• Non ci sono risultati.

Altre disposizioni in tema di rapporti familiari durante l’esecuzione penale

7. Ulteriori previsioni a tutela dei rapporti familiari contenute nell’Ordinamento penitenziario e nel Regolamento di esecuzione

7.4 Altre disposizioni in tema di rapporti familiari durante l’esecuzione penale

L’art. 1, 6° co., dell’Ordinamento penitenziario151 sancisce che «Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi». La norma pone l’accento soprattutto sull’esigenza che la pena, all’atto della sua esecuzione, sia disciplinata in modo tale da favorire il recupero del condannato evitando, per quanto possibile, gli effetti desocializzanti propri della carcerazione, specialmente se svolta in un sistema chiuso ai contatti con la società esterna.

All’art. 15, 1° co., vengono poi individuati gli elementi-base dell’azione trattamentale: «Il trattamento del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia.». Indubitabilmente, dice Alessandro Bernasconi152, l’art. 15 possiede un valore propriamente enunciativo, in quanto gli elementi catalogati nel 1° comma trovano una propria e specifica disciplina in altre norme dell’ordinamento penitenziario. Se, nelle vecchie teorie criminologiche “del deficit”, continua l’autore, le carenze e le necessità individuali potevano essere fronteggiate e soddisfatte con strumenti, modalità e risorse tradizionali (soprattutto lavoro, istruzione e religione), oggi il legislatore sembra imporre un allargamento di prospettiva che include nuovi strumenti di intervento e una rinnovata concezione del trattamento. Indicativa al riguardo appare la volontà della

151

Titolo I, Capo I, intitolato “Princìpi direttivi”

legge di agevolare “gli opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”, nella chiara cognizione, afferma Bernasconi, della fuorviante sterilità di un trattamento condotto esclusivamente in istituto, svolto su schemi di vita innaturali, in cui è assente ogni reale connessione tra l’uomo e l’ambiente sociale. In conformità a tale concezione, si tende a dare prevalenza specialmente alla qualità dei rapporti umani e all’atmosfera relazionale che essi creano.

Il favore accordato dalle norme penitenziarie in materia di rapporti familiari sembra tesa tuttavia più a preservare il detenuto dagli effetti estranianti della detenzione che non a salvaguardare il naturale mantenimento e sviluppo dei rapporti parentali e delle relazioni affettive durante l’espiazione della pena detentiva. E, infatti, le norme dell’Ordinamento penitenziario, anche per effetto delle importanti modifiche subite nel corso degli iter legislativi che hanno preceduto l’approvazione della riforma, non affrontano compiutamente la questione dei legami familiari dei detenuti, avendo il legislatore mediare tra esigenze e interessi diversi, se non contrapposti.

A parte le norme specificamente dirette a disciplinare la materia delle relazioni familiari, già illustrate, e quelle riguardanti le misure alternative che pure implicano una diversa e più ampia gestione dei legami parentali, è da osservare che molte altre norme dell’Ordinamento penitenziario che trattano materie che non riguardano direttamente l’ambito familiare e affettivo, hanno su quest’ultimo effetti indiretti non di poco conto. La questione del lavoro intramurale dei detenuti, per esempio, chiama in causa variamente il tema dei rapporti (e della qualità dei rapporti) tra reclusi e congiunti. Innanzitutto, il nucleo familiare costituisce di frequente il principale destinatario delle somme derivanti dalla remunerazione del lavoro penitenziario, risorsa fondamentale e impellente, specialmente nei casi in cui precedentemente all’arresto il sostentamento economico era garantito unicamente dal congiunto, ora in carcere.

