7. Ulteriori previsioni a tutela dei rapporti familiari contenute nell’Ordinamento penitenziario e nel Regolamento di esecuzione
7.1 La detenzione domiciliare, con particolare riferimento alla “detenzione domiciliare speciale”
La detenzione domiciliare, disciplinata dall’art. 47-ter O.P., è un istituto individuato come soluzione alternativa al regime detentivo pieno in tutti quei casi di devianza considerata minore, in cui il carcere costituirebbe una risposta troppo forte ed inadeguata, perché allontanerebbe il singolo dal suo ambiente per relegarlo in una realtà alienante ed estranea come quella penitenziaria.
Dopo la prima stesura dell’art. 47-ter introdotto dalla Legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Legge Gozzini), la misura della detenzione domiciliare è stata più volte ritoccata ed è oggi disciplinata secondo le innovazioni introdotte dalla legge Simeone che ha previsto, in presenza di condizioni oggettive e soggettive stabilite dalla norma la possibilità che «La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell'arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza …».
Una delle ipotesi contemplate dalla legge per essere ammessi alla detenzione domiciliare (comma 1, lett. a) riguarda la donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente. L’evoluzione dell’istituto della detenzione domiciliare, fa registrare una dilatazione del requisito relativo all'età della prole, originariamente fissato in tre anni, elevato dapprima a cinque e poi a dieci anni, secondo la chiara
tendenza a favorire le esigenze di crescita e formazione del bambino, il cui sviluppo potrebbe essere seriamente pregiudicato dall'assenza della figura genitoriale.
Al comma 1, lett. b), è previsto inoltre che possa fruire del beneficio anche il «padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole». Con quest’ultima disposizione, la Legge Simeone-Saraceni (L n. 165/98) ha recepito il principio affermato dalla Corte Costituzionale (Sentenza 4-4-1990, n. 215) circa la doverosità di ammettere alla detenzione domiciliare il padre che si trovi nella necessità di prendersi cura della prole110.
Al condannato, al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, C.P., può essere concessa la detenzione domiciliare se la pena detentiva inflitta, anche se costituente parte residua di maggior pena, non superi tre anni.
La modifica di maggior rilievo resta, secondo l’opinione del Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Dott. Enrico Delehaye, quella introdotta dal comma 1-bis della legge Simeone, che ha contemplato un caso del tutto nuovo e di generale applicazione, così disponendo: «La detenzione domiciliare può essere applicata per l'espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all'articolo 4-bis e a quelli cui sia stata applicata la recidiva prevista dall' articolo 99, quarto comma, del codice penale». Con tale disposizione, dice Delehaye, è stata creata una misura alternativa sostanzialmente nuova col regime della detenzione domiciliare, ma con un ambito di applicazione da un lato minore (per il limite di pena di due anni e non di quattro) e dall’altro di enorme portata, dal momento che i soli presupposti per l’applicazione sono l’idoneità ad evitare la reiterazione di reati e l’impossibilità di concedere l’affidamento. Per la concessione di tale misura è necessario formulare una prognosi e valutare la pericolosità sociale del richiedente: il giudizio finale dovrà essere
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Per gli approfondimenti relativi all’individuazione del presupposto dell’«assoluto impedimento della madre», si rinvia al manuale di Canepa-Merlo (2010), cit., p. 316.
positivo, ma non di piena affidabilità, perché in tal caso sarebbe concedibile il beneficio più ampio dell’affidamento, rispetto al quale si presenta succedaneo111.
Al comma 4 dell’art. 47-ter O.P., è stabilito che «Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare, ne fissa le modalità secondo quanto stabilito dall'articolo 284 del codice di procedura penale. Determina e impartisce altresì le disposizioni per gli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare». In forza del rinvio operato dall’art. 47-ter all’art. 284 c.p.p., si sancisce che anche in caso di detenzione domiciliare, come in quello degli arresti domiciliari, sia prevista la facoltà di imporre al condannato particolari limiti o divieti di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano112 e che possa essere concessa al detenuto l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo strettamente necessario per provvedere alle indispensabili esigenze di vita se mancano persone che possano provvedervi, o se il soggetto versi in situazione di assoluta indigenza, ovvero per esercitare una attività lavorativa (così Sez. I, 20-5-2003 n. 30132, Sessa, RV. 226136). Un problema ancora aperto riguarda la possibilità che vengano inflitte “prescrizioni positive”, oltre l’eventuale divieto di comunicare con terzi e la possibilità di deroga all’obbligo di permanenza presso la dimora per esigenze indispensabili. Gli interventi di servizio sociale previsti nel già citato comma 4, per esempio, come si raccordano con un quadro di prescrizioni e obblighi dal valore solo restrittivo? Tuttavia, si legge in Canepa- Merlo, i compiti propulsivi normalmente affidati all’UEPE fanno propendere a favore della tesi di chi asserisce che prescrizioni positive, sia pure con il limite dell’assoluta necessità a far realizzare gli scopi costituzionali della pena, possano essere impartite anche al detenuto domiciliare113.
