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Aldo Ross

Nel documento Dialoghi di architettura (pagine 128-140)

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L’architettura sulla base di un’idea

Io credo di aver iniziato non certo pianificando la mia vita professionale: ho tuttavia fatto delle scelte nel senso che pensavo fosse meglio studiare un fondamento, una teoria, sulla base della quale potere poi iniziare l’architettura.

Quando ho completato i miei studi lo stato dell’architettura, quella che oggi viene definita l’architettura degli anni Sessanta, era a livelli veramente bassi.

Già negli anni Cinquanta, quando ho frequentato, in modo molto discon- tinuo, il Politecnico di Milano1, quello che più mi aveva colpito era l’insuffi-

cienza e l’impreparazione dei docenti che allora vi insegnavano. Alla Facoltà di Architettura ho attraversato momenti di grande crisi e i miei rapporti con molti docenti di allora sono stati quasi “traumatici”: fanno eccezione solo alcuni casi come il professor Luigi Dodi, ricordo, lo stesso professor Portaluppi, seppure sempre attaccato e criticato, e naturalmente Ernesto Rogers che ho conosciuto in fase di chiusura del mio corso di laurea2.

Nell’arco della mia carriera ho quindi attraversato diverse tappe e per que- sto credo di essere l’architetto che nel tempo ha avuto più denominazioni: da “politico” a “letterato”, da “pittore” a “architetto”, adesso addirittura “professio- nista”; io sono sempre stato incurante di queste aggettivazioni, che dopo tutto altro non sono che aspetti differenti di un’unità, cercando, piuttosto, di seguire con coerenza una linea. Anche questa mia ultima fase, quella professionale, caratterizzata da una produzione molto intensa, è da leggersi all’interno di un processo finalizzato di continuità tra studio teorico e costruzione; il tempo e la fortuna hanno poi concorso, come il principio di una valanga, ad alimentare l’intensificarsi di progetti e realizzazioni nel corso degli ultimi anni3.

Comunque non esiste mai, almeno volontariamente, una percepibile rottu- ra fra i due tipi di attività: i confini tra le discipline sono molto labili e ancora oggi, se mi innamoro di un progetto, mi piace fare un bel disegno, scrivere un saggio, indipendentemente dalla fase “professionale” che sto attraversando.

La cosa più importante nel lavoro di un architetto è dare un’idea: un’idea che dimostri una certa superiorità rispetto allo schizzo buttato giù di getto, o

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all’appunto preso casualmente. L’architettura nasce da un’immagine, un’imma- gine precisa che è calata nel profondo di noi stessi e si traduce, appunto, nel disegno, nella costruzione. Il momento più importante è proprio l’idea dell’ar- chitettura. Solo quando si ha in testa questa idea si può iniziare a disegnarla e, di conseguenza, a perfezionarla. A chi a volte mi chiede se sono contrario ai computer e all’elaborazione informatica del progetto rispondo che il progresso avanza ed è giusto che avanzi sempre di più, ma la mente umana ha ancora una precedenza – e spero che sia sempre così –, un peso molto importante nella verifica, nella riproduzione, nella messa a punto. Senza un’idea di fondo non si può avanzare nell’architettura; penso altresì che questo discorso, ancora una volta, sia valido non solo per l’architettura: nemmeno nei migliori progetti ae- reonautici si va avanti senza un riferimento iniziale.

La mia architettura nasce sempre e comunque da una sua visione generale. Questa prima immagine è quella che compare da subito nei miei primi schizzi; difficilmente poi modifico sostanzialmente questa idea iniziale: da essa si svi- luppa tutta la progettazione. Ciò non esclude che successivamente subentrino i particolari che comunque provengono da una suggestione ulteriore che riesce ad infiltrarsi nel progetto generale. Questo è avvenuto soprattutto nei miei ul- timi grandi progetti, come ad esempio quelli redatti per Berlino4, alla base dei

quali vi è l’idea di come ricostruire Berlino, anche se poi ovviamente il fatto di trovarsi in una determinata parte della città provoca l’insinuarsi, spesso positi- vo, di varie memorie e frammenti.

