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Ignazio Gardella

Nel documento Dialoghi di architettura (pagine 70-90)

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Il progetto tra analisi e sintesi

Ho sempre diviso la mia attività di architetto a metà tra ambito professiona- le, attraverso una ricca attività progettuale, e ambito accademico, attraverso una parallela attività di insegnamento svolta in Università: ho così avuto modo di con- frontarmi direttamente con aspetti sia teorici che pratici dell’architettura, questi ultimi strettamente legati all’esecuzione materiale dell’oggetto architettonico.

A tal proposito ritengo sia interessante sviluppare alcune riflessioni sul mio modo di progettare e di approcciare la tematica progettuale in senso lato. Io penso che un progetto di architettura, relativo ad un argomento specifico, non possa mai essere considerato come unico e irremovibile: non credo che, dato un determinato tema e richiesto un determinato progetto da svolgere su di esso, esista un progetto ottimale, nascosto in un angolo, da ricercarsi attraverso una serie, magari lunghissima, di indagini conoscitive. Indagini utili e necessarie che, però, non risolvono il problema complessivo della progettazione. Credo che il progetto non esista a priori. Non penso che nel momento in cui si affron- ta un’esperienza progettuale relativa ad un particolare ambito esista un esempio compiuto o un progetto al quale riferirsi o ispirarsi: esiste piuttosto un progetto che si costruisce nel suo farsi.

Coerentemente al metodo da me adottato nell’insegnamento universitario, io credo che convenga sempre partire da una prima idea, ancora generica, non totalizzante: generica in quanto non deve manifestarsi come un’idea esclusiva- mente cervellotica, ma deve basarsi su un bagaglio di informazioni tecniche e architettoniche provenienti da quella base culturale che ciascuno di noi possie- de e che aumenta con l’aumentare degli anni di pratica. Una prima idea perciò di progetto completo: non esaustivamente definito, comunque già pensato in tutti i suoi elementi di carattere distributivo, formale e strutturale. Su questa idea si può così lavorare, sviluppandola e conseguentemente trasformandola, giungendo a volte anche a soluzioni completamente diverse e distanti dalla prima idea. Questo accade in particolare nei primi anni di esercizio professio- nale, o quando ancora si frequenta la scuola, momenti durante i quali non si ha

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ancora un bagaglio tecnico-culturale sufficientemente vasto da poter intrapren- dere subito la strada della soluzione che verrà sviluppata.

L’avere una prima idea, seppure immatura, serve inoltre come “stampella”, come primo oggetto sul quale operare delle variazioni, per avere già dall’inizio un riferimento a qualche cosa di concreto. In questo modo si ha l’opportunità di evitare il rischio di proseguire invano nella ricerca dell’ottimale senza sapere con cosa e rispetto a cosa confrontarlo.

Anche per quanto riguarda le ricerche conoscitive da approfondire, avere già puntualizzato una prima idea aiuta a capire anzitempo, evitando il pericolo di non eseguirle, quali sono le indagini che occorre inderogabilmente fare, scar- tando tutte quelle che non interessano agli specifici fini progettuali. Una sorta di “scelte in corso d’opera”, utili e quantomai puntuali. Ad esempio – volendo rendere il discorso al limite dell’elementare – se nella stesura di un Piano Rego- latore si prende a monte la decisione di demolire alcuni edifici, è logicamente inutile che venga programmato un esatto rilievo degli edifici stessi.

La progettazione si configura come un continuo approssimarsi, attraverso una simbiosi tra “analisi” e “sintesi”, alla verità, costituita, nel nostro caso, dal progetto da realizzarsi. Dopo tanti anni di professione, avendo ormai accumu- lato una consolidata esperienza, ritengo sempre più che la via giusta da intra- prendere sia quella di lavorare sempre e comunque su un’idea senza aspettare invano una improbabile e comunque occasionale “illuminazione”: ora, sulla base dell’esperienza acquisita, mi riesce spontaneo sintetizzare quasi subito tan- te variabili, ragion per cui la prima idea non si dimostra mai troppo lontana da quella conclusiva.