Ma gli aspetti da considerare in relazione all’elemento “lavoro” sono molti altri. Si pensi alla trasformazione che subisce, in positivo, l’immagine del soggetto detenuto in carcere nel momento in cui è assegnato a svolgere un lavoro intramurale: dallo status di “detenuto” passa a quello di “detenuto-lavoratore”; da individuo passivo e inattivo diviene soggetto attivo produttore di reddito. In tal modo si alleggerisce il giudizio di irresponsabilità personale spesso formulato nei suoi confronti,dandogli la possibilità di

recuperare, sebbene ciò avvenga attraverso passaggi non certo automatici, un ruolo familiare più dignitoso e rappresentativo (impostato sulla corrispondenza diritti/doveri). Con la conseguenza per il detenuto di salvaguardare anche sul piano simbolico l’immagine di sé nei confronti di mogli, figli, genitori. La dignità così restituita alla persona in carcere attraverso il lavoro, specie se l’assegnazione e l’esecuzione dei compiti lavorativi avvengono secondo criteri di equità e giustizia, è una dignità che si riversa positivamente anche sul mondo vitale esterno del soggetto ristretto, facendo riguadagnare anche al nucleo di appartenenza margini di rispettabilità, autonomia, fiducia. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il carcere avrà colto certamente, almeno in qualche circostanza, quella sorta di orgoglio che trapela da talune espressioni del tipo: «io lavoro in carcere»; «mi hanno dato il lavoro (cioè, sono stato ritenuto meritevole di)», «sto in cucina (piuttosto che “sono in carcere e lavoro in cucina”) oppure «mio padre in carcere lavora», «mio padre ha imparato a lavorare la ceramica» oppure «mio padre studia come me», espressioni queste ultime che si possono ascoltare quando si dà voce ai congiunti dei detenuti.

Quello del lavoro dei reclusi è un argomento molto dibattuto da giuristi, intellettuali e operatori, per le numerosi diatribe concernenti le interpretazioni sull’obbligatorietà del lavoro in carcere o sull’eventuale insorgenza per il detenuto di un vero e proprio diritto al lavoro; per le irrisolte controversie sulla questione delle tutele previste per il lavoro intramurale; per la funzione e i caratteri specifici che il lavoro penitenziario si grava. Su questi argomenti, protendere per un tipo di interpretazione piuttosto che per l’altro non assume evidentemente valore neutro, dato che opzioni differenti determinano esiti differenti, che a loro volta si riflettono e condizionano l’esistenza di tutti i soggetti implicati. L’Ordinamento pare colga in alcuni punti la rilevanza della caratteristica relazionale di queste questioni, ma finisce quasi sempre col privilegiare l’ottica del tornaconto trattamentale e gestionale, trascurando altre importanti implicazioni. L’art. 20, 6° comma, O.P., nel trattare dell’assegnazione al lavoro dei detenuti, stabilisce che: «Nell'assegnazione dei soggetti al lavoro si deve tener conto esclusivamente dell'anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione o di internamento, dei carichi familiari, della professionalità, nonché delle precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui essi potranno dedicarsi dopo la dimissione …».

I criteri di assegnazione al lavoro sono determinati da parametri obbiettivi indicati dalla legge che ne stabilisce le priorità, secondo un sistema che vorrebbe essere imparziale e trasparente, ma che è tenuto a confrontarsi con prassi di tipo organizzativo e gestionale non sempre coerenti con i principi astratti delle norme legislative. Tra i criteri indicati dalla legge, i “carichi familiari” occupano un posto di rilievo, chiaramente in prospettiva della responsabilizzazione del detenuto che non può prescindere dall’abitudine all’ottemperanza degli obblighi familiari. La responsabilizzazione del condannato rappresenta tuttavia per il legislatore, e ciò é desumibile dall’analisi dell’intera disciplina penitenziaria, un elemento mai nettamente definito, sempre in bilico tra due sfere contrastanti: autonomia/soggettività e adesione/osservanza/conformità.

