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Guido Canella

Nel documento Dialoghi di architettura (pagine 140-156)

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La contestualizzazione del tema: la specificità dell’ambito italiano nel dopoguerra

Appartengo a una generazione che si è formata nell’architettura nell’ultimo dopoguerra. Infatti mi sono iscritto alla Facoltà di Architettura di Milano nel 1950, vale a dire in anni caratterizzati dalla diffusione più volgarizzata dell’lnter- national Style. Così che non può stupire che proprio per noi sia venuta urgente la necessità di un ripensamento condotto attraverso un confronto tra ciò che aveva perseguito e significato il Movimento Moderno negli anni Venti e Trenta e ciò che ormai perseguiva e significava nel dopoguerra1.

Alla Facoltà di Architettura di Milano continuava ad essere preside Piero Portaluppi e ad insegnare un gruppo di docenti che nell’anteguerra aveva resi- stito al radicalismo razionalista, propugnando un modernismo ibrido tra déco e novecentista. Unica eccezione tra loro era Ambrogio Annoni2, più colto e

lungimirante, che insegnando Caratteri stilistici dell’architettura si era già reso conto come la discriminante tra moderno e non-moderno non consistesse in una questione di pura apparenza, bensì nel modo di intendere, sentire e vive- re il percorso progettuale. Purtroppo non ho avuto Annoni come docente; in compenso però ho avuto Ernesto Rogers, che gli succedette nell’insegnamento3.

Se a scuola le lezioni di Rogers riuscivano a farci rivivere direttamente le espe- rienze poetiche dei maestri del Movimento Moderno, fu sui libri, e instaurando confronti di struttura nel clima culturale di anteguerra e che acquisimmo la consapevolezza di come il Razionalismo architettonico fosse ideologicamente legato ad una visione tayloristica e fordiana dello sviluppo della città, dacché una delle sue componenti ideologiche fondamentali – mi riferisco soprattutto a Gropius e all’esperienza del Bauhaus – muoveva da una poetica dell’architettura che riteneva ormai il processo industriale egemone non solo nella produzione di beni di consumo ma anche, in prospettiva, nel riprodursi della città.

Da questa interpretazione della storia del Movimento Moderno ha preso origine quel nostro riferirsi, magari solo come compagni di strada, a certe istan- ze della cultura marxista, diffuse in Italia dal Partito Comunista, riflettendo

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su quanto avveniva nei paesi a regime socialista: l’ottimizzazione del processo edilizio misurata non sul profitto ma sugli effettivi bisogni, la prefabbricazione pesante, l’espressione dell’architettura come rappresentazione di valori mirati alla pari libertà e dignità dei cittadini, estranei quindi alla nozione di efficienza del mondo capitalista, dove l’emblematica tecnica copriva in realtà lo sfrutta- mento e la speculazione.

Proprio in quegli anni ci si trovava di fronte all’evento della ricostruzione, con una serie di problemi e di contraddizioni connessa, per quel che riguarda il settore edilizio, al permanere di una condizione artigianale del cantiere e delle tecniche di costruzione: il decollo del settore edilizio in Italia era diventato soprattutto un’occasione di occupazione, alla quale il Piano Fanfani cercava di fornire una risposta anche in termini di consenso elettorale.

Dunque, da questi presupposti sul merito estetico, ma ancor prima strut- turale (per cui lo sviluppo della tecnica risultava stimolato soprattutto dal pro- fitto), insorse in noi la persuasione della necessità di una revisione critica del Movimento Moderno, assunta come istanza ideologica mossa dalla volontà di un nuovo impegno conoscitivo nella recente storia della città europea.

Fu allora che si cominciarono ad intraprendere i primi viaggi di riscontro: nel mio caso, in Olanda, per cercare di approfondire le differenze, per esem- pio, tra le realizzazioni degli architetti della Scuola di Amsterdam e i quartieri di Oud a Rotterdam; o in Germania, per confrontare quanto fossero organi- camente connesse alla città le realizzazioni di Fritz Schumacher ad Amburgo rispetto ai quartieri di Bruno Taut a Berlino.

Da allora, da quell’impegno di approfondimento contestuale, si determinò nel nostro pronunciarci e operare, se non proprio la sottovalutazione della ra- gione tecnica, senz’altro il prevalere dell’aspetto tipologico-figurativo su quello strettamente costruttivo, in quanto la questione della costruzione rimaneva per noi primariamente soggetta ad obblighi strutturali, insediativi, rappresentativi e figurativi nell’idea di città.