Disegnare per “capire oltre”

Ho sempre instaurato con il progetto un rapporto molto intimo, un rap- porto che non si è mai limitato ad un’idea di massima ma che, vuoi per una mia innata curiosità, o vuoi per quel bagaglio culturale che la formazione anche ingegneristica mi ha fornito, si è sempre spinto a scale di lavoro sia teoriche che grafiche molto dettagliate.

Ho sempre sviluppato i miei progetti sino allo studio del particolare: so- prattutto nei primi anni quando mi occupavo personalmente della redazione completa del progetto – disegni, studi di dettaglio, sviluppo dei particolari co- struttivi –, ho sempre perseguito la volontà di “capire oltre”, analizzando in modo completo il progetto.

Un’analisi del particolare che non deve comunque mai perdere di vista il globale, l’obbiettivo complessivo del progetto: un’indagine del particolare mai fine a se stessa ma sempre finalizzata ad un programma mentale e di la- voro legato all’idea iniziale. E in questi approfondimenti di scala viene anche

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contemplato il genius loci, così come viene coinvolto l’ambito impiantistico, o viene rivolto il pensiero al muratore che dovrà poi quotidianamente eseguire tale idea: tutti gli elementi dell’architettura vengono messi in gioco nello studio del dettaglio, ne costituiscono parte integrante. Il particolare è e deve essere un particolare: una parte cioè del tutto. Il particolare non è qualche cosa che si può aggiungere, ma è qualche cosa che bisogna pensare come facente parte del totale della costruzione.

Indubbiamente il rapporto tra disegno e opera realizzata è andato cam- biando nel corso degli anni. Quando io ho incominciato a lavorare, nel 19301,

la tecnologia, come è logico pensare, non era particolarmente avanzata, ragion per cui il progetto, anche costruttivo, che veniva fornito per l’appalto, risultava semplice, in quanto mancavano molti elementi che venivano integrati in una fase successiva, durante la costruzione, tenendo magari conto del fatto costrut- tivo proveniente dagli “umori” del cantiere.

Oggi, invece, essendo l’ambito tecnologico molto più avanzato di allora, i disegni e comunque tutti gli elaborati grafici sono molto più articolati: si esige una maggior ricchezza di informazioni. Disegno tecnico-esecutivo e disegno architettonico si compensano vicendevolmente divenendo l’uno la chiave di lettura dell’altro. È per questo che credo esistano due tipi di disegno: uno che può essere fine a se stesso, che però non può essere considerato un disegno di architettura; esiste invece un tipo di disegno che è quello, a mio parere, da perseguire e da utilizzare, cioè il vero “disegno di architettura”, che serve a tra- smettere gli ordini per la costruzione. Uno strumento perciò in grado di fornire le informazioni necessarie a chi deve costruire.

Nei primi anni di insegnamento alla Facoltà di Architettura avevo spesso a che fare con studenti che provenivano – era molto frequente allora – dai licei artistici, studenti che proprio per la loro estrazione scolastica già possedevano una elevata pratica di disegno riferibile però più ad una pratica da école de beaux arts – quello che noi usavamo chiamare disegno a “smaffera”, un disegno esegui- to con il carboncino e con una ditata sul medesimo – che non a una forma di rappresentazione tecnico-architettonica appropriata. Ricordo che ripetevo loro come a mio giudizio un buon architetto non deve saper disegnare. Alla Facoltà di Architettura di Venezia c’era Mario De Luigi, che in quegli anni insegnava Disegno dal vero, che un giorno venne da me e, ricordo, mi disse amichevol- mente: «senti, smettila di dire questa cosa agli studenti, altrimenti poi vengono da me e, snobbando la mia disciplina, sostengono che non è necessario im- pegnarsi perché tanto Gardella dice che non c’è bisogno di saper disegnare». Un episodio, questo, che alla luce dell’evolversi della disciplina, può risultare estremo e ironicamente paradossale.

Tornando ai tipi di disegno e alla loro necessaria “sovrapponibilità”, stiamo ora progettando un ampliamento dell’Università Bocconi di Milano2, dove a

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fianco del problema strutturale – una tematica sempre esistita – diventa im- portante il problema impiantistico con la progettazione e la localizzazione degli impianti di condizionamento e di climatizzazione. Tematica questa molto com- plicata che incide profondamente sulla prassi progettuale e soprattutto sulle scelte progettuali.

