• Non ci sono risultati.

L’Architettura del colloquio

Nel documento Dialoghi di architettura (pagine 90-110)

91

L’architettura dell’interpretazione

Il lamento di qualsiasi persona alla quale venga avanzata una domanda pre- cisa, consiste sovente nello schermirsi: “rispondere non mi è facile, l’argomento è complesso”. Così facciamo anche noi, ora che Emilio Faroldi ci chiede di dire la nostra sul “progetto di architettura oggi”.

Potremmo anche essere evasivi, non parlare tanto delle difficoltà dell’archi- tettura, ma delle difficoltà di oggi: mettendoci assieme agli altri, senza precise delimitazioni di responsabilità. C’è però qualcosa di giusto, nel non rinchiuder- ci in un ruolo professionale, definito e concluso. Se una prima delimitazione sta fra il lavoro di ufficio e di cantiere, fra il nostro mestiere e la scuola, un’apertura certa è verso il luogo nel quale lavoriamo, e dove il progetto nasce e si coagu- la; un’ulteriore apertura è nella nostra vita quotidiana, che riguarda Torino, il Piemonte come il resto del pianeta1. La difficoltà di aprire e chiudere la visuale,

di collimare un punto oppure un intiero pezzo del mondo, è anche difficoltà operativa; fra tante condizioni limite, sta certo la necessità di tracciare un’im- magine, una figura, che non sia un semplice arabesco.

Tutti vogliono sapere come si fa a camminare nel bosco senza perdersi. Si possono citare tanti accorgimenti collaudati: il nostro consiglio è quello di entrare nel bosco e di tentare di uscirne. Molte volte, dopo un lungo percorso, fra tracce promettenti e ostacoli imprevisti, anche il ricercatore che si è perso nel bosco, ritorna nel punto in cui era partito: già questa è una esperienza utile, perché porta a scartare quella speranza intuita, per accantonarla. Certo occorre ripartire: ma il coraggio non lo si può dare a chi non ce lo ha, e nemmeno la voglia di cominciare ogni volta da capo.

Esiste, al principio di ogni itinerario progettuale, la sensazione di dover mettere mano ad una materia caotica e sfuggevole: e la tentazione di trovare su- bito il bandolo della matassa è illusoria. Così è per il successo nella professione: un progetto subito apprezzato da un Committente che ha fretta, il concorso su- bito vinto, i disegni subito approvati dalla Commissione Edilizia; ma sono inizi dai quali diffidare. Anche le opposizioni al progetto, anche le varianti richieste,

92

possono costituire, a nostra scelta, fasi di arricchimento oppure occasioni di frustrazione.

Pensiamo che si sbagli meno ogni volta che si ritorna sui modi di vita dei cosiddetti utenti, sulle loro richieste, su quelle che paiono a noi e loro le “vere” esigenze, sul consolidato fitto dibattito che segue, per porre alla prova il neces- sario: che è spesso nascosto.

Pensiamo che si sbagli meno quando si pensa a quella costruzione che deve essere concepita là, per quel luogo; che deve avere forma, colori, materiali o che altro, adatti ad interpretarlo. Interpretare è il punto: perché può volere dire riconoscere presenze alle quali accostarsi per continuità, o presenze alle quali accostarsi per opposizione. Un caso e l’altro non sono in alternativa, quasi giocati dalla sorte; la continuità o l’opposizione sono condizionate dalla nostra volontà, dalla nostra scelta: il che vuol dire anche semplicemente dalla nostra capacità di concludere, continuare, compiere un discorso, o tutto all’opposto dalla nostra incapacità totale a seguire il discorso degli altri, recente, passato, remoto, per continuarlo in modo diverso. E così può nascere in noi qualcosa che è ben lontano dal tacito ascolto, che non è però nemmeno un grido – nel senso che cerchiamo di contenere le nostre reazioni entro i limiti del buon senso o del buon gusto, estesi oltre ogni limite comune a nostro comodo –.

Il percorso progettuale che non amiamo definire creativo, ma che ci limitia- mo a dire mnemonico, suggerito dalla memoria, oppure intenzionale, spinto al di fuori del presente concreto, non coincide necessariamente con l’iter burocra- tico della progettazione: anzi procede a salti, su quella linea quasi continua che segna i passaggi dal progetto di massima a quello esecutivo.

