Innanzitutto la trama, a vero dire alquanto esile, del racconto. Protagonisti di Am
Ortler sono due fratelli, uno scienziato che si occupa dello studio degli strati
atmosferici (“Luftschichten”) e un acrobata, o equilibrista, famoso per i suoi “Kunststücke”, giochi di destrezza “auf dem Boden und auf dem Seil” (AO 172), a terra e sulla fune. La strana coppia di fratelli, per trascorrere finalmente un po’ di tempo lontana dall’odiato consorzio umano, decide di trasferirsi in una malga situata sull’Ortler, una delle montagne più alte del massiccio delle Alpi Retiche meridionali. Colà si trova infatti la sopracitata malga, che i due hanno ereditato dai propri genitori, ma che però non visitano più da decenni. Lo scopo del viaggio è appunto quello di controllare lo stato del possedimento familiare, la sua abitabilità, per poi dopo
Per un approfondimento sul tema si rimanda a Lakoff - Johnson 2012. In merito ai due testi che
159
analizzeremo, tale lavoro di riflessione sulla natura metaforica del linguaggio è evidente soprattutto in
Gehen, nella parte finale del racconto, in cui Oehler si sofferma sul termine “Gedankengang”,
ragionamento, letteralmente corso, moto, andatura del pensiero, che gli permette di allestire, o meglio di giustificare il paragone già ampiamente sviluppato in precedenza fra pensare e camminare (GE 218). Che l’attenzione di Oehler (e quindi di Bernhard) si concentri in questo caso sulla lingua, ovvero sulla lingua tedesca, è dimostrato dal fatto che, volendo tradurre il testo in italiano, molta della sua efficacia vada persa, risultando il paragone meno immediato e anzi assai più macchinoso (perché in italiano raramente ci capita di utilizzare l’espressione “corso dei pensieri”, che peraltro non è un termine, ma una perifrasi sinonimica della traduzione letterale della parola tedesca, “Gedankengang”, che è invece abbastanza comune).
stabilirvisi per qualche tempo, due, tre anni al massimo, nel più completo (e gradito) isolamento.
I due fratelli cominciano dunque l’ascensione verso l’Ortler, in una notte chiara e tranquilla, lasciandosi alla spalle Gomagoi, dove avevano fino a quel momento alloggiato. La serenità della camminata viene però immediatamente turbata dalla conversazione, sempre che la si possa definire in questo modo , sorta quasi 160
spontaneamente fra i due fratelli, che si mettono a riflettere sulle rispettive vite che hanno condotto fino a quel momento, sul rapporto simbiotico, quasi gemellare che li lega e sulla famiglia, ovvero sui genitori, entrambi deceduti. Conversando i due fratelli proseguono la loro scalata, oltrepassando diverse locande della zona, aumentando la propria velocità oppure allungando il passo, quasi senza mai fermarsi, dunque surriscaldando sempre più i propri corpi e perciò anche le proprie teste e i propri cervelli, nonché ovviamente i relativi pensieri da essi scaturiti. Il dialogo incessante viene di tanto in tanto cadenzato dalle parole dell’equilibrista - che scopriamo a poco a poco godere di cattiva salute - “weiter! Weiter!” e “höher! Höher!”, che egli pronuncia imitando il tono del padre, che in tal modo era solito spronare i fratelli quando da piccoli si recavano con i genitori nella malga.
Ormai allo stremo delle forze, i due riescono infine a raggiungere la meta prefissata, ma sono fin da subito costretti a constatare il fallimento del loro progetto. La malga è infatti ridotta a un cumulo di macerie, che non offrono nemmeno più uno “Schutzmittel”, un elementare mezzo di riparo dalle temperature proibitive dell’alta montagna. Ciò nonostante lo scienziato riesce comunque a preparare un giaciglio di fortuna dove poter riposare, in attesa di ripartire alla volta della Val di Solda, il giorno successivo. Una volta raggiunta la valle, egli sistema il fratello in una locanda conosciuta, di nome Laganda, e torna a Gomagoi, per cercarvi aiuto. Dal finale del racconto sappiamo che il fratello malato, che avevamo lasciato nella locanda, è stato successivamente internato in un istituto di sanità mentale situato in un sobborgo di Innsbruck. “Ich glaube nicht, daß er jemals wieder auftreten wird” (AO 195), conclude lo scienziato con tono afflitto.
Cfr. Fuest 2000, p. 75.