Credo tuttavia che il divario e il distacco tra il progetto disegnato e quello realizzato non sia così profondo come alcuni sostengono: il progetto disegnato deve già contenere tutte le risposte ai quesiti progettuali, ragion per cui durante la realizzazione le scelte da farsi saranno solo di natura marginale, non sostanziale. Certo, scelte come il colore del mattone, dell’intonaco o del serramento possono essere fatte – e il più delle volte è così – in sede realizzativa; credo però che l’idea generale debba essere già complessivamente presente in sede di progettazione.

Superare il mito della Tecnica

Per quanto riguarda il mio pensiero sul rapporto tra architettura e tecnica va sottolineato un aspetto: io faccio parte di una famiglia di architetti in quanto mio padre, mio nonno e il mio bisnonno erano architetti, e oggi sia mio figlio che mia nipote sono anch’essi architetti, per un totale di sei generazioni. Ho incominciato ad occuparmi di architettura ancora da ragazzo copiando dai libri del Vignola, del Canina e di tutti i trattatisti classici. Mio nonno mi seguiva passo per passo mentre ridisegnavo le tavole dei maestri e mio padre, che era molto appassionato della disciplina, ricordo mi portava in giro a visitare mo- numenti ed edifici, non solo a Milano ma anche a Verona, a Vicenza e a Roma. Per motivi come questi, di ordine soprattutto familiare, e poi perché la natura del pensiero culturale diffuso negli anni in cui mi sono iscritto – nel 1924 – era notevolmente distante da persone che come me erano già appassio- nate ad una visione modernista dell’architettura, risultava naturale essere porta- ti a rifiutare il tipo di scuola che regnava allora: una scuola più somigliante ad un’accademia che non ad una Facoltà di Architettura come la si intende oggi. Un aspetto questo che mi spinse a privilegiare, nella nuova architettura, l’ele- mento non solo funzionale ma anche e soprattutto tecnico: per questa serie di circostanze mi iscrissi alla Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano3. Solo

successivamente – fu una vicenda abbastanza elaborata – mi iscrissi anche alla Facoltà di Architettura, dove inizialmente feci solo due anni, in quanto entrai in lite con alcuni professori – facevo allora già parte del gruppo di architetti milanesi che avevano sposato la causa del Movimento Moderno –, per poi tra- sferirmi a Venezia dove mi laureai e intrapresi la carriera accademica4.

Conseguii perciò le due lauree: questo da un punto di vista più “formale” che non sostanziale, in quanto la “vera” laurea di architettura si può dire che io l’abbia presa in casa, e cioè nel periodo in cui da ragazzo mio nonno mi aprì,

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svelandomeli, i misteri dei principali testi sacri dell’architettura.

Riflettendo ora sulla mia situazione e sull’iter accademico seguito nei pri- mi anni della mia formazione, posso ritenermi pienamente soddisfatto di aver seguito entrambi i corsi di laurea, una compenetrazione culturale che giudico positiva. Questo a dispetto di alcuni miei amici ingegneri che non perdono occasione per ricordarmi ironicamente di essere “anche ingegnere”, usando un tono simpaticamente scherzoso nei confronti della categoria degli architetti.

L’aver avuto questa duplice formazione didattica, e in particolare la laurea in ingegneria, mi è servito – oltre che ovviamente per la specifica conoscenza della disciplina – a superare il “mito della tecnica”, un mito che ha fortemente condizionato molti architetti del Movimento Moderno. Nel periodo in cui il mito della tecnica ha prevalso, un periodo e soprattutto una logica culturale che alcuni architetti continuano a supportare, ritengo vi sia stato un notevole di- spendio di energie e di tempo: un “tempo perso” che il dibattito architettonico dovrà al più presto recuperare.

Dal dopoguerra ad oggi, ad esclusione del periodo contrassegnato da tutti gli anni Cinquanta e da buona parte degli anni Sessanta, possiamo dire che la Tecnologia e la Composizione Architettonica hanno intrapreso due strade dif- ferenti che raramente si intersecano.