Peraltro, va messo in evidenza che in Italia, su questo atteggiamento di in- terpretazione contestuale dei fenomeni dell’architettura, si verificò il convergere di alcuni maestri formatisi nel Razionalismo. Si ricordino, per tutti, il saggio sull’urbanistica delle città europee di Giuseppe Samonà4 e la polemica tra Er-

nesto Nathan Rogers e Reyner Banham a proposito della “ritirata italiana” dal Movimento Moderno5.

Non che in altri paesi non vi fossero situazioni caratterizzate da altrettante contraddizioni: nella Germania di quegli anni si verificava una sorta di “coloniz- zazione” americana della ricostruzione, dettata forse dall’intento di cancellare il recente passato nell’International Style; in Inghilterra, pur essa uscita stremata dalla guerra, il governo laburista, attraverso il London County Council, spo- stava il problema della ricostruzione ad una scala più ampia, prevalentemente

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urbanistica, riprendendo il tema della Grande Londra e delle New Towns, già affrontato dai Razionalisti del Piano Mars e dal Piano Abercrombie del 19436.

Mentre in Italia il riscatto strutturale e culturale avvenne in modo affatto singolare per molteplici ragioni: per l’estremo, atavico dualismo nord-sud; per la particolare armatura insediativa (non è forse il paese delle cento città?); per- sino attraverso il nostro connaturato trasformismo. Fattori anche questi che contribuirono ad elevarci al rango di uno tra i paesi, se non vincitori, almeno tra i “meno-perdenti” (basti pensare per tutti al cinema del Neorealismo, per come riuscì a sollevare e porre cause e problemi del nostro sottosviluppo all’at- tenzione e alla provvidenza internazionale).

Francesco Tentori per primo, in una Conferenza internazionale dei giovani architetti di sinistra tenutasi a Roma nel 1954, avanzò la tesi assai puntuale sul sussistere di una via particolare, tutta italiana, nel Movimento Moderno del dopoguerra.

Il Modulor di Le Corbusier segue di un solo paio d’anni il Manuale dell’ar- chitetto, pubblicato nel 1946 e messo a punto da Mario Ridolfi e da alcuni suoi giovani colleghi ancora durante la guerra7. Ma tra i due testi corre un distacco

“filosofico” assai più rilevante, forse persino opposto, nel modo di intendere e affrontare i problemi aperti dalla ricostruzione nel dopoguerra. Certo per una situazione oggettiva, ma anche per una sorta di sapienza realista o “neorealista”, in Italia, più che altrove, diventò possibile “allentare” un rapporto deterministi- co tra economia della costruzione e progettazione, nel senso che volta a volta i pro- blemi si riproponevano secondo modalità diverse, necessitando di una inter- pretazione più flessibile dei fenomeni. In altre parole, i moduli di riproduzione e diffusione del manufatto edilizio risultavano assai poco condizionati da una struttura produttiva nazionale, per nulla coordinata nel settore delle abitazioni.

Solitamente le imprese – la maggior parte delle quali si avvaleva di una tipologia e di una tecnica ancora autarchiche – impiegavano quadri, per un verso, di eccezionale qualità (per esempio, i carpentieri), per il resto occupavano manodopera proveniente dalle campagne; poiché, ancor prima della Fiat, fu l’industria edilizia a chiamare forza lavoro dal Mezzogiorno.

Altro fattore che caratterizzava quel periodo, rendendolo inconfrontabile con l’attuale situazione, riguarda le finalità e le modalità di trasmissione del sapere professionale per come venivano perseguite nelle scuole di architettura.

Nel 1950, al primo anno della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, se non ricordo male, eravamo iscritti circa centoventi studenti. Ai pri- mi anni c’era un corso biennale di Elementi costruttivi: il primo tenuto per incarico da Libero Guarneri, il secondo tenuto da Enrico Griffini8 dove en-

trambi affrontavano l’argomento in modo meticoloso, analitico e catalogico, comunque completamente distaccato dall’insegnamento di altri corsi e da una visione di sintesi del cantiere.