In tema di lavoro all’esterno (regime ex art. 21 O.P.), l’art. 48 del Reg., al 13° comma, stabilisce che le prescrizioni che il detenuto o internato deve impegnarsi per iscritto a rispettare durante il tempo da trascorrere fuori dall'istituto – prescrizioni da definire dettagliatamente nel provvedimento di “assegnazione al lavoro all'esterno senza scorta” - dovranno tener conto anche «della esigenza di consumazione dei pasti e del mantenimento dei rapporti con la famiglia, secondo le indicazioni del programma di trattamento». Il disposto di cui al suddetto art. 48 contempla dunque l’ipotesi che il detenuto ammesso al lavoro all’estero mantenga dei contatti con i familiari, malgrado i limiti propri di un provvedimento avente carattere sicuramente più restrittivo di una misura alternativa153. Avendo però fissato che tale eventualità debba essere prevista e regolamentata dal programma di trattamento condiziona e trasfigura il senso e il concreto svolgersi delle relazioni familiari, le quali vengono in tal modo intrappolate all’interno di una formale prescrizione per rispondere, conformemente all’impianto complessivo dell’Ordinamento, essenzialmente a esigenze di controllo e di trattamento.

L’art. 23 O.P., in materia di “Remunerazione e assegni familiari”, dispone che «Ai detenuti e agli internati che lavorano sono dovuti, per le persone a carico, gli assegni familiari nella misura e secondo le modalità di legge. Gli assegni familiari sono versati direttamente alle persone a carico con le modalità fissate dal regolamento».

153

L’art. 21 O.P., nella versione originaria, rappresentava esclusivamente una “modalità di esecuzione della pena”, in base alla quale il luogo ove il detenuto prestava l’attività lavorativa accordatagli, anziché essere situato all’interno dell’istituto si trovava all’esterno di esso. Nel tempo, c’è stata una progressiva assimilazione dell’istituto del lavoro all’esterno alle misure alternative, pur sussistendo tuttora notevoli differenze in quanto a presupposti e modalità di concessione

L’obbligo di corrispondere al detenuto gli assegni familiari per le persone a carico costituisce una innovazione del legislatore del 1975154 che ha sancito esplicitamente la sussistenza di un diritto agli assegni familiari. Con ciò è stato sottolineato, dice Maria Riccarda Marchetti155, l’avvicinamento del lavoro carcerario al lavoro libero: una chiara linea di tendenza che informa di sé l’Ordinamento del 1975 e più ancora le modifiche successive. Relativamente alle modalità applicative di cui al comma 2 dell’art. 23, laddove prescrive che i versamenti debbano effettuarsi direttamente alle persone a carico e non al detenuto lavoratore, è possibile dedurre che la ratio della norma sia quella di impedire che il detenuto possa destinare ad altri, o ad altri scopi, le somme percepite a titolo di assegni familiari. Sarebbe infatti pur sempre possibile, afferma Marchetti, che il soggetto in carcere, vivendo separato dal nucleo familiare, si disinteressi di esso e decida di destinare diversamente gli importi ricevuti per il sostentamento della propria famiglia.

Il predetto articolo è integrato dall’art. 55 del Regolamento di esecuzione che dispone: «1. I detenuti e gli internati lavoratori devono fornire alla direzione dell'istituto la documentazione, per essi prescritta, intesa a dimostrare il diritto agli assegni per il nucleo familiare per le persone a carico. 2. Qualora il detenuto o l'internato non provveda a fornire la documentazione, la direzione ne informa le persone a carico, invitandole a provvedervi. 3. Ove i soggetti o le persone a carico incontrino difficoltà nella produzione dei documenti richiesti, la direzione provvede direttamente all'acquisizione, chiedendo agli uffici competenti le certificazioni necessarie. 4. Gli importi sono consegnati direttamente alle persone a carico o spediti alle stesse.». Nelle situazioni qui contemplate, l’intenzione del legislatore sembra andare nella direzione di ovviare all’eventuale disinteresse, o inerzia, del detenuto, dando facoltà ai congiunti di provvedere autonomamente a presentare la documentazione atta a dimostrare il diritto agli assegni familiari.