Io sono un architetto nato e vissuto nel Movimento Moderno in particolare quello milanese, contrassegnato da figure quali Albini, Rogers, Palanti, Figini e Pollini i quali convivevano con architetti come Terragni e Cattaneo; anche se in effetti il Movimento Moderno costituiva, fondamentalmente, la ricerca di un nuovo linguaggio che si potesse comunque giustificare in termini di fun- zionalità o di tecnologia. Non a caso erano in voga slogan del tipo: “la funzione determina la forma” o “tutto ciò che è utile è bello”. Concetti che io ho cercato sempre di ribaltare o quantomeno di adattare: così come è sbagliato sostenere estremisticamente che la funzione determina la forma, altrettanto sbagliato è, al contrario, dire che la forma determina la funzione. Se dovessi parafrasare uno slogan mi sentirei piuttosto di sottoscrivere che “tutto ciò che è bello è utile”: la categoria del bello, infatti, contiene in sé anche quella dell’utile. Platone in al- cuni suoi dialoghi relativi alla bellezza è quantomai convincente a tal proposito. Questa interpretazione del fenomeno è ovviamente parziale: alcune disci- pline che vengono affrontate nelle facoltà di ingegneria, quali ad esempio la matematica, che si addentra a conoscere i misteri della logica o dell’analisi in- finitesimale – e che in fondo risulta un insegnamento di natura filosofica –, ritengo siano estremamente utili anche per l’architetto.

In sintesi credo che il rapporto esistente tra tecnica – perciò tecnologia – e architettura sia di assoluta integrazione. È difficile oggi trovare un architetto che riassuma in sé anche la figura dell’ingegnere strutturista, in grado perciò di fare i calcoli strutturali o i calcoli relativi agli impianti tecnologici.

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Il progetto dell’Università Bocconi, ad esempio, che sto elaborando in que- sto periodo, è un lavoro di una certa importanza e complessità, e per quanto riguarda le strutture sono affiancato dall’ing. Amman che si occupa degli im- pianti tecnologici e dall’ing. Morini, professionisti che completano il quadro di competenze attorno alla figura dell’architetto5.

Sottolineo inoltre che a mio giudizio – un giudizio del tutto personale – la figura dell’ingegnere civile, soprattutto oggi, che viviamo un’epoca di grande specializzazione, non ha ragione di essere. Dovrebbero esistere solo due figure, con compiti e ruoli specifici: l’architetto e l’ingegnere calcolatore, affiancati dall’ingegnere impiantista. La possibilità – questo sì – di avere una sorta di linguaggio comune, come sosteneva lo stesso Weber, è fattore importantissimo.

Anche se accade molto spesso nella pratica comune, non credo che si possa partire in un’avventura progettuale pensando, come fanno molti, di fare il pro- getto per poi arricchirlo e completarlo con strutture e impianti. Certi “vecchi” ingegneri di una volta – con una mentalità ancora pionieristica – interpretano la professione in questo modo: lasciano all’architetto completa libertà espressiva per poi intervenire in un secondo tempo convinti di poter risolvere qualsiasi tipo di quesito tecnico-strutturale. Un approccio senz’altro errato e non certo adeguato ai tempi.

È un errore di duplice natura: in prima battuta perché non è realisticamen- te possibile pensare di possedere una sorta di bacchetta magica che risolve tutti i problemi in un colpo solo e senza compromessi; in seconda battuta perché la tecnica, nella sua accezione più generale – strutture, impianti, componenti- stica – influisce e condiziona, interpretando questo termine in senso positivo, l’architettura.

Raramente mi capita di pensare alla tecnologia come un elemento essen- ziale del mio progettare, elemento cioè senza il quale il significato della mia architettura svanisce. Mi appare abbastanza evidente che la tecnologia possa e debba integrare il progetto e le scelte ad esso inerenti; che invece sia punto di partenza dell’intero fenomeno progettuale è un tipo di approccio che non mi appartiene e che giudico limitativo. Anche se non ho mai avuto l’opportunità di progettare opere o strutture – come possono essere gli stadi o i ponti – dove l’apporto tecnico-tecnologico, essendo predominante, deve esprimersi a livelli massimi, non mi è mai capitato, nel campo in cui ho maggiormente operato, quello cioè delle costruzioni civili, sia private che pubbliche, di pensare ad una forma tecnologica da cui partire per fare architettura.

