• Non ci sono risultati.

Vico Magistrett

Nel documento Dialoghi di architettura (pagine 170-184)

171

Un atteggiamento: architettura, metodo, “realtà”

Non è semplice parlare e descrivere un metodo quando lo si vive dall’in- terno: stessa cosa dicasi per quello che, nei confronti dell’architettura e ancor più specificatamente del progetto d’architettura, abbiamo definito l’atteggia- mento culturale.

La prima istintiva considerazione che mi sovviene fare in rapporto a tali aspetti è sul parallelo musica-architettura, e in particolare sui significativi con- dizionamenti che quest’ultima arte riceve, al contrario delle altre, nell’impatto con il mondo che definiamo per semplificare il concetto, “materiale”, “reale”.

Io credo, ne sono convinto, che tutto sia condizionato: la musica stessa, infatti, riceve condizionamenti dalla letteratura, per esempio, o dalla storia. Ma una delle caratteristiche peculiari dell’architettura nonché uno dei suoi princi- pali alimenti è il concetto di realtà: l’architettura e conseguenzialmente tutto quello che è l’architetto e la sua affascinante attività, ha sempre e comunque una realtà con la quale confrontarsi.

Tutto quello che ho cercato di compiere in questi anni facendo l’architetto è stato sempre caratterizzato dal non perseguire mai una “concessione”, o un compromesso con la realtà, bensì ho sempre teso a cogliere la realtà come ele- mento integrante, paesaggistico, compositivo dell’architettura.

Se io concepisco un’architettura in montagna, ad esempio, io so che devo tener conto di certe condizioni climatiche, di determinate situazioni ambien- tali; se io realizzo in Giappone – come in effetti mi è capitato – costruisco in maniera senz’altro diversa che a Torino.

Questo condizionamento è il condizionamento della realtà. E la realtà costi- tuisce l’alimento primario dell’architettura.

La casa di Arenzano, che ho realizzato nel 19561, ad esempio, è stata forte-

mente condizionata da un vincolo, trasformatosi poi in un criterio progettuale, rappresentato dall’esistenza di un terreno molto piccolo: ecco, allora, che rica- vai un vero e proprio giardino sul tetto.

172

che potevano considerarsi vincoli o condizionamenti, nella casa di Arenzano sono stati invece una presa di coscienza e una attenta lettura e interpretazione della realtà che mi circondava: l’ardesia, le persiane.

Io ho partecipato all’ultimo congresso del CIAM, ad Otterloo nel 1959 quando il CIAM è stato poi sciolto. Ricordo benissimo che in tale occasione mi fu rimproverato dagli altri colleghi partecipanti al congresso – pur individuan- do in me un bravo architetto – di essere colpevole di usare elementi e strumenti vecchi, quali appunto le persiane.

Lo stesso Ernesto Rogers – che è stato un mio maestro – aveva scritto, pro- prio sulla casa di Arenzano, un bellissimo articolo su “Casabella”2.

Indipendentemente da questo – senza citare il caso per me felice di Parma che costituisce un tipico esempio di condizionamento non tanto ambientale, quanto di una specifica realtà produttiva della quale non si poteva e non si do- veva non tener conto3 – dalla realtà io cerco di trarre partito e di basare tutte le

mie scelte per fare architettura: che poi ci riesca sempre o solo in alcuni episodi è un altro tipo di discorso, che purtroppo non sempre è controllabile.

Quando nell’opera parmigiana realizzai ad esempio la centrale tonda degli impianti, lo scopo primario era quello di proporre un elemento che fosse bari- centrico: proposta presa in seguito a un lungo incontro con tutti i responsabili della Banca e con i tecnici/collaboratori della Austin – la società di ingegneria che si è occupata dell’ingegnerizzazione dell’edificio – per capire se il criterio proposto poteva avere una sua validità, non tanto sul piano estetico, che in quel momento mi interessava meno, quanto sul piano funzionale.

Una verifica incrociata, perciò, di un corretto adeguamento di una realtà che va sempre tenuta presente in ogni istante e in ogni fase della progettazione: la verifica pluridirezionale della realtà, che è una fase imprescindibile del fare archi- tettura. Il colloquio è sempre stato importante, sia in architettura che nel design4.

