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Il Geistesmensch e le sue maschere. La figura dell'uomo di spirito nell'opera di Thomas Bernhard: da Der Kulterer a Korrektur.

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DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA Corso di Laurea Magistrale in Letterature e Filologie Europee

curr. teorico e comparatistico

TESI DI LAUREA

Il Geistesmensch e le sue maschere

La figura dell’uomo di spirito nell’opera di Thomas Bernhard:

da Der Kulterer a Korrektur

CANDIDATO RELATORE

Giovanni Melosi Prof. Alessandro Fambrini

CORRELATRICE

Prof.ssa Giovanna Cermelli

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Indice

Introduzione 1

I - Gli anni di apprendistato del Geistesmensch 10

I.1 - Der Kulterer 13

I.2 - Die Mütze 24

I.3 - Verstörung 41

II - Konrad o il Geistesmensch come uomo che uccide: Das Kalkwerk 69

II.1 - Struttura del romanzo 79

II.2 - La fornace 91

II.3 - I Konrad 102

II.4 - Il saggio 117

III - Il Geistesmensch errante 135

III.1 - Am Ortler 139

III.2 - Gehen 166

IV - Roithamer o dell’ambiguità del Geistesmensch: Korrektur 209

IV.1 - Struttura del romanzo 214

IV.2 - Roithamer 224

IV.3 - A proposito di Altensam e di tutto ciò che è connesso ad Altensam… 243

IV.4 - …con particolare riferimento al cono (e al manoscritto) 257

Conclusione 272

Appendice 288

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Introduzione

Il lettore che si avvicina all’opera narrativa di Thomas Bernhard e ne legge per la prima volta un libro, se quella lettura che ha appena concluso gli è abbastanza piaciuta da convincerlo ad approfondire la conoscenza dell’autore per mezzo di una seconda lettura, potrà di certo avere la sensazione, una volta terminata anche quella, di avere appena finito di rileggere ciò che in realtà aveva già letto una prima volta, durante la prima lettura. Nelle due opere saranno stati sicuramente differenti i nomi dei personaggi, sarà stato altrettanto differente il contesto narrativo, ma sia i primi, e cioè i personaggi, sia il secondo, e cioè il contesto, gli saranno probabilmente sembrati molto simili tra di loro, e cioè essenzialmente simili. Lo stesso potrà pensare dopo aver letto un terzo, un quarto, un quinto libro, e chissà quanti altri ancora dopo di quelli.

È infatti un luogo comune abbastanza affermato, sia fra i lettori di Thomas Bernhard, sia fra alcuni dei suoi critici, quello secondo cui l’autore avrebbe in realtà scritto un libro soltanto, avrebbe cioè avuto l’idea buona per una trama, per un tipo ben preciso di personaggio, e per un modo, ossia per uno stile, che gli sembrasse consono per raccontarli, per poi ripetere ossessivamente quella stessa trama, quello stesso tipo di personaggio e quello stesso stile una seconda, terza, quarta, quinta volta, fino all’ultimo dei libri che ha potuto pubblicare. Si può in altre parole vedere in lui l’autore di una singola idea, continuamente variata nelle diverse prose pubblicate in vita, ma rimasta essenzialmente la stessa dall’inizio alla fine della sua prolifica produzione letteraria.

Uno sguardo più approfondito dimostra tuttavia che non è questo il suo caso. O meglio, che lo è per certe ragioni, ma che non lo è per altre. È difatti innegabile che la ripetitività sia una delle caratteristiche più evidenti della poetica dello scrittore, sia a livello macrostrutturale, sia a livello microstrutturale, come ha ben dimostrato Oliver Jahraus nel suo studio del 1991, intitolato per l’appunto Die Wiederholung als

werkkonstitutives Prinzip im Œuvre Thomas Bernhards. Ma la ripetizione di un

numero ben delimitato di motivi non coincide quasi mai con una riproposizione meccanica e passiva degli stessi, quanto piuttosto - soprattutto nel caso di Bernhard -