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Già questo primo contatto con l’aspetto pratico può ben restituire quale fos- se l’avvicinamento al progetto che la scuola allora intendeva imprimere, attraver- so saperi tutti strumentali e separati. Infatti, parallelamente a quello di Elementi costruttivi, si svolgevano i corsi di Rilievo dei monumenti e di Disegno dal vero, per cui si arrivava alla sintesi del progetto non prima del terzo anno, con un cor- so di Elementi di composizione di cui ufficialmente era titolare il preside Piero Portaluppi, ma che in realtà era affidato al suo assistente Giordano Forti9.

Nelle Facoltà di architettura di quegli anni il settore compositivo, dove av- veniva l’applicazione al progetto, era caratterizzato da tematiche e motivazioni effimere, arbitrarie, prive di qualsiasi logica; e ciò non soltanto dal punto di vi- sta degli esiti linguistici, quanto dallo stesso modo di pervenirvi. In particolare, la pratica dell’ex-tempore – intesa come utile ginnastica, nel cui merito didattico non vale entrare – provocava quel genere di approccio alla progettazione che finiva per influire su tutte le successive esperienze dell’area compositiva.

Parallelamente al “moderno” dei corsi di Composizione e di Arredamento, dove insegnava Gio Ponti10 – moderno incoraggiato sotto specie convenzionale

con qualche concessione al bizzarro –, si svolgeva l’arcigno corso di Caratteri di- stributivi degli edifici, tenuto da Antonio Cassi Ramelli, dove il particolarismo tipologico veniva infuso mnemonicamente, come fosse uno stato funzionale fissato una volta per tutte.

Insomma, tardivamente e anacronisticamente, si viveva la fase di transizione dal tradizionalismo al modernismo, dove il “moderno” agiva come un comples- so esterno, non ancora assimilato, rispetto al gradualismo aritmetico praticato nella formazione politecnica, una volta venuta meno quella coerenza tecnica e stilistica che almeno aveva reso logica e unitaria la formazione accademica nel secolo scorso, dal classicismo di Durand al neomedievalismo di Camillo Boito. Per cui ritengo ci voglia un bel coraggio nel mitizzare, come spesso ancor oggi si usa fare, la preparazione professionale impartita al Politecnico in quegli anni, dove l’unico vantaggio è da trovarsi nel numero ridotto degli studenti.

A mio parere, nelle Facoltà di architettura italiane non si è mai insegnato la “costruzione”, da assumersi nel significato realmente operativo, positivo e relativo del termine, di mentalità, di “filosofia” obbligante nella progettazione, che si estende fino alla dimensione del territorio come ingegneria della città, evitando l’equivoco di un “in sé” della tecnologia. Qualcosa del genere può forse essersi verificato alla Facoltà di ingegneria del Politecnico di Milano dove, esiliato, insegnava Giovanni Muzio, grande personalità di architetto-costrut- tore11. Qualcosa del genere avrebbe potuto forse verificarsi a Roma, qualora vi

avesse insegnato Mario Ridolfi, che invece non vi fu mai ammesso. Ma, almeno che io sappia, mai nelle scuole di architettura.

Paradossalmente, si potrebbe supporre che la carenza tecnologica di que- gli anni abbia influito attivamente, come reazione, nella ricerca di una nuova

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poetica, obbligando a cercare altrove il rigore scientifico: meglio un rapporto diretto con le scienze che un rapporto malamente frainteso con la tecnologia. Frequentando il Liceo classico riportavo una mediocre riuscita nelle materie scientifiche, che non mi stimolavano all’impegno; altrettanto nei primi anni di Politecnico, finché, giunto al terzo anno, fu l’insegnamento di Meccanica razio- nale a dischiudermi il fascino del mondo tecnico-scientifico; tanto che sostenni i successivi esami di Scienza delle costruzioni e di Tecnica delle costruzioni con risultati brillanti.

Quanto ho detto sta a sottolineare come nell’itinerario di formazione, da una parte, sia innegabile l’utilità, addirittura l’indispensabilità, delle cognizio- ni tecniche; dall’altra, però, come esse, ridotte a derivati nozionistici, possa- no risultare controproducenti e lesive dell’essenza e del ruolo nel progetto di architettura.