Bisogna costantemente adeguarsi alla realtà: è assolutamente inutile fare un “pezzettino” in più, che si regge solo per virtù d’incanto, obbligando le ditte o le imprese a compiere acrobazie nel tentativo di assemblare un pezzo di legno, o reggere un elemento aggettante: è semplicemente e inutilmente sciocco negare il grande contributo che sempre, a mio avviso, la realtà fornisce a chi progetta e a chi realizza.

La forza di gravità – aspetto questo non marginale – è un altro elemento fondamentale della realtà: quando perciò si fa e si concepisce una cosa non si può prescindere dalle caratteristiche, anche fisiche, del reale.

Ci sono ingegneri che, con la loro abilità, riescono a tenere in piedi un grat- tacielo reggendolo con due fili; in compenso, però, per ottenere tale risultato bisognerebbe realizzare una fondazione che arriva da qui a Bressanone! Oggi quasi tutto è possibile ma, proprio per questo, bisogna evitare posizioni infan- tili e ingiustificabili e perciò stare attenti e difendersi da questa linea operativa.

173

L’Architettura della realtà

Il mio approccio procedurale e progettuale, è quello di confrontarmi sem- pre e comunque con un condizionamento mai negativo perché il confronto con la realtà è, in ogni caso, un condizionamento positivo.

Vincoli quali un regolamento edilizio o una particolare normativa non sono mai una valida scusa per giustificare un esito qualitativamente discutibile in par- ticolar modo da parte di figure che operano attivamente nell’architettura: questo non è fare architettura, bensì è compromettersi, da incapaci, con la realtà. È pro- prio il trarre partito dalla realtà, invece, che crea l’unicità dell’atto architettonico. Ad esempio nel 1965 ho realizzato un edificio in via del Conservatorio a Milano5: la forma e il disegno volumetrico di quest’opera sono il risultato di un

Piano Particolareggiato – altro strumento creato dalla stupidità umana – le cui norme, regole e limiti hanno fatto in modo che si dovesse dedurre l’impianto da questi vincoli che ne hanno predeterminato la griglia progettuale. Ne è risultata un’architettura che secondo me non è male se si considera che è stata concepita più di trent’anni fa e possiede, ancora oggi, un suo significato all’interno del tessuto della città.

Anch’io avrei potuto giustificare le mie scelte architettoniche come obbli- gate dal Piano Particolareggiato: ho invece interpretato il Piano come un punto di partenza per cercare di trarre partito dai suoi dettami.

In qualsiasi modo e forma ci si debba confrontare con la realtà, nel campo dell’architettura come in quello del design – che sia cioè lo studio della struttura di un edificio o della struttura di una sedia – non ci si dovrebbe mai trovare nel- le condizioni di giustificare il difetto di un determinato particolare attraverso motivazioni di natura funzionale o strutturale: sarebbe la dichiarazione di un fallimento, di un approccio progettuale errato.

Vico Magistretti: la produzione

Ho parlato della “realtà”, un concetto e un metro di confronto per me indi- spensabili. Ovviamente la realtà, intesa come contesto, luogo, micro-ambiente, non va esclusivamente vista come entità carica di significati metaforici oppure legati alle preesistenze ambientali: la realtà è pure la sommatoria di preesistenze e di valori materiali, socio-economici e produttivi che non sempre sono suffi- cientemente considerati.

Io ho avuto la fortuna di essere uno degli esponenti dell’architettura mo- derna protagonista – peraltro senza saperlo – e in seguito privilegiato testimone, di quell’evento molto particolare che va sotto il nome di italian design, che è fondamentalmente stato l’incontro spaziotemporale tra chi creava, chi disegna- va e chi produceva.

Questo incontro non si è configurato attraverso l’iniziativa di un “creativo” che, come spesso avviene, si rivolge all’industria per proporre la produzione di

174

una scala, di una sedia o di un bicchiere; è stato piuttosto il contrario, o comun- que si è trattato di uno sforzo comune secondo un principio di collaborazione in cui la realtà è sempre stata testimoniata in maniera particolare proprio dagli stessi produttori.