Gli antichi narravano che Minerva nacque dalla testa di Giove già comple- tamente armata: l’idea iniziale dei miei progetti contempla già la risoluzione di molti problemi non solo di ordine funzionale e distributivo, ma anche di natura tecnologica e costruttiva. Quindi anche se io non parto certo dai particolari, l’idea generale già li contiene. Per questo, infatti, ho solitamente un ottimo rap- porto con le figure delegate ad occuparsi degli aspetti specialistici del progetto quali gli ingegneri strutturisti e gli impiantisti.

Ad esempio, nel progetto per il Museo di Maastricht, in Olanda5, avevo

sviluppato per Alexander van Grevenstein, direttore e committente molto par- tecipe, una serie di disegni sulla base dei quali il mio studio ha elaborato le tavole di progetto; quando queste sono passate alla società olandese incaricata dell’ingegnerizzazione del progetto, i tecnici si sono lamentati del fatto che non avevano lavoro da svolgere in quanto le nostre tavole contenevano già tutte le informazioni necessarie alla costruzione.

Naturalmente, in un’opera come il Museo di Maastricht è necessario inter- venire anche nelle fasi più avanzate della realizzazione con una serie di continue verifiche che sono passaggi assolutamente necessari. Con il passare degli anni sono anche diventato più attento, ma questo per un fatto autobiografico, per riporti e citazioni.

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Tuttavia è ancora oggi un mio vanto il fatto di non aver mai voluto verifi- care l’opera direttamente in cantiere: i primi disegni per i Gruppo Finanziario Tessile6 che ho mostrato a Marco Rivetti, l’amministratore delegato che raf-

figurava la committenza, rappresentano esattamente il GFT che oggi esiste a Torino, non è cambiato un mattone.

Anche il progetto per la torre a Città del Messico7, pur avendo attraversato

certe difficoltà per la crisi attuale del Messico, è stato tradotto graficamente da una società olandese esattamente come è nato sulla carta, in pietra lavica nera locale, quella usata in Messico dai Gesuiti, con una disposizione delle finestre identica a quella degli schizzi appesi qui in studio.

Architettura e disegno

Sono assolutamente certo del legame tra l’architettura e la sua espressione, e non solo quella grafica, direttamente legata all’architettura, ma anche quella letteraria e addirittura quella cinematografica o fotografica, che sono forme di espressione legate all’uso di tutti i mezzi che la tecnica mette oggi a disposizio- ne. Così è sempre stato del resto per gli architetti dell’antichità. Io non credo che una buona qualità grafica o letteraria sia a discapito della qualità e della conoscenza dei mezzi costruttivi. Certo, bisogna anche tenere in considera- zione che cosa significa oggi parlare di mezzi costruttivi e valutare la profonda rivoluzione che avviene, continuamente, in questo campo. Nel corso degli anni infatti le esperienze si modificano.

Io credo che ancora oggi per un architetto sia molto importante saper di- segnare: questo aspetto non è stato fondamentale solamente durante l’epoca d’oro del Rinascimento, un periodo in cui gli architetti erano generalmente anche grandi pittori o viceversa. Il disegno è e sempre sarà una forma di cono- scenza del reale molto importante, insostituibile. Ricordo i miei primi contatti al Politecnico di Milano con il Disegno dal vero: sebbene disastrosi, mi sforzavo tuttavia di capire le potenzialità dei mezzi, il significato dei segni, il valore del disegno. Questo discorso non è solo un fattore esclusivo, bensì si basa su un rapporto di natura statistica: molti grandi architetti sono stati anche grandi disegnatori, o addirittura grandi pittori.

Basti pensare a Muthesius, Asplund, Berlage che addirittura dipinse fino ad una certa età, o ancora Adolf Loos, nell’indole pittore e scrittore forse ancor più che architetto. È evidente come l’importanza di tale componente sia rimasta, fino al Movimento Moderno, molto forte. Ad esempio, un architetto come Mies van der Rohe che ha aperto la strada alla tecnologia dettando nuove condizioni dell’architettura ha fatto disegni – si pensi a quelli per l’Alexanderplatz8 – che

per la loro bellezza e ricchezza di significato, possono essere considerati fra le più importanti opere d’arte. La formazione, indubbiamente, è in questo campo

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di grande rilevanza. Ciò comunque non esclude la validità di altre educazioni: l’Alberti ad esempio aveva avuto una rigorosa educazione letteraria e può essere riconosciuto come uno dei maggiori architetti italiani o addirittura del mondo.