Infatti proprio allo studioso di scienze dell’atmosfera è affidata in questo caso la narrazione. Si tratta nello specifico di un resoconto che egli indirizza a un “geehrter Herr”, qualificato in un altro passo del racconto come “Agent” (AO 171), ossia impresario (teatrale), di cui tuttavia non sappiamo nient’altro, a esclusione del legame confidenziale che lega costui ai due fratelli (in primo luogo all’acrobata). In questa sorta di strano protocollo epistolare trovano dunque posto la descrizione del viaggio, e soprattutto i lunghi dialoghi fra i due protagonisti. Anche in Am Orlter, però, le frasi altrui vengono sempre citate in forma indiretta, spesso mediante l’utilizzo del
Konjunktiv I. Il solito zelo con il quale il narratore si sforza di riportare quanto più
precisamente possibile le parole del fratello lascia intendere che proprio su di lui sia centrata la narrazione, cioè che lo scienziato voglia ragguagliare il destinatario sulle condizioni dell’acrobata, che sappiamo del resto malato.
Di ciò e di nient’altro tratta Am Ortler. Molti dei motivi in esso presenti sono peraltro riconducibili a opere precedenti, e verranno talvolta ripresi negli scritti successivi. Innanzitutto è possibile notare una somiglianza fra il racconto e Die Mütze. In entrambe le prose infatti è presente una coppia di fratelli, uno malato, l’altro sano. Tuttavia, a differenza di Die Mütze, in Am Ortler è il fratello sano a scrivere, laddove nel primo racconto esso veniva soltanto, per così dire, evocato dal fratello malato, che ne occupava la casa in sua assenza. Si trattava in pratica di una presenza fantasmagorica, che però, per contrasto, riusciva a farsi sentire durante l’intero arco della narrazione.
Molto più sostanziali sono invece le somiglianze con il secondo romanzo pubblicato da Bernhard, Amras. Esso racconta infatti la storia di una sofferta prigionia, quella di due fratelli rinchiusi in una torre dallo zio, a seguito della morte di entrambi i genitori. A parte il fatto che la malga, anche per la posizione rialzata che la denota, essendo situata sulla cima dell’Ortler, può essere paragonata a una torre, non da ultimo per l’identico ruolo protettivo e isolante che essa, nelle intenzioni dei due fratelli, dovrebbe svolgere, a parte questo, si diceva, è principalmente il legame che unisce i due protagonisti a ricordare il romanzo. Anche in Amras troviamo infatti due fratelli che sono sì diversi fra di loro, ma al contempo complementari. In entrambi i casi un fratello, colui che scrive, gode di migliore salute rispetto all’altro. Il rapporto che li
lega è inoltre parimenti enigmatico, come abbiamo detto simbiotico e gemellare, interpretabile ancora una volta secondo i parametri offerti dal concetto freudiano di
Unheimliche. Bernhard adotta spesso questa soluzione , come testimoniano altre 161
opere, per esempio Auslöschung, dove le sorelle di Murau, Amalia e Caecilia, possono essere considerate vere e proprie Doppelgänger. Vi sono poi dei testi nei quali due personaggi, pur non essendo di fatto uniti da legami parentali, sono contraddistinti da un rapporto altrettanto enigmatico, di specularità quasi perfetta. Tale è il legame, per esempio, fra Roithamer e il narratore in Korrektur (come si evince dalla storia della loro adolescenza) e soprattutto fra i due personaggi del racconto minore Wiedersehen (1982), il cui tema principale, se non unico, è precisamente quello della specularità fra due personaggi . 162
Tornando un momento ad Amras, Alfred Pfabigan vi individua giustamente il capostipite di quella famiglia di testi che definisce “Turmtexte”, e interpreta la torre come luogo, a un tempo, di separazione dal mondo e di “Verlängerung der Familie”, ovvero come una sorta di appendice del familiare, come sempre inteso negativamente, in quanto castrante, soffocante . Fra il romanzo e il racconto vi è però una differenza 163
essenziale e assai significativa, eppure facilmente spiegabile al netto di quanto detto fino adesso. Difatti mentre i fratelli di Amras subiscono passivamente il loro destino, venendo rinchiusi dallo zio, contro il loro volere, nella torre che secondo lui dovrebbe difenderli, quelli di Am Ortler scelgono volontariamente di trascorrere del tempo nella malga, che rappresenta, al pari della torre, una roccaforte del familiare. Essi non sono dunque poi così diversi da Konrad, che si era trasferito nella fornace, luogo altrettanto
Cfr. Huntemann 1991, p. 48, Jahraus 1991, pp. 57-59, Tismar 1970, p. 69.