111 Delehaye E., Le questioni controverse in tema di esecuzione della pena: gli orientamenti del giudice di legittimità, http://appinter.csm.it/incontri/relaz/11081.pdf
112 Si pensi, per esempio, all’incidenza dei divieti nel caso di detenuto/genitore che voglia continuare ad
esercitare il ruolo genitoriale relativamente alle esigenze di vita scolastica e sociale dei propri figli che richiedono contatti e interventi non sempre delegabili
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Ibidem, pp. 328-332. Il riferimento agli scopi costituzionali della pena pone al centro la finalità rieducativa e di reinserimento sociale del condannato e non certamente i bisogni di altri soggetti a lui fatalmente legati, che pure sono titolari di diritti ed interessi rilevanti, ma la cui soddisfazione può operare solo in via indiretta, passando attraverso il sistema delle tutele eventualmente previste per il soggetto detenuto
La chiarezza e l’adeguatezza delle prescrizioni alle situazioni di vita del detenuto deve considerarsi un dato di assoluta rilevanza, sia perché esse contribuiscono a dare senso alla misura concessa, sia perché l’inosservanza degli obblighi impartiti, a prescindere dalle motivazioni che l’hanno determinata, può comportare la sospensione del beneficio, con possibilità di revoca.
La detenzione domiciliare umanitaria (art. 47-ter, comma 1-ter O.P.) ha introdotto la possibilità di concessione della detenzione domiciliare, senza limiti di pena, per i casi in cui sarebbe concedibile il differimento dell’esecuzione ai sensi degli artt. 146 e 147 C.P. Tale beneficio ha un termine di durata prestabilito (evidentemente anche inferiore alla durata della pena), allo scadere del quale, in assenza di proroga, si riprende la carcerazione.
Un ulteriore passo è stato compiuto con la L. 8-3-2001 n. 40, che disciplina la
detenzione speciale per le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci
che possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli (art. 47-quinquies. Detenzione domiciliare speciale). Anche per la madre di figli minori, come per tutti i soggetti che possono essere ammessi alla detenzione domiciliare, è escluso dalla legge un rigido automatismo nella concessione della misura, dovendo sussistere specifiche condizioni. Per poterne fruire, infatti, le richiedenti non devono trovarsi nelle condizioni di fruire della detenzione domiciliare generale, ex art. 47-ter., e devono aver espiato almeno un terzo della pena o quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo; è inoltre stabilito che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e sia possibile, grazie al beneficio di che trattasi, di ripristinare la convivenza con i figli. E’ ancora necessario, perché la misura sia concedibile, che la madre non sia stata dichiarata decaduta dalla potestà genitoriale (ai sensi dell’art. 330 C.C.). La detenzione domiciliare speciale può essere concessa alle stesse condizioni previste per la madre, anche al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre (comma 7, art. 47-quinquies). La misura, una volta concessa, è revocata se il comportamento del soggetto beneficiario, contrario alla legge o alle prescrizioni
dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della misura (comma 6, art. 47- quinquies).