Questo continuo colloquio, questo scambio di idee che ancora adesso ho nel lavoro con il mondo della produzione industriale, non è mai stato e non è ancor oggi un colloquio conflittuale, bensì positivo e propositivo; anche perché io non ho molta stima per chi disegna solo per i musei.

Ritengo che si deve disegnare per la gente: con questo non voglio intendere solo per la “produzione”, ma io sono figlio del Bauhaus, e il Bauhaus aveva una sua propria logica e teoria – anche se non conseguita con pieno successo – che era quella di disegnare, progettare e produrre per il grande numero, visto che alle nostre spalle esiste una lunga e radicata tradizione di civiltà industriale.

Trasferendo il discorso alla società e ai canoni attuali di vita, non si deve oggi continuare a pensare solo al grande numero anche se io non posseggo la ca- pacità di disegnare un oggetto singolo: ho sempre e comunque bisogno dell’au- silio della produzione e delle sue logiche.

Per me è assolutamente inutile disegnare una sedia come quella di Du- champ, con un chiodo in mezzo al sedile; anche se esistono sicuramente musei disposti a comprarle e, perché no, magari pure una persona, questo fonda- mentalmente significa auto-escludersi dal mercato. Operazione questa che puoi permetterti una sola volta, perché immediatamente dopo l’industria ti volta giustamente le spalle.

Questo discorso non vuole alimentare un compromesso che, spinto agli estremi, porti alla riproposizione di una sedia “finto barocco”.

Io progetto e sempre progetterò comportandomi come in passato, con un occhio molto attento a pre-intuire e a raffigurarmi quelli che sono e saranno i desideri della gente, i loro effettivi bisogni.

Credo che anche questo tipo di “atteggiamento” possa chiamarsi adegua- mento alla realtà, adeguamento inteso in senso positivo.

Non ho rimpianti per nessuno degli oggetti da me disegnati, compresi quel- li brutti e quelli che si sono poi dimostrati degli errori: non sono mai giunto ad affermare “però, se mi avessero lasciato fare come dicevo io ...”. Mai.

Ho magari rinunciato, anche se è avvenuto in rarissimi episodi della mia vita. Ricordo, ad esempio, che anni fa dovevo progettare un albergo per un gruppo americano nel centro di Milano: dopo un breve periodo di lavoro con loro, ho capito che eravamo parte di due culture diverse. Non mi interessava quello che loro volevano fare e, tantomeno, mi interessava farlo a Milano: mi hanno più volte supplicato di restare e di continuare a lavorare per loro, con l’ovvio conseguente risultato che da tale rapporto è uscito un ibrido culturale che, probabilmente, sarebbe stato meglio non concepire.

175

L’Architettura della realtà

Nella mia vita professionale c’è stato solo questo episodio di vera e propria incomprensione, dal quale ho appreso che il risultato ultimo di un’architettura è il frutto di una combinata fusione di intenti tra tutti gli attori del processo edilizio: interessi economici, produttivi e, soprattutto, culturali.

Non è perciò una questione di purezza o di non voler giungere a compro- messi: ma piuttosto di incapacità a svolgere determinati lavori quando le strade sono completamente divergenti.

In altri episodi della mia attività e del rapporto tenuto con il comparto produttivo in genere, non esiste un solo mio oggetto nato da un compromesso: al massimo, ripeto, ho fatto oggetti brutti, ma mai squallidamente “trattati”.

Tra l’altro nel settore del design, a mio giudizio, si è già raggiunto un ottimo risultato arrivando ad avere una quantità di oggetti che non si riproporrebbe allo stesso modo vicina al cinque, dieci per cento dell’intera produzione personale.

Un altro significativo parametro di un buon risultato e un’importante con- ferma dell’adeguamento alla realtà del proprio operare è il vedere, come nel mio caso, oggetti che, disegnati da più di trent’anni, sono tuttora presenti in catalogo. Penso di avere l’ottanta per cento dei miei oggetti ancora oggi in ca- talogo; credo che sia un numero consistente anche perché tra questi, solo pochi meriterebbero di essere ripensati.