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con una continua variazione di quei temi, che vengono dunque ripetuti e variati, ossia variati, proprio nel momento in cui vengono ripetuti. Bernhard, in altri termini, ha saputo dare vita a un’opera che fosse capace di enfatizzare le varianti inserendole in un tessuto di invarianti, sulla base del principio secondo cui una qualsiasi variazione, quand’anche impercettibile, diventa tanto più percettibile, quanto più è calata in un contesto, nel nostro caso narrativo, tendente in effetti alla ripetizione tematica e alla monotonia stilistica. Nessun altro autore, né prima né dopo di lui, è riuscito in tal senso a trarre tanto profitto da una simile dialettica fra norma e scarto, ripetizione e variazione, o ancora monotonia e polifonia, come vedremo meglio in seguito quando ci soffermeremo sui modi della narrazione caratteristici di alcuni suoi testi.

Per tali ragioni è al contempo giusto e riduttivo definire Bernhard l’autore di una sola opera. È giusto, se con ciò si vuole sottolineare, accentuandola, la fedeltà mostrata dallo scrittore a quel numero ben definito di temi su cui ha basato la sua intensa carriera letteraria. È riduttivo, poiché si corre il rischio di sottovalutare le peculiarità dei singoli tasselli di cui essa si compone. L’opera di Bernhard, semmai, può far pensare a certe composizioni seriali tipiche della musica (Schönberg e la dodecafonia) , oppure, in senso un poco diverso, della pittura o della fotografia (da 1

Monet a Warhol, per citare due esempi assai distanti fra di loro), composizioni che ripropongono volutamente uno stesso soggetto, rappresentandolo però in maniera diversa, e che quindi rappresentano tanti soggetti diversi, quante sono le composizioni che lo ritraggono. Essa rappresenta, per così dire, la tecnica della serialità applicata alla letteratura.

Di ciò è possibile rendersi conto qualora si consideri la figura del Geistesmensch, il tipo di personaggio al centro della maggior parte delle opere di Bernhard, nonché della nostra ricerca: l’industriale senza nome di Verstörung, ad esempio, somiglia molto al Konrad di Das Kalkwerk, i protagonisti di Am Ortler a quelli di Gehen, il Roithamer di

Il rapporto fra Bernhard e la musica è stato oggetto di moltissimi studi. Lo scrittore ha infatti citato

1

nelle sue opere diversi personaggi appartenenti al mondo della musica (compositori, direttori d’orchestra, musicisti), fra cui spicca senza dubbio Glenn Gould, che Bernhard ha messo al centro di uno dei suoi romanzi più famosi, Der Untergeher. Come vedremo più approfonditamente in seguito, musicale è la stessa scrittura di Bernhard, che tende spesso a trattare le parole alla stregua di vere e proprie note musicali. Riguardo a questo tema si consiglia la lettura del recente volume edito da Carocci, Thomas Bernhard e la musica ((a cura di) Luigi Reitani, Thomas Bernhard e la musica, Carocci, Roma 2006).

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Korrektur al Murau di Auslöschung, e così via. Essi però, per quanto somiglianti, non

saranno mai, in nessun caso, identici, vale a dire che non si comporteranno mai nello stesso modo, pur essendo calati in situazioni narrative molto simili.

Questa particolarità dell’opera di Bernhard ha reso possibile un lavoro come il nostro. Ci ha dato infatti la possibilità di assumere come punto di riferimento proprio il

Geistesmensch, dal momento che i protagonisti delle prose analizzate presentano un

numero di tratti in comune sufficienti, affinché li si possa considerare come tante variazioni di uno stesso tipo di figura. Come vedremo meglio in seguito, tutti questi personaggi scrivono, tutti presentano un comportamento borderline, al limite fra sanità e pazzia, tutti sono percorsi da un conflitto interiore fra forze emotive opposte, la tentazione di abbandonarsi al noto (quasi sempre rappresentato dalla loro origine) e la necessità di realizzare se stessi attraverso l’affermazione della propria individualità (per mezzo appunto della scrittura, dell’arte o della scienza); tutti quanti, infine, sono uomini di spirito, ossia di pensiero, intellettuali o presunti tali che trascorrono la loro esistenza a riflettere, studiare, filosofeggiare.