161
Entrambi i racconti presentano una Pointe, come già Die Mütze e in genere molte prosi brevi o
162
brevissime di Bernhard. In Wiedersehen un amico enumera all’altro una nutrita serie di attività che essi erano soliti fare insieme, spesso in compagnia dei rispettivi genitori, durante la giovinezza. Alla fine del racconto domanda al taciturno ascoltatore, fino a quel momento rimasto pazientemente ad ascoltarlo, se egli ricordi altrettanto bene quel periodo della sua vita, ma la sua risposta, con cui termina il racconto, è la seguente: “non mi ricordo proprio niente” (WI 95). In Am Ortler assistiamo a una scena molto simile; a un certo punto del racconto l’acrobata rievoca infatti delle sensazioni provate parecchi decenni prima, chiedendo al narratore conferma di quanto appena sostenuto: “Erinnerst du dich? fragte er”; la risposta del narratore, ripetuta ben due volte a distanza di poche righe, è identica a quella dell’amico dell’altro narratore, l’Ich-Erzähler di Wiedersehen: “ich erinnere mich nicht, sagte ich” (AO 193). In generale le affinità fra i due racconti sono molto numerose.
Cfr. Pfabigan 2009, pp. 84-86.
familiare, per esaudire un desiderio infantile, sono insomma, al pari di lui, dei
Geistesmenschen in piena regola, che falliscono anche perché non si dimostrano in
grado di sottrarsi alle spire dell’origine, della famiglia.
Essi sono però al contempo già un passo oltre Konrad, cioè un passo più vicini a Roithamer, non tanto, come abbiamo appena visto, in merito all’Herkunftskomplex, ma semmai considerando i risultati che sono riusciti a ottenere nei rispettivi campi d’impiego. L’uno, lo scienziato, afferma (in verità un poco ambiguamente) di essere sempre riuscito a superare tutte le difficoltà che gli si sono parate davanti, avendo così l’opportunità di fare progressi consistenti nell’ambito della sua ricerca, e dunque di prefiggersi, riuscendo ogni volta a portarlo a termine, un nuovo lavoro, una nuova ricerca, che tuttavia resta pur sempre la stessa ricerca riguardante gli strati atmosferici. L’altro, in egual misura, è stato capace di affinare sempre di più la propria tecnica acrobatica, il che gli ha permesso di imparare a padroneggiare numeri sempre nuovi e soprattutto sempre più complessi. Entrambi insomma si sono fin dal principio imposti la legge - così la potremmo definire - dell’immer komplizierter, del sempre-più- difficile, che poi non è altro che un’ennesima manifestazione, altrettanto esiziale, della
hybris dell’uomo di spirito, dell’anelito alla Vollkommenheit:
Immer: ein anderes, ein komplizierteres Kunstück! habe er denken müssen und es ist ihm auch immer ein anderes, ein komplizierteres Kunstück gelungen, wie mir immer wieder eine andere (und doch die gleiche) und immer kompliziertere Arbeit (und doch immer wieder die gleiche über die Luftschichten) gelungen ist. Zuerst das erste Kunststück, dann das zweite Kunststück, dann das dritte, das vierte, das fünfte usf. Verdoppelung der Anstrengung auf die Arbeit (über die Luftschichten) habe ich mir immer wieder gesagt, dachte ich. […] Ich habe ganz einfach die Anstrengung verdoppelt und das Kunststück ist mir gelungen, sagte er. (AO 172)
Se dunque Konrad non riusciva neppure a scrivere la prima frase del suo saggio sull’udito, in questo caso il problema (perché sempre di problema si tratta) è di natura opposta, consiste cioè in un eccesso di produzione che è però paradossalmente altrettanto sterile, dal momento che ogni nuova opera, di qualsiasi natura essa sia, rende le precedenti vetuste, sorpassate, di scarso o nullo valore. Si tratta a ben vedere di un problema molto simile a quello con cui dovrà fare i conti Roithamer, relativo alla
correzione della correzione della correzione del manoscritto su Altensam, fino all’annientamento del manoscritto stesso. Infatti ogni nuovo studio, dal punto di vista dello scienziato, e ogni nuovo numero, dal punto di vista dell’acrobata, si pongono l’obiettivo di riparare alle imperfezioni degli studi e dei numeri precedenti.