Spesso è il particolare vicino al vero, a risolvere il nostro progetto di mas- sima, ma altre volte avviene il contrario: un primo pensiero condiziona ogni successiva specificazione. Ci siamo trovati nel primo caso per le “piramidi rove- sciate” di via Sant’Agostino a Torino2, nel secondo caso per il primo grado del

concorso per il teatro di Parma3.

Parlare di un “nostro atteggiamento” è forse onesto: “nostro” vuol dire co- mune solo nel senso che è divenuto tale dopo scambi attivi fra noi due, nel ten- tativo di scegliere o di eliminare una proposta, nel farla riemergere o di nuovo soccombere. Qualche volta uno di noi due si affeziona ad un’idea personale: spesso ognuno di noi alla propria. Ma questo è nel gioco degli scambi, non mai delle certezze. Parlare di atteggiamento è forse anche giusto, innanzi tutto per non dire troppo; per suggerire come ogni volta che progettiamo siamo lì per lavorare, sempre con qualcosa dentro che c’è già stato e che c’è di nuovo. Senza pensare che per il fatto di aver già doppiato qualche capo pericoloso siamo più al sicuro; sentendo sempre con piacere quel momento in cui la cima è sciolta e la navigazione riprende. Certo che pensiamo spesso ad altri, che ci hanno prece- duto nel nostro lavoro: sono pensieri ricorrenti, costruiti dalla nostra memoria.

93

L’Architettura del colloquio

Solo raramente possono parere elaborazioni critiche, perché stanno dentro ri- cordi immediati, pensieri meditati a lungo.

Se ricordiamo Franco Albini, ci pare di evocare una soluzione tecnologica di felice invenzione, applicata ad un progetto svolto con mirabile concentrazio- ne nelle sue necessarie fasi.

Un pensiero quindi forte, suggestivo, legato a tecnologie presenti o latenti4.

Un altro suggerimento ci viene da Albini: pensare all’architettura dell’edi- ficio così come si pensa all’arredo, nella fiducia di individuare una tecnologia risolvente. Siamo stati a lungo a meditare attorno agli uffici INA di Parma, come attorno alla Rinascente di Roma: ci veniva, da quei due isolati “tipi”, un’indicazione forte all’azione; un incoraggiamento motivato attraverso i mezzi presenti nel cantiere, oppure ancora soltanto richiamabili all’interno del cantie- re. Questa sensazione l’abbiamo provata in prima persona, per il lavoro per la Snam, a San Donato Milanese5.

Parliamo qui soprattutto di prime impressioni. Certo le possiamo sorpren- dere nel tema stesso, appena la committenza in qualche modo lo delinea: certo le cerchiamo subito sul posto, per cogliere un esito alle nostre prime impressioni.

Dominare, non contrastare: contrastare, non dominare. Oppure: continua- re, non interrompere. Scegliere forme e colori e disposizioni o determinarle al di fuori di un vocabolario di uso immediato, sono altre alternative possibili.

L’impressione, la prima come ogni altra successiva, coinvolge presto esi- genze di vita, forme, materiali, senza mai tentare di operare per separate parti.

Il materiale scelto, la sua collocazione nel contesto tecnologico, diventa riferimento prevalente, mano a mano che le fasi di progetto avanzano. E così il materiale è senz’altro, di per sé, mezzo espressivo: proprio perché inserito in un contesto ricco di esiti. Le possibilità che restano aperte vengono dalla storia e dall’attualità; il loro coagularsi in impressioni prevalenti può costituire un punto fermo per proseguire – o per decidere di ritornare indietro –.

Chi cerca da noi una ricetta per progettare presto e bene, fugga lontano. Noi lavoriamo molto e lentamente, secondo traiettorie incerte. Non è que- sto un segno connesso alla nostra età, ma derivato da tante nostre esperienze più giovani, molto più giovani: originarie.

L’idea architettonica come “arte” della continua ricerca

Rappresentare questo concetto significa perseguire il tentativo di interpre- tare le potenzialità di un tema, interrogandoci in un continuo passare dal parti- colare al generale, ripercorrendo il progetto avanti e indietro. Questo continuo trascorrere, significa compiere, tentare di compiere un’operazione ermeneutica che, come tutte le ermeneutiche, incontra scacchi, momenti di ritorno, can- cellazioni. Come però si dà per ogni idea ermeneutica, ogni interrogarsi, come

94

ogni interpretazione sono sempre tali da rimettere in gioco l’intero sistema, l’intera serie delle variabili presenti, intuite, richiamate.