Anche nel design, oserei dire soprattutto nel design, lo scopo ultimo non deve essere quello di produrre capolavori, ma semplicemente quello di lavorare. D’altra parte quello in cui si lavora è sempre uno stato di “necessità”: si produce perché si ha bisogno di un certo oggetto, e non perché una mattina ci si sveglia pensando astrattamente di disegnare una sedia. Questo tipo di tematica, per me, non ha fondamento.

Lavorare nella produzione significa anche sbagliare, in quanto è solo attra- verso l’esperienza che si può ottenere validi risultati; l’esperienza è anche errore.

Vico Magistretti: gli elementi del progettare

Se progettare significa vivere la realtà, tutti gli elementi che concorrono a tale processo rappresentano indispensabili mezzi per rincorrere l’architettura.

La tecnologia è per me uno strumento, esattamente uguale a un martello: per questo io non mi emoziono mai per la tecnologia e soprattutto non ritengo che la tecnologia fornisca da sola la garanzia di fare un oggetto contemporaneo. L’oggetto contemporaneo nasce da un uso corretto e opportuno degli strumenti che abbiamo a disposizione, il primo fra tutti il cervello. A me della tecnologia non importa niente, o quasi. La vera tecnologia è il cervello.

La geometria è una variabile molto importante, ho per lei grande simpatia. La geometria è un poco come la consecutio temporum in latino: è qualche cosa che fa stare nella realtà, che da il senso della realtà, che fornisce uno strumento

176

per misurare la realtà. Mi è capitato molto di usarla. In questo periodo, ad esempio, sto progettando un oggetto per Cassina che è quasi esclusivamente ba- sato sulla geometria. L’attrazione e l’utilizzo che ne faccio è prima di tutto con- cettuale. Certi movimenti nello spazio sono sempre regolati dalla geometria, facendone una vera e propria chiave di lettura della realtà: nel progettare, per- ciò, faccio molto affidamento sulle sue capacità regolatrici e sui suoi principi.

“Dio è nel dettaglio”: è verissimo quello che diceva Mies, ma è anche vero che un’architettura, o un oggetto, non può essere mai risolto con il dettaglio. Solo a seguito dell’elaborazione concettuale, è operazione naturale, anzi quasi automatica curare anche la scala progettuale del dettaglio. È la coerenza proget- tuale, mai un problema decorativo, che porta ad affrontare in modo corretto il dettaglio. Per questo motivo il mio processo ideativo-progettuale non va mai dal particolare al generale: io parto sempre e comunque da disegni alla grande scala per approfondire progressivamente i singoli problemi.

Inoltre io amo molto i materiali, la loro scelta, il loro ragionato utilizzo, ma anche in questo caso non ho un approccio feticistico nei loro confronti. Posso realizzare indifferentemente architetture in alluminio, in legno, o in mattoni: il mio operato penso non abbia mai dimostrato preconcetti o preferenze nella scelta dei materiali. Qualsiasi materiale può essere usato, purché si conoscano in profondità le sue caratteristiche semantiche e fisico-meccaniche. A questo proposito non mi interessano i materiali elaborati: un esempio, nel caso di un oggetto d’arredo, al posto di un prezioso damasco uso infinitamente più volen- tieri la tela di sacco. Una scelta legata molto al valore concettuale che non al semplice valore formale.

Il progetto di architettura, come il design, deve essere un conceptual design, deve cioè esprimere dei concetti. Dal punto di vista stilistico-formale ci sarà chi è bravo e chi lo è meno; chi incontra più e chi incontra meno i gusti della gente; è comunque la concettualità e il suo profondo significato, l’aspetto che maggiormente mi appassiona, sia nei progetti miei che nei progetti altrui.

Vico Magistretti: il progetto di architettura, la sua gestione

Oggi, progettare, o comunque il progetto di architettura nel suo tradizio- nale significato, a causa della sempre maggiore complessità che una serie infi- nita di variabili al suo interno comporta, richiede da parte dell’architetto una capacità di adeguamento al sistema dell’elaborazione nonché dell’erogazione, sistema in continua evoluzione e mutamento.