Questi Geistesmenschen non riescono dunque - come sottolinea Gargani - a “interrompere il pensiero esattamente prima dell’istante mortale” , ed è perciò che 164
falliscono, allo stesso modo dei Geistesmenschen à la Konrad, seppur percorrendo la via a loro opposta. A entrambi i tipi di uomo di spirito mancano sia la misura, sia la saggezza necessarie per comprendere quale sia il giusto limite da porre alle proprie ambizioni - o meglio, e un poco diversamente: gli manca la modestia del disincanto, di quel disincanto che accompagna inevitabilmente il processo di maturazione personale, che è a sua volta, o più precisamente dovrebbe essere una tappa obbligata, anche se non fissa, della vita di ogni uomo. Disincanto che, al contrario di quanto si possa credere, è un valore positivo di tale processo di maturazione, come testimoniano le parabole autodistruttive dei Geistesmenschen (quasi tutti immaturi).
Veniamo così a quella che è, a nostro avviso, una delle lezioni principali della poetica bernhardiana. Attraverso i suoi antieroi, pazzi e un po’ grotteschi, lo scrittore quantomeno insegna - fra tanta negatività - ad accettare la propria finitezza, ad abbandonare ogni pretesa di perfezione, di assolutezza, persino ad abbandonare ogni pretesa in generale, similmente alla guardia del Gibs auf! (1922) kafkiano, la quale, interrogata da un passante sulla via corretta da percorrere per arrivare in un certo luogo, gli risponde per l’appunto “gibs auf!”, “rinuncia!” . 165
Si ha in altri termini la sensazione che Bernhard, per mezzo della sua opera, abbia voluto mostrare a quale tipo di conseguenze vada incontro colui che compie l’errore di prendere tutto troppo sul serio, di modo che, attraverso i fallimenti degli uomini di spirito, potessero crearsi tutti i presupposti per un’esperienza di natura catartica che non riguarda soltanto l’autore (che esorcizza lo spettro della sterilità produttiva proiettandola sui suoi personaggi), ma anche il lettore (che esorcizza allo stesso modo
Gargani 1990, p. 55.
164
Franz Kafka, op. cit., p. 438.
la possibilità di un proprio fallimento, di qualsiasi natura esso sia , proiettando il 166
fallimento medesimo sui personaggi delle storie che ha letto).
Si tratta insomma di una lezione di leggerezza (ma, si badi bene, non di passività), per quanto possa sembrare sorprendente, considerato il carattere indigesto, a detta di qualche critico e lettore, della prosa bernhardiana. Un insegnamento, peraltro, che passa quasi sempre attraverso il riso , certamente un po’ amaro, per le proprie 167
ridicolaggini, per la miseria connaturata alla natura umana, sub specie aeternitatis. Ma di tale insegnamento, se si esclude il lettore e si mantiene lo sguardo fisso sul mondo di invenzione bernhardiano, saranno capaci di fare tesoro soltanto il Reger di Alte
Meister, fautore della poetica del frammento, che si accontenta di scrivere qualche
articolo di critica d’arte per il Times, e in parte il suo primo e ultimo “allievo”, il Franz-Josef Murau di Auslöschung.
Qui, in Am Ortler, trova inoltre conferma quanto sostenuto in precedenza riguardo al meccanismo del desiderio inappagato e inappagabile, che avevamo tentato di spiegare servendoci di alcuni concetti della filosofia di Ernst Bloch. Nel capitolo precedente si diceva che Konrad, anche qualora si fosse dimostrato capace di portare a compimento l’Udito, probabilmente avrebbe finito con l’imporsi un nuovo compito ancora più ostico, poi un altro compito ancora, un terzo compito, un quarto e così via.
Ebbene, ai due fratelli di Am Ortler capita esattamente questo, come si evince dal passo del racconto citato alcune pagine addietro, oppure da questo, di poco successivo: “zuerst habe ich mir gedacht: ein Kunststück! und dann: ein komplizierteres
Kunststück! und dann: ein noch komplizierteres Kunststück! und dann: jetzt das komplizierteste Kunststück!” (AO 173). Una legge, quella del sempre-più-difficile,
talmente esigente da non ammettere passaggi a vuoto. Buona parte delle preoccupazione dello scienziato riguardo alle condizioni di salute del fratello sono
In questo senso il tema della scrittura, all’interno delle opere di Bernhard, si carica di un valore
166
simbolico che permette al lettore di interpretarla come una metafora di qualsiasi esperienza esistenziale, se non della esistenza stessa.