Non sappiamo mai se, giunti ad un certo punto di questo percorso, possia- mo proseguire o se troviamo la strada chiusa e dobbiamo ricominciare da capo. La linea ermeneutica rappresenta forse un’idea dell’architettura vista come in- terpretazione e come enunciazione di un’ipotesi forte, che regge un sistema di progetto.

Anche quando si è in cantiere si deve avere il coraggio di dimenticare l’i- dea base dell’insediamento per rimettersi in gioco e rimettere in discussione criticamente ogni variabile predeterminata: pur sempre nell’ottica e nella piena coscienza, da noi tenacemente perseguita, di dover intervenire in questa fase con cautela: il meno possibile.

Noi siamo architetti che in cantiere tendenzialmente non prendono nean- che in considerazione l’idea di far demolire qualcosa: ma tendono se mai ad ag- giungere, a perfezionare, agendo per “addizione” piuttosto che per “correzione”: pur sapendo comunque che nel lavoro qualche scacco può sempre aver luogo.

Con metafora – se vogliamo un po’ banale – parleremmo spesso di silenzio: quando ci troviamo davanti al foglio bianco viviamo infatti momenti di vero e proprio panico. Questo è un problema che pare riguardi solo i giovani ma non è vero: non solo architetti di primo pelo – che hanno logicamente un momento di impasse dettato dall’inesperienza – sentono la responsabilità di porsi in viag- gio: ancora noi, oggi, quando ci avviciniamo alla pratica del progetto sentiamo questo momento tragico del foglio bianco. Molti “esperti” fanno finta di non sentirlo: è invece un momento essenziale che riguarda tutti i veri ricercatori. È una fase in cui ognuno mette in gioco il suo essere: “sono o non sono architetto, riesco o non riesco a riempire questo foglio”.

È una scommessa ogni volta “tragica”, una scommessa che si ripete quasi come un rito: la sfida è tragica nel senso che il nostro stesso esistere, vivere in equilibrio può affievolirsi, può annullarsi. In questi frangenti veniamo avvolti da quel silenzio che ci distacca da ogni precedente apparato concettuale, da quel tracciato che fino a quel momento avevamo seguito: insomma i manuali fun- zionano sì; ma non funzionano da soli; le cose che abbiamo già fatto le abbiamo appunto “già fatte”, e diventano quasi un elemento a “sfavore”: l’esperienza che ci circondava fino ad allora sembra liquefarsi. Un momento di silenzio: null’al- tro. Un momento di solitudine: anche. Momenti poco praticabili nella corrente pratica professionale: momenti fondamentali.

Questo silenzio, che corrisponde al foglio bianco, non è soltanto momento iniziale: si diffonde durante l’arco della progettazione. Ritorna, anche quando siamo sui ponti del cantiere. Il più delle volte abbiamo il terrore di dover subito scegliere. La scelta di un colore, che forse è una ricorrente scelta elementare – in qualche particolare contesto diventa questione basilare –: abbiamo ogni volta il

95

L’Architettura del colloquio

terrore di non saper ricominciare. Questi episodi legati a scelte anche minute ci riportano ogni volta a quel momento di silenzio iniziale, o sparso, o diluito nel tempo, che colpisce drammaticamente il percorso progettuale.

Un coraggio mite: una questione di metodo

La metafora o comunque il concetto che vorremmo esprimere è qui espresso come ragionamento piano, svolto “in negativo” più per silenzi, per vuoti, che per quegli apporti positivi che pur anche esistono. Non dobbiamo adagiarci in que- sto silenzio: attraverso questo viviamo un’esperienza, incontriamo il coraggio.

Del concetto di “coraggio” in architettura si parla poco: o quando lo si è fat- to, lo si è affrontato in una forma che non condividiamo. Coraggio per noi non significa – come hanno ritenuto per molto tempo gli architetti d’avanguardia e gli ingegneri tesi al prodigio – audacia nella struttura o novità nelle proposte formali: il coraggio nel mettere in gioco il nostro essere e di conseguenza l’essere degli altri. La qualità è il frutto di questo coraggio; come è frutto anche variare scelte apparentemente definitive, che esistono anche lungo la realizzazione, gui- dare ripensamenti senza lasciare tracce di lacerazioni.