L’architettura, oggi, in Italia

Venendo da una famiglia da generazioni di ingegneri e architetti, non in- tendevo prolungarne la tradizione12; poi, per mia fortuna, mi sono deciso a non

sottrarmi alla vocazione: infatti, non c’è maggior fortuna di quella di avere per passione il proprio mestiere. Eppure per l’architettura gli attuali sono tempi di disagio, dovuto principalmente al constatare come si sia affermata una sempre più estesa subcultura da mass-media contraria alla potenzialità di arricchimento del suo valore funzionale e del suo significato nei centri storici e nelle periferie. Così l’architettura è diventata capro espiatorio per il dilagare dell’ignoranza sugli autentici fattori dell’ambiente, dacché amministratori e urbanisti, dopo decenni di misfatti, sono riusciti a mimetizzarsi nel verde, negli standard e nei vuoti (fino a quando?) delle cosiddette “aree dismesse”. Ma il volto sfigurato delle nostre città non è forse il risultato delle loro prospezioni, dei loro regola- menti edilizi, dei loro piani regolatori? Eppure sotto processo va l’architettura, e soprattutto quella di qualità. E questo non può che addolorare.

L’architettura italiana, per un periodo forse non ancora concluso, ha tenta- to di riqualificare se stessa nell’ambiente storico che la circonda, seppure scon- trandosi con il basso livello d’informazione di un’opinione pubblica che ha fatto di tutto per sottrarle legittimità di cittadinanza.

A differenza di quanto generalmente è avvenuto in altre nazioni – si pen- si alla Germania, all’Olanda e perfino a un altro paese latino come la Spa- gna –, in Italia l’architettura moderna non è mai riuscita a decollare come costruttrice di città. E questo non per colpa degli architetti (lo può attestare una serie importante di opere), ma per colpa di chi vi ha detenuto potere e responsabilità nell’imprimere alla città sembianze di proprio interesse e gusto, pretendendo di gestirla, espanderla e perfino conservarla attraverso incarichi

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frammentari e fiduciari, e così sottraendone il disegno a chi ne avrebbe avuto effettiva competenza.

Bisogna riconoscere che altrove non si è raggiunto tale sfacelo. Forse il processo di costruzione dell’organismo urbano è avvenuto attraverso opere di architettura singolarmente di livello qualitativo inferiore al nostro, però caratte- rizzato da una organicità purtroppo da noi non riscontrabile. E dire che la fun- zione pubblica di interesse collettivo ha svolto per tradizione un ruolo decisivo nel paesaggio della città italiana.

Il rapporto con la costruzione: la tecnologia

Per chi sia solito procedere da uno stimolo di prefigurazione, il passaggio dall’idea alla realizzazione è senza dubbio una concatenazione non semplice da motivare; e non priva di insidie, quando non sia ancora sorretta dall’esperienza, allorché l’intuizione tipologico-figurativa si deve combinare con la ragione tec- nologica che non sempre si domina con sapienza all’altezza di ciò che si pretende. Nella nostra iniziazione alla tecnica, come ho già detto, c’è stato molto auto- didattismo; al punto che, con autoironia, dovremmo vantarci del “privilegio” di essere tra i pochi architetti ad aver restaurato una propria opera: il Municipio di Segrate13, dove il calcestruzzo lasciato a vista si era vistosamente corroso. Quelli

erano anni nei quali – seguendo appassionatamente il magistero razionalista – il beton brut veniva ritenuto un materiale eterno come la pietra, con tutte le conse- guenze che tale malinteso ha finito spesso per trasmettere all’architettura. E dire che nella nostra attività abbiamo quasi sempre potuto avvalerci per la direzione dei lavori di ingegneri più anziani e ben più esperti di noi. Ma, autocriticamente, devo riconoscere che ci sono pure stati errori che ci competono direttamente: sempre a Segrate ricordo, ad esempio, la grande vetrata in U-glass rivolta a sud, con inconvenienti immaginabili sul clima degli uffici retrostanti.

Non ho mai avuto occasione di interessarmi alla formazione tecnica seguita in altri paesi. Una volta però, dopo una conferenza all’Architectural Associa- tion di Londra, mi furono illustrati i lavori degli allievi e ho potuto constatare come, tutto sommato, la preparazione in questo campo risultasse peggiore della nostra, in quanto sacrificata a favore di un approccio percettivo-espressivo che rischia di esaltarsi in virtuosismo grafico.