Alcuni dei presupposti indicati dalla legge per la concessione del beneficio della detenzione domiciliare speciale hanno acceso un ampio dibattito tra studiosi, giuristi, operatori penitenziari. C’è da considerare innanzitutto il carattere residuale della misura della detenzione domiciliare speciale per il fatto che essa sia applicabile «quando non ricorrono le condizioni di cui all'articolo 47-ter», cioè della detenzione domiciliare generica. Il riferimento poi alla possibilità di «ripristinare la convivenza con i figli» lascia intendere che la donna si trovi, al momento della richiesta del beneficio, in stato di detenzione. Eppure, come si afferma in Canepa-Merlo, l’esigenza di non interrompere la convivenza ancora in atto sarebbe di ugual pregio, rispetto alla ricostituzione dell’unità familiare, interrotta dalla carcerazione. La norma, cioè, ben potrebbe applicarsi a persone in stato di libertà all’atto della richiesta, come per esempio al termine della custodia cautelare non detentiva oppure al termine di un differimento della esecuzione della pena, precedentemente concesso. La norma invece è più favorevole per chi si trovi agli arresti domiciliari al momento del sopravvenire della condanna definitiva, poiché il comma 10 dell’art. 656 C.P.P. tende a semplificare il passaggio dagli arresti domiciliari alla detenzione domiciliare, o alle altre misure alternative, sussistendo gli specifici presupposti di legge per la concessione per coloro che si sono già dimostrati idonei a fruire di misure extracarcerarie. La suddetta norma dispone infatti che se il condannato si trova agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, il pubblico ministero sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmette gli atti senza ritardo al tribunale di sorveglianza perché provveda alla eventuale applicazione di una delle misure alternative previste. E’ disposto inoltre che fino alla decisione del tribunale di sorveglianza il condannato permane nello stato detentivo nel quale si trova, e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata a tutti gli effetti.
In relazione alle “quote pena” che devono essere già espiate perché il beneficio della detenzione domiciliare speciale possa essere concesso, è importante considerare che, a differenza di quanto previsto per altre misure, non è stabilita una quota differenziata maggiore per i reati di cui all’art. 4-bis O.P.114.
Una questione su cui si discute molto riguarda il presupposto che impone, ai fini della concessione del beneficio, una valutazione sulla eventuale sussistenza di un «concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti». Le riflessioni al riguardo ineriscono sia il tema più complessivo dei processi valutativi e dei metodi e criteri ad essi propedeutici, sia il fatto che l’utilizzo di taluni criteri piuttosto che di altri (valutazioni riguardanti per esempio la regolarità formale dei nuclei familiari di appartenenza oppure il possesso di talune caratteristiche personologiche) sfavorirà inevitabilmente non tanto i reati di maggiore peso criminale, quanto quelli connessi a particolari condizioni familiari e personali (es. tossicodipendenza).
Per quel che attiene le prescrizioni e il contenuto della misura, la norma prevede al comma 3. che «Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare speciale, fissa le modalità di attuazione, secondo quanto stabilito dall'articolo 284, comma 2, del codice di procedura penale, precisa il periodo di tempo che la persona può trascorrere all'esterno del proprio domicilio, detta le prescrizioni relative agli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la misura.». Avverso i provvedimenti adottati dal magistrato di sorveglianza a seguito di richieste di modifica delle modalità di esecuzione della detenzione domiciliare deve ritenersi esperibile, trattandosi di provvedimenti che incidono sulla libertà personale, il ricorso per cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, penultimo capoverso, della Costituzione, rendendo così più pregnanti il controllo e la tutela giurisdizionali. (Cass., Sez. I, 20-5-2003 n. 30132)115.
In correlazione con lo scopo del beneficio, teso alla tutela dei rapporti familiari, la norma prevede ai commi 5 e 6 il coinvolgimento dell’UEPE: «All'atto della scarcerazione è redatto verbale in cui sono dettate le prescrizioni che il soggetto deve seguire nei rapporti con il servizio sociale.» e ancora «Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita; riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto.». Se
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Delehaye E., Le questioni controverse in tema di esecuzione della pena: gli orientamenti del giudice di
dunque la funzione di controllo sull’andamento della detenzione domiciliare è esercitata in via esclusiva dagli organi di polizia, resta riservata ai servizi sociali l’attività di supporto, di aiuto e di orientamento disposta dal tribunale di sorveglianza, soprattutto per prestare sostegno in ordine a delicate situazioni familiari, acquisire informazioni e documentazione, favorire il migliore e attivo adattamento del soggetto all’ambiente esterno.
Le disposizioni di cui all’art. 47-quinquies prevedono, al comma 8., che su richiesta del soggetto ammesso a fruire della detenzione domiciliare speciale, al compimento del decimo anno di età del figlio, «il tribunale di sorveglianza può: a) disporre la proroga del beneficio, se ricorrono i requisiti per l'applicazione della semilibertà di cui all'articolo 50, commi 2, 3 e 5; b) disporre l'ammissione all'assistenza all'esterno dei figli minori di cui all'articolo 21-bis, tenuto conto del comportamento dell'interessato nel corso della misura, desunto dalle relazioni redatte dal servizio sociale, ai sensi del comma 5, nonché della durata della misura e dell'entità della pena residua». La norma, si legge in Canepa- Merlo, salda in modo del tutto innovativo, attraverso la proroga prevista, la detenzione domiciliare alla semilibertà che di fatto si configura come una ulteriore forma di detenzione domiciliare. Si osserva ancora che la disciplina restrittiva per i reati di cui all’art. 4-bis O.P., per quel che riguarda le cosiddette “quote pena”, pur non incidendo in sede di prima concessione del beneficio, sarà rilevante in sede di proroga, dovendosi in questo caso far riferimento ai “requisiti per l'applicazione della semilibertà”.