È proprio alla figura del Geistesmensch che possono insomma essere ricondotti i motivi principali della poetica bernhardiana, cui spesso abbiamo fatto riferimento, nel corso del nostro lavoro, utilizzando delle definizioni coniate dalla critica, oppure mutuate direttamente dai libri dello scrittore. Nelle pagine seguenti si incontreranno dunque termini come Sprachskepsis, per designare i vari assunti dello scetticismo linguistico fatti propri da molti personaggi bernhardiani; Vollkommenheit, Wille zur

Wahrheit e Wille zum Scheitern, per indicare il fanatismo degli uomini di spirito, che

sono ossessionati dalla ricerca di una verità o di una perfezione irraggiungibili, come testimonia l’ultimo termine fra i tre citati; Rücksichtslosigkeit, che denota invece uno dei principali tratti caratteriali dei Geistesmenschen, sempre pronti a sacrificare tutto, persino se stessi, pur di adempiere al compito che si sono prefissati; o ancora

entgegengesetzte Richtung e Grenzüberschreitung, due immagini “spaziali” che fanno

metaforicamente riferimento a un moto che è però di tipo mentale o psichico, ancor prima che fisico (specialmente nel terzo capitolo ci soffermeremo sul rapporto intercorrente fra pensiero e movimento, un tema al centro di alcuni racconti fondamentali come Am Ortler e Gehen); e infine, soprattutto, Herkunftskomplex, un

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composto creato ad hoc per designare il motivo tanto importante del complesso dell’origine, cui facevamo riferimento in precedenza.

Tutte queste espressioni corrispondono ad altrettanti concetti sicuramente familiari al lettore di Bernhard, in quanto coincidenti con quei temi sempre ripetuti e variati che conferiscono all’opera dello scrittore la ben nota compattezza, anche tipografica , che 2

la caratterizza. Temi che - è bene puntualizzarlo fin da subito - si contraddistinguono per i loro confini sfumati, ossia per il fatto di essere spesso legati fra di loro da una relazione di reciproca dipendenza che ostacola il tentativo di isolarli e di trattarli l’uno separatamente rispetto all’altro.

Astrarre dalla poetica bernhardiana un certo tema, pretendendo di non dover poi fare riferimento anche agli altri (quantomeno a quelli principali), non è infatti né semplice né raccomandabile. Si potrebbe per esempio essere tentati di limitare l’analisi al motivo della scrittura che fallisce, onnipresente nell’opera dello scrittore e quindi particolarmente vistoso, interpretandolo come un’ennesima variazione sul tema, letterario e filosofico, della crisi del linguaggio (Nietzsche, Mauthner, Wittgenstein, Hofmannsthal, Kraus, Bachmann, ecc. ). In tal modo si avrebbe certamente la 3

possibilità di mettere in luce le affinità tra Bernhard e altri scrittori e pensatori appartenenti alla stessa temperie culturale, ma si rischierebbe altresì di sottostimare la specificità che questo tema assume nell’economia della poetica dello scrittore austriaco. Infatti il motivo della scrittura, nell’opera di Bernhard, è legato a doppio filo a quello dell’origine, poiché scrivere significa sempre, per i Geistesmenschen, tentare di rendersi indipendenti rispetto alla Herkunft, e non riuscire a scrivere non significa quindi soltanto non poterlo fare a causa della fallacia del linguaggio, significa anche non disporre della forza e delle capacità necessarie per compiere quel gesto di emancipazione rispetto alla propria origine . Proprio come Konrad, che vuole scrivere 4

La maggior parte delle opere in prosa di Bernhard, come noto, sono formate da un unico, ininterrotto

2

capoverso che rende la lettura tanto concitata, quanto lo sono i monologhi dei personaggi che la compongono.

Vedi, al riguardo, lo svelto ma utile volumetto di C.A.M. Noble (Noble 1978).

3

La considerazione di questo aspetto legato al tema della scrittura è ciò che manca al comunque

4

fondamentale studio di Gargani, La frase infinita, che proprio a causa di tale mancanza giunge a conclusioni plausibili e convincenti, ma che in parte semplificano un tema in realtà più complesso e sfaccettato di quel che sembri.