Non credo, e questo è uno dei problemi riscontrabili nelle facoltà di archi- tettura, che esista una linea diretta tra educazione Beaux-Arts e formazione di architettura, anche se l’insegnamento delle Accademie e appunto delle scuole di pittura Beaux-Arts ha indubbiamente influito molto sulla nostra disciplina.

Il disegno è il metodo immediato di espressione di quanto pensato; pro- babilmente lo stesso discorso vale per la musica e la letteratura, anche se l’ar- chitettura richiede poi un tempo più lungo e un insieme di maestranze e colla- borazioni per la sua messa in opera più complesso rispetto al lavoro svolto, ad esempio, da un poeta.

La validità del disegno come espressione di un’idea che già esiste nella men- te dell’architetto è forte anche per quegli architetti che in forma provocatoria proclamano di essere soddisfatti di non saper disegnare o comunque di non disegnare bene: lo stesso Rogers, nei suoi schizzi – alcuni secondo me molto belli – trasmetteva un qualcosa della sua intelligenza e del suo spirito poetico che andava ben oltre una valutazione del gesto grafico.

Il principio razionale dell’architettura

Molti studenti di tutte le nazionalità, dal Giappone alla Malesia, agli Stati Uniti, spesso mi interrogano su cosa significhi progettare in tutto il mondo, in contesti e situazioni differenti.

Ritengo molto importante, anche ai fini della disciplina, il concetto di tra- smissibilità in architettura, la necessità cioè di creare, costruendo, dei principi di base facilmente percepibili e riproducibili. È poi sulla base di questi fondamenti che la personalità individuale di ogni architetto si sviluppa.

Quando si stabilisce un principio razionale dell’architettura, questo è tra- smissibile anche se nel corso della sua trasmissione avviene inevitabilmente un cambiamento: ad esempio l’architettura palladiana è basata su elementi e prin- cipi elementari facilmente codificabili ma già Palladio stesso nelle Ville Venete non è il Palladio di Venezia; così le ville settecentesche veneziane non sono più il Palladio precedente, e così tutta la Russia, l’Inghilterra, la Francia, la Louisiana, dove sono state sviluppate valide forme dell’architettura palladiana, non sono più il Palladio. Tuttavia nel suo caso è stato stabilito un principio di architettura che si è dimostrato molto valido e ha prodotto molto.

Questa non vuole essere una difesa dagli attacchi a volte sferrati contro i cosiddetti “rossiani”9 perché io sono convinto del fatto che un architetto può

sviluppare personalità e linguaggio individuali proprio dopo aver appreso il principio di base dell’architettura.

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L’Architettura dell’idea

La grande architettura gesuitica, ad esempio, ha influenzato molti architet- ti. Io credo molto nell’importanza degli esempi per la diffusione dell’architettu- ra: una volta che un principio razionale dell’architettura è stato stabilito, questo sopravvive per lungo tempo attraverso le sue potenzialità di sviluppo.

Un altro esempio è l’architettura Beaux-Arts di Parigi che trasportata negli Stati Uniti ha creato Broadway, e, trasformandosi e modellandosi ad esse, le grandi città americane: perché non si può certo dire che a Broadway si è a Parigi anche se l’influenza è chiaramente quella parigina.

Raccontare l’architettura “dal di dentro”

Credo sia molto importante – concetto che del resto ricorre in Baudelai- re, nella grande critica e nei poeti francesi – che l’artista sia colui in grado di raccontare se stesso. A supporto di questo aspetto esistono testi bellissimi: tra questi cito proprio il più anomalo, quello del Pontormo, che nella sua autobio- grafia quasi non parlando di pittura riesce a delineare uno spaccato della pittura fiorentina di grande valore. Lo stesso Vasari, che era una figura ancor più del mestiere, uno storico, ha dimostrato questa capacità di parlare “dal di dentro”.