Il processo creativo deve tenere conto di molte cose, non potendo limitarsi ad alcune per scartarne altre. Per questo motivo i miei disegni e i miei schizzi sono piccoli, soprattutto se riguardano dei grandi interventi, al fine di poter- li controllare globalmente. È un meccanismo mentale che mi porta anche a

177

L’Architettura della realtà

numerare le sequenze di schizzi per capire la genesi del progetto stesso e poterlo meglio interpretare.

Mi piace concentrarmi e faticare sulla concettualità del progetto, sui suoi profondi contenuti. Io ho scelto di fare l’architetto non di essere un capo d’in- dustria: per questo dal punto di vista della struttura, ho uno studio piccolissi- mo. Non condivido gli studi di trenta o quaranta persone, salvo alcuni casi par- ticolari come ad esempio quello di Renzo Piano, col quale ho un buonissimo rapporto, che dal padre impresario ha ereditato la vocazione a lavorare come un imprenditore. Altri studi, invece, molto numerosi e che presupporrebbero un approccio molto innovativo al progetto, forniscono un prodotto ugualmente inadeguato ai tempi e una prestazione comunque insufficiente rispetto a quella che può fornire in maniera molto sofisticata e completa una società che ha come obiettivo di fondo l’erogazione di specifici servizi.

Ho già sperimentato in più occasioni la collaborazione con una compagnia di ingegneria: la Austin, una società con la quale ho instaurato un ottimo rap- porto di lavoro6. Io fornisco a loro il criterio concettuale delle idee mentre loro

sviluppano il progetto in tutte le sue parti. In molti casi – come nel caso del Centro Servizi “Cavagnari” di Parma – propongo anche i dettagli del progetto entrando, cioè, nel merito di questioni che una società di servizi per sua natura non affronta completamente soprattutto quando le scelte sono particolarmente delicate e possono influire in modo determinante sull’architettura. Io inter- vengo in modo determinante nella fase iniziale, quella di concepimento del progetto, per poi lasciare a loro lo sviluppo del tema e magari rientrare in gioco per interessarmi, ad esempio, dei dettagli o di aspetti impiantistici.

Fare l’architetto significa anche conoscere la scienza delle costruzioni, sape- re che un pilastro non può essere grande 20x12 ma deve essere circa 40x50 o comunque avere coscienza delle proporzioni e del rapporto tra andamento degli sforzi e dimensioni di una struttura senza per questo doverla calcolare.

Il “Cavagnari”: esempio di un atteggiamento

L’intero progetto per il Centro “Cavagnari” di Parma, realizzato per la Cassa di Risparmio7, fonda i propri presupposti sulla sistemazione impiantistica, nel

caso specifico l’elemento più importante e più complesso, qualcosa come tremila o quattromila metri quadrati di impianti: è da questo imprescindibile dato che l’i- ter progettuale ha preso il via e si è evoluto. La divisione di compiti tra l’architetto e la società di ingegneria in un progetto come questo, dall’alta componente im- piantistico-tecnologica, implica la stretta collaborazione degli operatori in causa. Un iter progettuale che metodologicamente ho ormai consolidato e che continuo costantemente a verificare attraverso la pratica: si addice ai tempi at- tuali e alle caratteristiche delle richieste. Una volta “confezionato” il progetto e

178

operate tutte scelte, ho constatato che l’idea di base che avevo nella mia imma- ginazione era stata mantenuta e anzi rafforzata, anche rispetto alle operazioni di traduzione grafica. Fenomeno che si è verificato anche durante il momento costruttivo, fondamentale per la traduzione delle idee in architettura.

Il controllo lungo l’iter della realizzazione è avvenuto attraverso alcune mie visite in cantiere che, anche se io non prendo mai decisioni in loco, sono utilis- sime verifiche per vedere se i disegni sono stati interpretati correttamente. Nel caso di Parma, i disegni sono stati tradotti con coscienza, essendo la Austin una esecutrice di elevata professionalità.

Lo scenario in cui il progetto si è mosso e ha preso forma vedeva come miei interlocutori dalla parte “materiale” l’Austin, l’impresa, mentre dall’altra una realtà economico-produttiva importante, costituita dalla Cassa di Risparmio, il

Nel documento Dialoghi di architettura (pagine 170-184)