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un saggio sull’udito ma non riesce a circoscrivere l’argomento del suo studio, come Oehler, che fatica a rispondere a una domanda perché essa solleva implicitamente un numero infinito di altre domande, o ancora come Roithamer, per il quale alla fine tutto è il cono (e viceversa): il critico di Thomas Bernhard si ritrova nella stessa situazione di molti personaggi dei suoi libri, è cioè portato a considerare ogni argomento come strettamente interconnesso agli altri. Non appena è riuscito a isolarne uno, quello stesso motivo lo rimanda infatti a una serie di altri motivi dai quali esso almeno in parte dipende, e che in parte condiziona a sua volta. Tanto più facile (e comoda) sarà dunque un’analisi, per così dire olistica, che faccia capo al Geistesmensch, ritenuto sempre da Jahraus, non a torto, il maggiore principio costitutivo dei testi bernhardiani . 5

Inoltre, se i vari uomini di spirito, per un verso, risultano strettamente imparentati fra di loro, per l’altro essi differiscono anche di molto l’uno dall’altro, secondo delle modalità che vanno di volta in volta specificate: l’industriale di Verstörung è per esempio assai affine a Konrad (cui fa da modello), ma Konrad è un personaggio molto differente rispetto a Roithamer; tuttavia sia Konrad sia Roithamer finiscono per trascinare nella loro follia le due persone che gli sono più vicine, Konrad uccidendo la moglie-sorellastra, Roithamer causando la morte della sorella.

Proprio sulla base di questa dinamica fra rispecchiamento e divergenza abbiamo potuto condurre un’analisi delle varie opere dello scrittore che non si limitasse a indicare la passiva e quasi meccanica ripetizione dei medesimi motivi (i maggiori elementi di comunanza fra i vari personaggi), ma che sottolineasse piuttosto, come detto, le peculiarità degli stessi, una volta riconosciute le affinità che li rendevano comparabili.

Soffermandoci un poco più a lungo sulle figure principali delle prose analizzate, abbiamo altresì trovato un ulteriore motivo di interesse nell’opera narrativa di Thomas Bernhard, che è poi risultato decisivo per la strutturazione della ricerca. Confrontando fra loro le varie maschere del Geistesmensch, si è creduto di poter individuare un percorso evolutivo che si dipanava attraverso quelle stesse figure tutte simili eppure diverse, come se ogni nuova opera pubblicata dall’autore avesse rappresentato, agli occhi dello stesso Bernhard, una sorta di aggiornamento delle opere precedenti, i cui

Cfr. Jahraus 2002, pp. 68-73.

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temi venivano, a seconda dei casi, riproposti tali e quali, smentiti, oppure corretti. Tale evoluzione ci è parsa tanto più significativa in quanto graduale e progressiva, ossia in linea con la cronologia di pubblicazione delle opere dello scrittore (se non di tutte, almeno di quelle da noi prese in considerazione, che sono comunque la maggior parte). Questa osservazione ci ha perciò indotti, euristicamente, a perorare un’idea ben precisa, quella secondo cui l’opera narrativa di Bernhard, intesa come la somma dei vari romanzi e dei racconti, potesse essere considerata come un’unica, virtuale opera costituita da tanti capitoli, quanti sono i singoli romanzi e racconti che la compongono. Un’opera per così dire processuale, che ruota attorno alla figura del Geistesmensch, di cui segue le vicende e che accompagna lungo un percorso accidentato di progressiva maturazione, non tanto dal punto di vista artistico, quanto semmai psicologico. Attraverso le sue tante figurazioni, il Geistesmensch parte infatti da uno stato di chiara minorità psicologica per raggiungere, con moltissima fatica, una maturità tanto attesa quanto sofferta (parleremo tra poco di trial and error, per descrivere le modalità con cui l’uomo di spirito riesce gradualmente a migliorarsi). Forti di questa idea, abbiamo tentato di seguire una linea interpretativa che fosse coerente con tale percorso (simile a quello tracciato dai protagonisti dei più classici Bildungsromane ), che includesse 6

quante più opere possibile e che non ne escludesse di particolarmente importanti, soltanto perché la avrebbero smentita. Abbiamo inoltre cercato di mantenerci il più possibile vicini alle prose analizzate, sempre intendendo interpretare un testo per mezzo del testo stesso.