Nel seguire la preparazione delle tesi di laurea, affido le verifiche struttu- rali del progetto ai colleghi strutturisti coi quali ho consuetudine. Però, se per paradosso dovessi io stesso sostenere un esame nel merito, penso che potrei anche essere bocciato. Infatti, al passare degli anni, l’architetto che non si de- dichi particolarmente al calcolo strutturale procede ormai per intuito. Tuttavia nel progettare mi consolo constatando che il mio configurare e dimensionare strutture e impianti, ancorché intuitivo, incorre in margini di approssimazione

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tollerabili. E credo che tale “virtù” mi venga dall’esperienza più che dall’eredità di una mentalità ingegneristica.

Tra disegno e architettura: il metodo

A me piace disegnare a mano libera; credo però che tra la fase di prefigura- zione e quella di realizzazione esista una differenza simile a quella che passa in un film tra il lavoro dello sceneggiatore e quello del regista.

Nel mio caso, perciò, l’itinerario dell’architettura non avviene con proce- dere deduttivo, bensì oserei definirlo sperimentale: provando e riprovando. Il progetto nasce in studio, sul tavolo da disegno: trova verifiche nelle varie fasi e scale degli elaborati grafici e dei modelli: ma l’opera architettonica, per la sua configurazione finale, trova la propria messa a punto solo a contatto con la realtà del cantiere.

Oltre a quella di progettare è altrettanto grande la soddisfazione di consta- tare come la costruzione emerga sotto i tuoi occhi anche attraverso le decisioni resesi necessarie in corso d’opera. Infatti l’architettura si compie a cantiere aper- to. In tutte le occasioni nelle quali mi è riuscito di portare a realizzazione un progetto, proprio in questa fase ho provato emozioni e tensioni straordinarie.

La stessa verifica al vero dei materiali o la precisazione di dettagli e partico- lari costruttivi nella fase di realizzazione assume, proprio dal punto di vista del racconto, una forte incidenza sul ritmo, analoga appunto a quella assunta dalle decisioni prese dal regista direttamente sul set.

L’architettura non la si può chiudere dentro le due dimensioni del disegno. Perfino la trasposizione pari di certe immagini allusive della pittura, di certe figure sospese nel tempo della metafisica, una volta tradotte in architettura si trasmutano in qualcosa d’altro.

L’architettura è sempre opera di vissuto e di vivibile. Non riesco a pensare ad un’architettura senza immaginare, al contempo, quello che vi succede dentro e attorno. Ecco il motivo per cui, quando purtroppo accade (ed è il più delle volte), soffro molto della mancata realizzazione di un progetto.

Non ho mai voluto assumere la responsabilità della direzione dei lavori, in quanto in cantiere preferisco esercitare un contraddittorio critico con chi ne ha il ruolo. E dire che il progettista, anche quando abbia per incarico la cosiddetta consulenza artistica, in cantiere rimane soltanto un “tollerato”.

Pertanto, ogni volta che si presenta l’esigenza di una modifica in corso d’o- pera, mi prende il dubbio che il fine ultimo sia la lievitazione dei costi; e molte volte, forse per mancanza di specifica competenza, non riesco a dare risposta a questo dubbio. Eppure nel progettista scatta comunque un meccanismo, defi- nibile di “sopravvivenza dell’opera”, che lo spinge a cercare ulteriori soluzioni creative, le più coerenti possibili dal punto di vista architettonico.

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Anche perché, se si volesse trovare una logica all’iter procedurale a cui sog- giace un’opera pubblica, ci si avventurerebbe in un campo dal quale il progetti- sta è spesso lasciato in disparte. Si tratta di una fenomenica, forse non soltanto edilizia, di complesso burocratismo non sempre disinteressato, divenuta ormai tragicamente patologica.

In questo senso l’iter della nuova sede dell’Istituto Superiore “Bodoni” di Parma14, commissionato dalla Provincia, può risultare significativo: un proget-

to accuratamente pensato e disegnato, per il delicato rapporto con l’ambiente storico circostante, viene affidato per la realizzazione all’impresa che su quello stesso progetto ha vinto la gara d’appalto: ma, quasi dall’inizio dei lavori, co- minciano le richieste di varianti in corso d’opera fondate su motivazioni spesso incomprensibili ai progettisti, eppure accolte dalla direzione lavori (nel caso, un funzionario della Provincia); di conseguenza i lavori durano anni perché gli stanziamenti si sono prosciugati. Invano i progettisti motivano il loro dissenso

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