Il disposto di cui al 2° comma dell’articolo appena citato costituisce un caso straordinario nel complesso dell’ordinamento penitenziario (legge ordinaria e regolamento di esecuzione), perché in via del tutto eccezionale è assegnato ai familiari dei detenuti un ruolo attivo e autonomo, contrariamente a quanto stabilito in altre

154

Nel regolamento precedente non esisteva alcuna disposizione ad hoc, per cui la corresponsione di tali assegni doveva ritenersi esclusa

155

Marchetti M.R., Remunerazione e assegni familiari, in V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa (2006), cit., pp. 310-314

norme che attribuiscono sempre una indiscussa centralità alla volontà del detenuto nel richiedere benefici, dichiarare facoltà e interessi, esercitare o reclamare diritti. Significativo risulta essere anche l’art 24 O.P., intitolato “Pignorabilità e

sequestrabilità della remunerazione”, che recita: «La remunerazione dovuta agli

internati e agli imputati non è soggetta a pignoramento o a sequestro, salvo che per obbligazioni derivanti da alimenti, o a prelievo per il risarcimento del danno arrecato alle cose mobili o immobili dell'amministrazione.».

Con la norma appena citata, dice M. R. Marchetti, risulta evidente la scelta di porre una deroga priva di limiti alla pignorabilità o sequestrabilità nel caso di obblighi per alimenti. E’ da ritenere, cioè, che il legislatore abbia inteso privilegiare le esigenze alimentari di coloro che nella società libera devono provvedere da soli al loro mantenimento, rispetto a quelle del detenuto che vengono comunque soddisfatte dallo Stato che provvede al suo mantenimento156.

Va ancora segnalato l’Art. 57 del Reg. Es., in base al quale «4. Il fondo disponibile può essere usato per invii ai familiari o conviventi, per acquisti autorizzati, per la corrispondenza, per spese inerenti alla difesa legale, al pagamento di multe, ammende o debiti e per tutti gli altri usi rispondenti a finalità tratta mentali … 6. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria stabilisce, all'inizio di ciascun anno, l'ammontare delle somme che possono essere spese per gli acquisti e la corrispondenza e di quelle che possono essere inviate ai familiari o conviventi.».

In sostanza, nel sistema delineato dalla legge e dal regolamento di esecuzione, il fondo disponibile intende corrispondere ai bisogni personali e familiari del detenuto, mentre il fondo vincolato è volto, da un lato, a consentire l’accantonamento di somme utilizzabili all’atto delle dimissioni, dall’altro, ad evitare che le disparità nelle condizioni di vita all’interno del carcere, dovute anche alla differente disponibilità economica dei singoli detenuti, possano riprodurre le disuguaglianze presenti a più largo raggio nella società e, potenzialmente, tradursi in meccanismi di potere e di assoggettamento. Nel concreto della realtà penitenziaria infatti, indipendentemente da taluni importanti accorgimenti legislativi, le condizioni di vita durante l’esecuzione della pena in carcere

156

possono assumere carattere più o meno afflittivo in relazione a molti e distinti fattori. Uno di questi è riferibile alla circostanza che il recluso disponga di fondi propri per l’acquisto in surplus a quanto garantito dall’amministrazione di beni per sé e per gli altri, ponendosi teoricamente in posizione di dominio rispetto alla generalità della popolazione detenuta.

Un altro fattore che crea distinzioni nella condizione dei detenuti riguarda la possibilità del recluso di effettuare colloqui con i congiunti e di ricevere dall’esterno effetti personali e generi alimentari consentiti, in aggiunta a quelli ordinariamente concessi dall’Amministrazione penitenziaria. E’ l’art. 14, DPR 230/2000, che disciplina tale materia, stabilendo al punto 6) che «I detenuti e gli internati possono ricevere quattro pacchi al mese complessivamente di peso non superiore a venti chili, contenente esclusivamente generi di abbigliamento, ovvero, nei casi e con le modalità stabiliti dal regolamento interno, anche generi alimentari di consumo comune che non richiedono manomissioni in sede di controllo».