Prima di lasciare spazio all’analisi propriamente detta, ci preme fare ancora un paio di precisazioni. Il tipo di ricerca che abbiamo voluto intraprendere non rappresenta di certo un inedito nel già ricco universo degli studi bernhardiani. Fra la letteratura in lingua tedesca previamente consultata, è stato soprattutto l’importante saggio di Alfred Pfabigan a ispirare il nostro lavoro. Nel suo volume Thomas Bernhard. Ein

österreichisches Weltexperiment, Pfabigan analizza l’evoluzione dei protagonisti delle

opere bernhardiane sulla base dei motivi principali della poetica dello scrittore, quei motivi che anche noi abbiamo posto al centro della tesi. Fra i due tipi di analisi vi è

Il riferimento al genere del romanzo di formazione è per lo più implicito, ma importante. Proprio al

6

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però una differenza sostanziale. Pfabigan infatti, nell’introduzione del volume, definisce il suo lavoro “ein hermeneutisches Experiment” , giustificando con tali 7

parole la scelta di trattare le opere secondo un ordine che non rispetta la cronologia di pubblicazione, quanto piuttosto il percorso esegetico che il critico ha inteso tracciare. Proprio il concetto di circolo ermeneutico permette infatti a Pfabigan un continuo passaggio dalla parte al tutto e viceversa, che lo libera in pratica dall’obbligo di dover rispettare la disposizione delle parti stesse (la data di pubblicazione dei testi), ritenuta evidentemente poco rilevante una volta che si sia acquisita la conoscenza del tutto, ossia dell’opera nel suo complesso. Questo aspetto conferisce sicuramente una maggiore coerenza ai risultati della sua ricerca, forse una coerenza eccessiva, se si considera che proprio nell’incoerenza è possibile individuare uno dei valori principali della poetica bernhardiana. L’analisi potrebbe inoltre risultare confusa e dispersiva da un punto di vista filologico, perché costringe il lettore ad alcuni salti temporali che potrebbero fuorviarlo, suggerendo un’idea complessiva dell’opera di Thomas Bernhard, che in fin dei conti non coincide con lo sviluppo che essa ha realmente subìto. Per tale ragione noi abbiamo ritenuto, contrariamente a Pfabigan, che fosse possibile e anzi consigliabile condurre un esperimento parimenti ermeneutico, ma che al tempo stesso tenesse anche conto, seppur in minima parte, del dato filologico. Non si è perciò voluto stravolgere la cronologia di pubblicazione delle opere, ma semmai darle risalto, semplicemente rispettandola, giacché ci è parso che essa rendesse ancora più significativa, plausibile e coinvolgente l’evoluzione cui è sottoposta la figura del

Geistesmensch nell’arco dell’intera carriera letteraria dello scrittore austriaco (nel

nostro caso soltanto di circa metà della sua carriera).

Per quanto invece concerne i contributi critici in lingua italiana, merita una menzione speciale il recente saggio di Micaela Latini La pagina bianca. Thomas

Bernhard e il paradosso della scrittura, che rappresenta sicuramente uno dei più

notevoli tentativi di analisi di alcuni temi cruciali della poetica bernhardiana, per come essi vengono svolti in opere differenti, appartenenti a fasi diverse della produzione letteraria dell’autore. Come si evince dal titolo, Latini si concentra soprattutto sul motivo della scrittura, che riconduce però inevitabilmente ad altri temi, per esempio a

Pfabigan 2009, pp. 27-32.

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quello dell’origine, da cui esso strettamente dipende, come abbiamo accennato poco sopra e come vedremo meglio nei prossimi capitoli della tesi. L’analisi, sempre brillante e convincente, ha l’unica pecca, se così la si può definire, di considerare soltanto tre romanzi di Bernhard (Das Kalkwerk, Beton e Auslöschung), ritenuti particolarmente adatti ad avvalorare le argomentazioni sostenute dalla studiosa.