Esiste naturalmente anche una critica più “letteraria”, che tra l’altro ha con- tribuito molto all’architettura, come Ruskin, lo stesso Proust, o come l’inven- zione dell’architettura romantica, aspetti che riflettono su un mestiere delle idee che non appartengono al mestiere stesso. Purtroppo oggi se non ci sono più i Baudelaire non ci sono più nemmeno i Ruskin. Noi abbiamo avuto in Italia un grandissimo esempio, quello di Tafuri, che ha rappresentato se non proprio dal di dentro ma con una elevatissima interpretazione letteraria e umana l’architet- tura di quest’ultima generazione, di cui ha vissuto tutte le vicende.

Rogers, ad esempio, è la persona che ha rotto la chiusura provinciale del mondo milanese del Politecnico di quegli anni e con “Casabella-Continuità” ha aperto una finestra sul mondo molto importante. Rogers, ricordo, citava esem- pi lontani come per noi adesso è facile fare: citava New York come fosse Milano o Parma, Tokyo piuttosto che Pechino. Allora si era veramente in presenza di una chiusura insormontabile non tanto per questioni pratiche di trasporti o per questioni sociali, ma proprio per una chiusura di natura culturale. Rogers è stato il primo ad aprire e ad importare in modo veramente nuovo la cultura dell’architettura moderna in Italia. Anche se prima ci sono state altre figure, penso che lui sia quello che più di altre l’ha vissuta in primo piano: ha insegnato in Europa, America, in Argentina. Aveva una formazione ricchissima: triestino, ebreo, inglese.

Oggi stiamo purtroppo attraversando un momento di grave decadimento, un fenomeno questo che va oltre la critica architettonica. Prima, le riviste come “Casabella”, o anche le riviste contrarie a “Casabella”, erano riviste culturali,

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che si battevano in difesa delle proprie idee. Oggi io, che le ricevo tutte, non ne apro purtroppo neanche una perché il loro unico scopo è quello di riempire i tavoli quasi esclusivamente di pubblicità. A volte mi chiedono di pubblicare un progetto: magari lo pubblicano benissimo però non è più riscontrabile al- cun punto di vista e trovo che questo aspetto sia molto negativo, soprattutto per i giovani e per gli studenti universitari. Gli aspetti propedeutici e i riflessi didattici che questo tipo di pubblicistica implica sono assolutamente negativi. Io ai miei studenti consiglio sempre solamente una ventina di libri più che l’abbonamento a una rivista.

Questa decadenza mi sembra tra l’altro generalizzata anche agli altri am- biti internazionali perché ormai vengono sfruttati gli argomenti scandalistici da certi tipi di testate: un’analisi vera dell’architettura non viene sviluppata da nessuno. Ultimamente ho visto un intero numero di “Der Spiegel” su Berlino che assomigliava in toto più alle pagine scandalistiche dei nostri giornali, che non alla rivista che conosco e ammiro.

L’architettura tra competenze e specializzazioni

Quando mi sono iscritto al Politecnico, nel 1949, il biennio di architettura era praticamente uguale a quello di ingegneria – avevamo professori come Ma- sotti, Finzi, Chiolini10 – e per me la grande scoperta dell’architettura è avvenuta

proprio in questo periodo di insegnamento di carattere ingegneristico che, tra l’altro, mi appassionava molto.

Da allora ho sempre avuto e ho tuttora un interesse nei confronti della co- struzione di tipo ingegneresco, ancor più che di tipo architettonico. Ma la mia educazione milanese spazia tra Rogers e Gardella. In quegli anni, va ricordato, anche Franco Albini faceva scuola. Pur avendo un ricordo di Franco Albini come di una persona correttissima non ho mai avuto grande affinità né passione per il suo modo di fare architettura. Addirittura mi sento di dissentire su alcune cose: soprattutto quando i progetti raggiungono certe scale e certe dimensioni il metodo albiniano penso perda validità.

Oggi si va sempre maggiormente verso una impostazione del progetto ca- ratterizzata da un elevato grado di specializzazione.