Non sempre dover cambiare quanto si è deciso, si è progettato, significa “peggiorare” l’opera.

Saperla riadattare è alle volte anche un bene: un adattamento può avvenire lungo le fasi iniziali della progettazione oppure tornando da un cantiere ma sempre in studio: diffidiamo dalle soluzioni geniali assunte davanti a impren- ditori, ad artigiani. Prendiamo ad esempio l’edificio della Snam: quando si è aperto il cantiere – dopo un anno e mezzo di studio – il progetto era definito fino agli ultimi chiodi, sino agli ultimi elementi della componentistica. Non era stato definito, però, attraverso scelte disgiunte, ma attraverso un intenso e serrato colloquio con i fornitori, con le imprese, ecc., davanti a noi due, sempre tesi a realizzare un’idea attraverso più variabili.

In un certo senso quindi l’edificio c’era già. Ma durante la progettazione non si possono prevedere tutti i passi futuri; si può fare in modo di evitare che vi siano intoppi significativi, di avviare il processo della costruzione se- condo un percorso stabilito, che inglobi in sé il concetto di opera realizzata. Ma l’imprevisto esiste: ed è quindi importante disporre anche in cantiere di un’articolazione di rapporti prestabiliti, garanzia indispensabile per una discreta riuscita: a San Donato le modifiche sono state poche, volute più che altro dalla stessa Committenza. Il progetto era organizzato in maniera tale che il sistema per approntare le necessarie modifiche era già tutto in un certo senso previsto: alcune varianti hanno anzi arricchito il progetto, nelle fasi della realizzazione6.

Per quel che riguarda invece il “metodo”, inteso come prassi lavorativa presta- bilita, come descrizione a priori di quanto occorre fare progettando, possiamo

96

dire di non averne mai tenuto conto: noi adottiamo senz’altro un’elaborazione dei singoli, diversi temi, secondo una linea che potremmo definire “parlata”. Certamente il disegno, lo schizzo, il fogliettino, ci aiutano: ma fin dall’inizio discutiamo sempre tutto fra noi parlando di tutto, cercando di prefigurare una nostra convenzione.

La prima parte della progettazione avviene attraverso scambi continui, col- loqui fitti, trame di riferimento anche solo allusive di quanto intendiamo fare. E quando il nostro discorso è sufficientemente maturo, sostenuto dai disegni indispensabili, sosteniamo i risultati, le provvisorie conclusioni raggiunte fra noi, anche davanti al committente, all’impresa, ai nostri colleghi.

Certamente il disegno conta, ma il più delle volte appartiene ad una fase a posteriori, un evento che serve per sistemare idee. Il disegno consiste ovviamente non soltanto nel bello schizzo, fine a se stesso; bensì nella verifica di congruen- ze, emergenti dalle modalità di un colloquio che non si estingue fino alla fine del progetto: e ancora dopo, perché il progetto è da noi ancora discusso, quan- do è messo sui tavoli, davanti ai critici.

Forse – e non sembri un paradosso – arrivati ad un certo punto, un pro- getto cresce ancora di più, dopo la sua conclusione, che non prima. Il nostro “metodo” quindi – se un “metodo” abbiamo – può consistere proprio in queste modalità colloquiali: si tratta di colloquio tra noi e con le cose fin dall’inizio, colloquio con le tecnologie, colloquio con le esperienze passate e con i nuovi in- terlocutori: tempi frammezzati da momenti di silenzio, in cui cerchiamo di cre- are quello stacco tra noi e le cose, necessario per portare avanti il nostro tema.

Il concetto di paesaggio nel “colloquio” con i personaggi e la produzione

Gli anni recenti sono stati caratterizzati da un profondo ripensamento del rapporto che l’architettura instaura con i fattori esterni, con il “contesto’’: sembra quasi trattarsi di una scoperta. Non per noi: noi siamo stati i princi- pali sostenitori di questo singolare interesse ai luoghi: o perlomeno questo è quanto la critica ci ha attribuito. Oggi più che parlare di contesto, di genius loci, vorremmo rettificare il discorso introducendo il concetto di “paesaggio”, intendendo con il termine non semplicemente la montagna, la città, o il centro storico, bensì anche le temperie, le situazioni al contorno, il luogo e il tempo in cui ci incontriamo con il tema. Una immagine cioè, dove questo scenario ac- quista un significato più complesso: diventa società, diventa economia, diventa produzione.