In conclusione si può affermare che la legge 8 marzo 2001, n. 40, pur costituendo una importante base normativa nell’ottica di una più ampia tutela della madre detenuta e del rapporto madre-figli, sembra avere una formulazione poco confacente a realizzare in modo sufficiente gli scopi dichiarati dai promotori dell’iniziativa legislativa. Essa infatti ha prefigurato un sistema rigido entro cui il magistrato può muoversi, precludendogli di fatto la possibilità di entrare nel merito di analisi più ampie e articolate e di decidere sulla concessione della misura anche a prescindere dall’età del minore e dalla durata della pena residua. Dovendo invece la normativa contemperare interessi differenti e funzioni contrapposte, come normalmente accade quando ci si muove nel penale, non prende in considerazione più di tanto i veri bisogni dei beneficiari indiretti dell’istituto della detenzione domiciliare speciale, cioè i figli minori di genitori in carcere. Anzi, si ha
spesso l’impressione che essi siano visti e considerati piuttosto come bagagli che in un certo momento è bene stiano con i propri naturali affidatari e in un altro momento - per un mero fatto anagrafico o giuridico – possono tranquillamente essere destinati ad altri “depositi”. La legge non si preoccupa affatto né del prima e né del dopo, si preoccupa del “mentre”, per fini oltretutto di controllo sociale.
L'evoluzione normativa dell'istituto della detenzione domiciliare concedibile alla madre di prole minore, afferma Mario Pavone116, dovrebbe essere connotata dalla tendenza verso una crescente estensione delle condizioni che consentono tale misura, essendo chiaro l'intento del legislatore di tutelare il rapporto tra la madre (e, nei casi previsti, il padre) ed i figli, pur nella situazione di esecuzione della pena detentiva. La possibilità di concedere la detenzione domiciliare al genitore condannato, convivente con un figlio minore, dice ancora Pavone, appare pienamente rispondente all'impegno della Repubblica, sancito nel secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità.
Le norme della detenzione domiciliare speciale, secondo l’analisi svolta da Pavone, inducono particolari perplessità anche in relazione al fatto che esse determinerebbero un trattamento difforme rispetto a situazioni familiari analoghe ed equiparabili fra loro, quali sono quella della madre di un figlio minore degli anni dieci e quella della madre di un figlio disabile e incapace di provvedere autonomamente anche alle sue più elementari esigenze, il quale, a qualsiasi età, ha maggiore e continua necessità di essere assistito dalla madre. L’idea di estendere ed ampliare la tutela alle madri detenute, al fine indiretto di garantire ai figli un adeguato sviluppo fisio-psichico a cominciare dal mantenimento dei legami affettivi con i propri genitori, costituisce oggi un obiettivo più che mai auspicabile, e ciò anche per importanti ragioni legate al mutamento culturale e sociale degli ultimi tempi. Negli anni più recenti, afferma Pavone, nel mondo occidentale, l’attenzione per l’infanzia è andata crescendo e si è modificata enormemente nei contenuti: accanto all’idea che i ragazzi dovessero essere controllati, educati e guidati, si è andata consolidando l’idea che essi vadano innanzitutto aiutati nel processo di socializzazione, dando rilievo e soddisfazione ai loro bisogni psicologici e
116 Pavone M., Le detenute madri-Riflessioni a margine della sentenza di Cogne, Pubblicato in diritto
affettivi. Si è pertanto delineata una nuova immagine del bambino a cui ha fatto riscontro il convincimento, condiviso dalle istituzioni e da un numero sempre più alto di persone, che infanzia e fanciullezza debbano essere salvaguardate con ogni sforzo. L’esigenza di un mutamento normativo coerente con i recenti mutamenti culturali e sociali diventa pertanto un’esigenza crescente non facilmente eludibile. Perché, come afferma Dennis Chapman, la principale funzione che le riforme nel settore penale ricoprono è quella di conservare il sistema adattandolo ai cambiamenti sociali. Se invece le condizioni rimanessero immutate, il sistema penale scenderebbe al di sotto della soglia di tolleranza117.