo, tranne gli ori e le schede che porterò io stesso a Firenze giovedì o venerdì prossimo. Grazie a te e Loria degli auguri che contraccambio cordialissimi. Stanotte parto per Livorno (14 ore di treno) [...].

Saluti e auguri a tutti,

Aff.mo

Ma in a r d i

Sono in giro per il paese in cerca d’un po’ di trucioli o paglia per imballo ! !

Campobasso, 22 giugno 1910 Caro Baldasseroni,

è cominciato dopo così faticoso seminare, il periodo del raccolto. E’ vero che raccogliere è faticoso quanto il semi­ nare, anzi di più, ma in fondo ho la soddisfazione di vedere i materiali. Se le cose finiscono come voglio io, credo che il Molise farà alla mostra una bella figura ; spero, figurati ! non inferiore alla Sardegna, come ricordo che un giorno scommisi col Loria.

Ma se le cose riescon bene, Vi avverto che merito lode perché non avrei mai immaginato d’incontrare tante dif­ ficoltà. Se non ero livornese (tu sai che cosa significa) credi abbandonavo l’impresa. Ma siamo guerrieri nati e non conosciamo che la Vittoria! Pensa a un uomo solo che percorra il centro dell’Africa ! ! Soltanto i sospetti che sono sopra di me scoraggerebbero molti. Poi mi ha nociuto l’articolo (intervista) del Loria sul Giornale d’Italia perché ormai tutti sanno che lavoro per l’Esposizione e puoi imma­ ginare i ricatti e le... invidie odiose. Sicuro! Qui c’è un mucchietto di « professori » che mi fa guerra atroce cre­ dendo nientemeno che io sia un beniamino del Ministero « che mi ha mandato qui per favorirmi », tanto che è

comune sentir dire quando entro alla trattoria o al caffè : « ecco il figlio di papà ». Il buon amico Trombetta, l’egregio fotografo-artista, mi ha narrato che specialmente furibondo contro di me e contro la Mostra etnografica è un povero «professore» di calligrafia che (nota bene!) non conosco nemmeno di vista.

Tutto ciò per darti un’idea dell’ambiente!

Anelo di avere il nuovo indirizzo tanto per spedire le cose grossolane e cominciare a levarmi qualche pensiero.

Intanto è necessario tu mi mandi parecchi numerini rossi da attaccare ai pezzi nonché (e questo al più presto) del denaro perché domani spendo a Roccamandolfi ciò che mi rimane e rimango al verde. Ti prego di far fare bene l’annotazione dei denari per evitare un altro errore che mi tenne tre giorni in orgasmo. Ti fo notare (perché tu verifi­ chi) che è da marzo che non ricevo nulla. Ho potuto supplire spendendo la riservuccia mia. E ’ assolutamente necessario che io sappia che cosa devo fare delle belle robe (in parte già pagate da tanto tempo) che ho in deposito a Picinisco. Il costume di Guardiaregia lo avete o devo prenderlo io?

In quanto a quel che mi dici circa il lavoro dello scultore in legno, mi trovo imbarazzato a contentarti. Due sono le ragioni. Prima: è tutt’altro che facile, anzi quasi ovunque impossibile fare studi fotografici in grande di teste. Biso­ gna contentarsi della piccola istantanea di sorpresa. Tutte le donne hanno i loro uomini in America è uno dei patti, alla partenza, è appunto il divieto di farsi far fotografie. Ti parrà strano ma vieni qui a provare e vedrai.

Seconda: come si può per lettera far capire l’atteggia­ mento, la forza, l’aspetto che deve avere il tipol Special- mente l’espressione del viso come potrei descriverla? E’ cosa questa da discutere e stabilire a voce caso per caso. Ma la cosa che, per carità, raccomando a te e allo scultore, è di NON servirsi MAI delle cartoline illustrate.

Appunto perché le villane non si fanno fotografare, le cartoline provengono da mascherate di signore che in gene­ rale sono di altre provincie (mogli vanesie d’impiegati). Ora queste signore curano di « abbellirsi » infischiandosi altamente dell’etnografia. E perfino il costume alterano e quasi sempre li ori. Se io talora mando delle cartoline illustrate non è certamente perché vi servano di figurino!

In quanto alle fotografie che vado facendo io, come posso mandarle? Non ho nemmeno modo di svilupparle! Finché non sto fermo non posso prepararle!

Vorrei sapere (è una idea che mi è venuta ieri in cam­ pagna) se alla Mostra ci starebbe bene un pupazzo vestito da « Banda di Agnone » detta anche « a cauci ’n culo ». Queste locuzioni si riferiscono a un di quegli uomini che tu hai veduto in Toscana le mille volte e che suonano insieme tanti strumenti : timpani, tamburo, gran cassa, zampogna, campanelli. Io potrei all’occorrenza, credo, metterne su uno autentico conoscendo un uomo che si è ritirato da così artistica industria. E’ bene tu chieda consiglio a Loria.

Come vedi ti ho scritto troppo, ma siccome starò parec­ chio all’aperto senza poter scrivere ho voluto, con questa, dirti tutto.

Saluta il Loria affettuosamente e tu credimi tuo aff.

Ma in a r d i

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