Nella progettazione si deve tener conto delle specificità e delle peculiarità dell’esperienza progettuale in corso, al fine di evitare quegli appiattimenti e quelle “spersonalizzazioni” che la tecnologia sempre più sofisticata e le logiche sempre meno romantiche che stanno alla base delle operazioni progettuali ten- dono a provocare.

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La tecnologia non deve provocare nell’architettura, al pari di un mass-me- dia, una omogeneizzazione dei linguaggi, uniformando informazioni e di con- seguenza soluzioni.

Altri sono gli elementi che concorrono ad un esito architettonico signifi- cativo: un aspetto progettuale e determinante verso il quale ad esempio presto particolare attenzione è senz’altro la luce: le sue potenzialità risultano fonda- mentali per la mia architettura. Come nell’architettura classica alcune scelte erano effettuate in favore di una maggiore esaltazione dei requisiti della luce – basti pensare che gran parte delle modanature delle facciate e dei loro ele- menti costituenti erano studiati proprio in virtù di una attenta considerazione dell’elemento “luce” – anche nella mia architettura l’attenzione ad essa è sempre stata progettualmente elevatissima.

Tra storia e critica. Il rapporto con gli altri protagonisti

Avendo avuto la fortuna di attraversare l’architettura di tutto il secolo ho avuto la possibilità di conoscere e frequentare esponenti del mondo architet- tonico di spiccata personalità culturale provenienti da generazioni diverse. Ho avuto anche la fortuna di collaborare con tanti bravi colleghi ai quali ho dato e dai quali ho ricevuto tanto, sia a livello culturale che a livello personale. Ancor prima di laurearmi in ingegneria ero già grande amico di personaggi quali Fran- co Albini e Giovanni Romano: un gruppo di amici che gravitavano principal- mente attorno alla figura di Edoardo Persico, che all’epoca faceva da elemento coagulante. Si deve infatti a lui se un anno riuscimmo a formare, tutti insieme, una sezione della Triennale di Milano6.

Nell’ambito dei miei rapporti di amicizia con alcuni colleghi che hanno la- sciato un messaggio importante nel dibattito architettonico italiano e non solo italiano, Franco Albini è senza dubbio colui del quale serbo il ricordo più vivo e profondo7. Ho di lui un ricordo carissimo in quanto il nostro legame era simile

a quello esistente tra due fratelli, questo anche se le nostre idee sui singoli temi e le nostre architetture erano in parte differenti.

Albini, tra i personaggi che frequentavo, era l’architetto che più di altri intratteneva un rapporto stretto e costante con la tecnologia, o ancor meglio con la ricerca tecnologica. L’input tecnologico era per lui importantissimo, anche se poi, in fondo Albini era un artista: quello che principalmente gli interessava era il problema del linguaggio. Oltre ad Albini i miei ricordi più sentiti sono rivolti a Ernesto Rogers e al rapporto di amicizia instaurato dopo la guerra con Lodovico Belgiojoso.

Avere avuto l’opportunità di frequentare e, soprattutto, di lavorare insieme a protagonisti di tale levatura, è stato per me un grande privilegio, in quanto da ciascuno di loro – sebbene avessimo tutti idee personali a volte anche in

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forte contrasto l’una con l’altra – ho avuto modo di recepire profondi messaggi sia sul piano teorico che su quello della progettazione vera e propria. Ritengo che tra noi vi fosse un rapporto molto solido e costruttivo: allora eravamo in pochi, ragion per cui c’era una maggiore complicità di categoria; inoltre vivevamo attorniati da un clima di ostilità diffusa proveniente non solo dal fascismo ma anche dai rappresentanti della società civile, che non accettavano di buon grado l’architettura del Movimento Moderno, oppure l’accettavano in maniera molto parziale e riduttiva, cioè per tematiche limitate quali i bagni, le cucine, o altre problematiche molto puntuali. Tutto ciò stimolò e favorì il

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