Inserire un edificio in un “paesaggio” – in un contesto appunto – non signi- fica operare attraverso una mimesi rispetto ai luoghi: noi non propendiamo per un costante “mimetismo”, ma dove occorra, seguiamo una linea di differenza, di stacco: lo stacco è certamente evento drammatico che va perciò misurato.

97

L’Architettura del colloquio

Questo “paesaggio”, inteso come modo di rapportarsi con l’esterno, introduce elementi di novità, di ricchezza, introdotti di volta in volta nelle di verse situa- zioni che incontriamo e che il tempo muta.

Non vi è dubbio che ai tempi della torinese Bottega di Erasmo7, ci siamo

trovati davanti ad un tipo di artigianato che stava lentamente scomparendo e che noi pensavamo – in una visione un po’ morrissiana – avrebbe invece avuto nuove possibilità per esprimersi. E quanto era possibile è avvenuto; da allora ad oggi, dopo gli eventi terribili nei quali la città pareva fagocitare e distruggere quel mondo evocato. Operavamo comunque allora in una temperie differente da quella che ci siamo trovati davanti pochi anni più tardi – vent’anni dopo – quando abbiamo realizzato la Residenziale ovest8, o ancor più tardi quando

abbiamo realizzato il Quinto Palazzo Uffici a San Donato Milanese. Anche lì si affacciano soluzioni di mestiere felici, tradizionali e nuove, perché parallela- mente alla mutazione degli scenari dovuta ad un discorso temporale, abbiamo cercato di allenarci nel senso di affiancare mutamenti dovuti alle particolari e specifiche situazioni e proposte nostre, adatte a porre l’edificio nello spazio e nel tempo. Con segni significativi – così almeno è nelle nostre intenzioni9.

Noi non abbiamo, in definitiva sottovalutato il fatto che tecnologie, mate- riali, processi cosiddetti “innovativi” potessero non essere entità astratte, stac- cate dal mondo reale: ma rappresentare persone, ditte, sistemi tecnici, attori e coautori presenti nel nostro settore operativo. Dobbiamo infatti stare attenti a teorizzare un discorso, ponendo un distacco tra tecnologia e personaggi: una cosa è la conoscenza teorica di una determinata potenzialità tecnica, un’altra è la concreta capacità umana di portarla ad interpretare un assunto complesso, una trama tracciata dal progetto architettonico.

L’architetto, il progettista deve farsi carico di capire – attraverso un’attenta conoscenza dell’ambito in cui si muove, ma soprattutto degli interlocutori con i quali ha a che fare – le reali possibilità di trasferire ogni apporto verso la rea- lizzazione, di tradurre in materia le proprie idee: non è poi così raro incontrare personaggi che pur non capendo e conoscendo una determinata tecnologia, vogliono ugualmente adottarla, e coi quali poi inevitabilmente si scontrano.

Ecco perché nella progettazione è importantissimo conoscere esattamente il carattere di ogni impresa artigiana e non, grande o piccola: le sue doti, le sue peculiarità.

Anche in epoche di tecnologia avanzata, come quella che senza dubbio stiamo attraversando, se ci troviamo di fronte ad un’impresa che non è in grado di gestire certi tipi di tecnologia, è meglio che lasciamo perdere un’idea per cercarne un’altra che sia praticabile. Il punto sta nel saper intendere una even- tuale scarsità di risorse, come vincolo non insormontabile, bensì come input progettuale, del quale prendere atto: progettando quindi e riprogettando ogni volta, ad hoc.

98

Nel Quinto Palazzo Uffici Snam, ci siamo trovati come partner-interlocu- tore, come committente con cui discutere il progetto, un gruppo di tecnici o comunque dipendenti della “Snam Progetti” o della Snam: persone molto pre- parate e duttili che possedevano le fondamentali capacità di cogliere un certo tipo di colloquio intelligente – “colto” – sia sui modi di scegliere le tecnologie

Nel documento Dialoghi di architettura (pagine 90-110)