Quando ad esempio si realizza un aeroporto e si dipende da una compagnia americana che fornisce i ponti, da una compagnia tedesca che si occupa degli assemblaggi, e così via, l’architetto diviene una figura paragonabile a quella di un regista che deve essere preparato su tutto: la natura della commedia, le re- gole della recitazione, l’uso delle luci. Senza il tecnico delle luci, senza l’attore, senza l’esperto però, anche il regista non può fare niente. Io credo che oggi l’architettura richieda sempre di più dei registi all’altezza di dominarla perché è impossibile gestire un intero aeroporto o i due blocchi che sto costruendo a

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L’Architettura dell’idea

Berlino11 e che sono un pezzo di città. I progetti di questo tipo costituiscono

delle grandi esperienze per un architetto: in situazioni come queste, lo stabilire se è più importante chi si occupa delle condutture elettriche o l’architetto non è facile, in quanto sono entrambi assolutamente indispensabili.

Quando ho progettato l’aeroporto di Linate12, che non è nemmeno tra i più

grandi d’Europa, non avrei potuto lavorare senza essere affiancato da un team di specialisti. L’architetto non può permettersi, in situazioni come queste, di avere il controllo su tutto, anche perché sarebbe assurdo ignorare l’alta qualità della attuale tecnologia. E oggi è necessario fare un corretto uso della tecnologia.

Le competenze all’interno del mio studio, nel caso di progetti di elevata complessità e di grandi dimensioni, sono molto forti: ad esempio, per seguire i progetti in Olanda c’è un architetto olandese che intrattiene un continuo rapporto con i progetti in corso di realizzazione, anche se poi anch’io, in questo contesto, ho dei legami e delle conoscenze dirette che seguo e coltivo. In altri casi, come ad esempio Berlino, è richiesto per consuetudine un altro tipo e un’altra qualità di lavoro per cui abbiamo dovuto produrre dei pacchi di disegni di particolari. Quindi, se per certi aspetti – come il fatto di non seguire il can- tiere – sono accusato di tradizionalismo per altri, al contrario, sono giudicato tra i più avanzati.

Un atteggiamento come quello da me adottato è, nei paesi più sviluppati, molto più diffuso e sperimentato. L’America ad esempio tende sempre di più a questo tipo di figure in grado di coordinare il lavoro: un architetto come Philip Johnson – un maestro per me – riesce a controllare progetti di grande comples- sità e proporzioni.

Il vecchio sogno degli architetti tecnologici degli anni Sessanta che giunge- vano, studiandoli, sino ai minimi dettagli per me non ha significato: io mi sono sempre rifiutato – e per questo ho anche avuto dei problemi con l’Ordine degli Architetti a cui appartengo – di fare un disegno di un serramento quando ci sono fabbriche e progettisti specializzati per disegnare e produrre serramenti e lo fanno, tra l’altro, benissimo. Per me è assurdo che oggi, per avere un’appro- vazione, sia necessario fare disegni di questo tipo.

Credo che, come ho sempre sostenuto, non esista un rapporto che va “dal cucchiaio alla città’’. La mia fortuna come designer è dovuta a fatti sporadici e personali: sono amico e vicino di casa di Alessi13 che ad un certo momento

mi ha chiesto di disegnare una caffettiera e da lì, scoprendo anche suggestioni autobiografiche dove la forma della caffettiera richiama il mondo delle cupole, sono nati questi disegni che una volta entrati nel processo produttivo hanno avuto uno sviluppo più ampio. Mentre nego da un punto di vista ideologico la frase “dal cucchiaio alla città”, che è una pura degradazione ideologica, penso invece che il processo artigianale per un architetto sia una cosa importante, più legata al suo mestiere.

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Più forte è la specializzazione, più forte deve essere l’idea generale, perché a certi livelli se uno si ferma a guardare la maniglia della finestra è perduto. Pro- vocatoriamente dico che non vado in cantiere finché il progetto non è finito, ma questo per me significa che credo nel primato del progetto rispetto al cantie- re. Il cantiere è una macchina che va progressivamente migliorando, seguendo un processo produttivo sempre più preciso, che deve comunque essere sempre

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