È l’autore stesso a definire la sua opera “ein philosophisches Lachprogramm”, “un programma
167
filosofico faceto” (cfr. (a cura di) Luigi Reitani, Thomas Bernhard: un incontro. Conversazioni con Krista Fleischmann, p. 26). Famosa è anche un’altra frase di Bernhard, pronunciata in occasione del
conferimento di un premio letterario austriaco: “es ist alles lächerlich, wenn man an den Tod denkt” (“tutto è ridicolo, se si pensa alla morte” - MP 115).
proprio dovute a un presunto calo delle sue energie artistiche, e dunque vitali, dato che per l’acrobata vita e arte sono la stessa cosa:
Alles deutet darauf hin, daß er nicht mehr auftreten wird, wahrscheinlich haben Sie in letzter Zeit, ohne daß ich Sie darauf hinweisen muß, feststellen können, daß mein Bruder in der Kunst, seine Kunststücke vorzutragen, nachgelassen hat, es sind ja schon längst nicht mehr die vollkommenen Kunststücke, die er früher gezeigt hat. Es sind längst nicht mehr die Kunststücke, die uns ferblüfft haben. Seine Kunststücke sind nicht fehlerhaft, aber sie sind nicht mehr die Kunststücke, die vollkommen sind. Das vollkommene Kunststück ist ihn schon lange Zeit nicht mehr möglich, Fortschreiten seiner Krankheit, denke ich, Zweifel, nicht nur an seiner Kunst, müssen Sie denken. (AO 186)
La perfezione, si capisce, non invecchia né si ammala, soltanto l’artista lo fa. Da ciò deriva il desiderio di non essere più l’artista, bensì la sua opera, perché, come già sosteneva Konrad, “seine Arbeit sei alles, der Schriftsteller selbst sei nichts” (KA 191). È questa un’affermazione che ricorda la ben nota teoria barthesiana della morte dell’autore, con la quale lo studioso francese intendeva mettere un punto finale alla questione relativa alla pertinenza delle intenzioni autoriali ai fini dell’interpretazione, una questione sulla quale si era scontrato a lungo, talvolta con toni accesi, con il suo avversario del momento, Picard . Nella poetica bernhardiana tale tesi non assume 168
però il valore ermeneutico che ha per Barthes, ha piuttosto a che fare con il processo di disumanizzazione inerente alla ricerca della perfezione a tutti i costi: “es ist das Vollkommenste, das mich umgebracht hat, es ist der konzentrierteste Gedanke, der
dich umgebracht hat, sagte er. Das Kunststück lebt, der es macht, ist tot, sagte er” (AO
185).
Perciò entrambi i fratelli si rendono conto del pericolo mortale che hanno sempre corso e corrono tuttora, nella loro folle ricerca dell’assoluto:
Wenn du dein Kunststück gemacht hast, sagte ich zu meinem Bruder, der, wie Sie wissen, zeitlebens nichts anderes als Kunststücke gemacht hat, habe ich immer denken müssen, daß dein Kunststück ein lebensgefährliches Kunststück ist, umgekehrt hast du, wenn ich meine Arbeit (über die Luftschichten) gemacht habe, denken müssen, meine Arbeit sei lebensgefährlich. So hatten wir beide uns
Cfr. Compagnon 2000, pp. 44-99.
zeitlebens, während du deine Kunststücke gemacht hast und während ich meine Arbeit (über die Luftschichten) gemacht habe, ständig in Lebensgefahr befunden, sagte ich. (AO 171-172).
Non a caso la paura è uno dei motivi più ricorrenti del racconto. La paura, ovviamente, di restare intrappolati nella propria arte, di restare persino uccisi a causa della propria arte, delle proprie “unerfüllbare Forderungen”, pretese inappagabili (AO 188).
Ma allora wozu Kunst? perché perseverare nell’esercizio dell’arte, se si tratta di un esercizio comunque dannoso, addirittura mortale? Semplicemente perché l’arte, che è ciò che spaventa, è al contempo l’unico mezzo che può sopprimere quello stesso spavento, che ha suscitato. Insomma, l’arte dà e l’arte toglie, verrebbe da dire. L’arte è per i Geistesmenschen una vera e propria dipendenza, gli effetti che essa ha su di loro analoghi a quelli che può dare una dipendenza qualsiasi, ossia una droga: ossessione, smania e paranoia, ma anche benessere, tranquillità e distensione:
Du hast immer Angst vor deinem Kunststück gehabt, sagte ich. Angst vor dem Kunststück, Angst nach dem Kunststück. Keine Angst während des Kunststücks. Deine Kunststückeangst, sagte ich. Und du Angst vor deiner Arbeit, vor deinen Forschungsergebnissen. Immer Angst, sagte er. Deine Wissenschaftsangst und meine Kunststückeangst, sagte er. […] Nicht im Kunststück, sagte er, nicht im Kunststück, Angst nicht im Kunststück. Aber deine Angst immer, deine Angst als