I pacchi costituiscono anche a livello simbolico un importante strumento di congiunzione tra il dentro e il fuori; materializzano, e quindi rendono concreti, i contenuti affettivi della relazione familiare; rendono manifesto l’atteggiamento solidale e di cura verso il congiunto in carcere; danno l’idea del senso di utilità reciproca che sussiste nei legami parentali; trasmettono a livello sensoriale i sapori e gli odori che ricordano e simboleggiano la vita libera. La disposizione sui pacchi si propone però innanzitutto di umanizzare le condizioni di vita interne alle strutture carcerarie, e di neutralizzare gli effetti desocializzanti e la degradazione della personalità conseguenti alla detenzione.

Accanto alle disposizioni già menzionate, ve ne sono altre che meritano in questa sede di essere richiamate per le finalità ad ampio raggio che si propongono, in quanto tentano di trascendere il quotidiano del penitenziario per aprire il sistema dell’esecuzione penale al contatto e alla compartecipazione della società esterna. In tal senso, l’Art. 78 O.P., intitolato “Assistenti volontari”, 4° comma, dispone: «Gli assistenti volontari possono collaborare coi centri di servizio sociale per l'affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l'assistenza ai dimessi e alle loro famiglie».

La previsione dell’intervento del volontariato durante l’esecuzione penale costituisce, secondo autori come Di Gennaro, Breda, La Greca, una delle espressioni più significative della valorizzazione della comunità libera nel processo di risocializzazione del detenuto157. Il riconoscimento dell’importanza dei rapporti con l’ambiente esterno, afferma Stefania Mussio158, riveste un indubbio valore ideologico, perché segna un nuovo modo di intendere il concetto di difesa sociale: dalla emarginazione dell’individuo che ha violato le regole comuni ci si sposta verso l’asse “reinserimento”. Secondo il legislatore, continua la Mussio, l’obiettivo risocializzante va perseguito mediante l’impegno congiunto degli esponenti del corpo sociale e degli operatori penitenziari, per costruire e mantenere efficiente quel ponte ideale tra carcere e società, in grado di offrire stimoli culturali e affettivi che rendono possibile e praticabile la via del trattamento.

Proprio in considerazione dell’importanza riconosciuta al collegamento carcere/territorio, nel 1999 è stato sottoscritto un Protocollo di intesa tra Amministrazione penitenziaria (DAP) e “Conferenza nazionale del volontariato giustizia” che sancisce tra le parti un impegno comune per il raggiungimento delle finalità istituzionali. Sebbene l’attività del volontariato vada considerata in un’ottica di complementarietà rispetto a quella degli operatori penitenziari, essa non può essere intesa in termini di «adeguamento degli interventi dell’assistente volontario al livello di professionalità degli operatori di ruolo»159. Altrimenti, come affermano numerosi esponenti della dottrina, si finirebbe per mortificare il valore essenziale dell’azione svolta dagli assistenti volontari che invece si qualifica per la spontaneità e gratuità degli interventi, per i tratti di solidarietà umana, per quel rapporto “da uomo a uomo” capace di prescindere dai ruoli o altra condizione, per un modo di parlare e di agire di tipo comune e non tecnico. Ed è proprio grazie a queste caratteristiche non istituzionali che evidentemente l’opera di supporto e di mediazione svolta dai volontari nei confronti dei detenuti e delle loro famiglie può avere esiti di successo.

157 Di Gennaro, Breda, La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè,

Milano 1997

158

Mussio S., Assistenti volontari, in V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa (2006), cit., pp. 1066-1077

Il legislatore ha previsto il coinvolgimento del volontariato specialmente negli artt. 88