Il presente elaborato intende dunque fornire un contributo, per quanto parziale, al tipo di analisi recentemente condotto, in Italia, da Latini, a una ricerca di più ampio respiro che non limiti i suoi confini alla singola opera, ma che tenti di includerne il maggior numero possibile, sulla base di una linea interpretativa che le comprenda tutte.


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I - Gli anni di apprendistato del Geistesmensch

Per trovare le prime figurazioni del Geistesmensch nell’opera di Thomas Bernhard occorre rifarsi alla fase iniziale della sua produzione letteraria. Già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, in un periodo in cui lo scrittore austriaco si sentiva forse più poeta che non prosatore, vi è infatti un certo numero di racconti, per lo più brevi, nei quali la figura dell’uomo di spirito, qualora si volesse rendere in italiano il neologismo coniato dallo stesso Bernhard (in verità traducibile soltanto parzialmente), vede le sue prime, incerte rappresentazioni. Sono anni in cui Bernhard, incoraggiato da figure a lui vicine, come, fra le altre, Hedwig Stavianicek (vera e propria compagna di vita dello scrittore, dopo la dipartita dell’amato nonno materno) e i coniugi Lampersberg (che lo ospitarono a più riprese nella loro proprietà a Maria Saal), riesce a pubblicare i suoi primi lavori, fra cui spiccano le tre raccolte poetiche Auf der Erde und in der Hölle (1957), In hora mortis (1958), Unter dem Eisen des Mondes (1958). Bernhard però abbandonerà presto la composizione in versi per votarsi completamente alla prosa e al teatro. Significativa, in tal senso, pare essere stata la bocciatura di un ciclo di liriche che avrebbe dovuto intitolarsi Frost, che Otto Müller, all’epoca editore di Bernhard, giudicava troppo cupe e addirittura blasfeme . Quando pochi anni dopo, nel 1963, 8

Bernhard compirà il suo esordio letterario in prosa, sceglierà come titolo per il romanzo lo stesso nome che avrebbe dovuto avere la silloge poetica abortita. Il passaggio da una forma letteraria all’altra appare così, a posteriori, una scelta di campo di certo decisiva, ma che si iscrive nel solco della continuità, quantomeno se ci si attiene alle tematiche.

Come detto poc’anzi Bernhard abbandonerà la composizione in versi, dedicandosi piuttosto alla narrativa, dove comunque aveva già mosso i primi passi, forte anche dell’esperienza, maturata negli anni precedenti, come cronista giudiziario in un quotidiano locale. Fra le prose più importanti di questo periodo vanno segnalati i brevissimi racconti, ascrivibili al genere delle Kurzgeschichten, successivamente riuniti nella raccolta Ereignisse (1969), alcuni dei quali vennero in un primo momento

! Cfr. Mittermayer 2006, pp. 42-43. 8

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pubblicati in varie riviste letterarie. Risale inoltre a questo stesso periodo il progetto di un romanzo che avrebbe dovuto intitolarsi Schwarzach St. Veit, di cui oggi è rimasto un unico dattiloscritto di ben 296 pagine (molte, se si considera la lunghezza media dei successivi romanzi di Bernhard) . Al lettore attento non sarà di certo passato 9

inosservato il nome di Schwarzach. Proprio da Schwarzach, infatti, da questo comune dell’Austria occidentale, Bernhard farà partire l’intreccio di Frost, immaginandovi l’ospedale in cui il giovane internista, narratore del romanzo, compie il suo tirocinio, prima di essere mandato dal primario Strauch, suo superiore, a Weng, in alta montagna, per sorvegliare il fratello pittore . 10

Ciò che però ci interessa maggiormente, in questa sede, sono alcuni nuclei tematici che nell’ipotetico romanzo d’esordio vengono per la prima volta sviluppati da Bernhard e che saranno poi ripresi, modificati, variati più e più volte nelle opere successive, secondo quel modus operandi così caratteristico da essere riconosciuto fin dal principio come uno dei tratti più tipici della poetica bernhardiana. Stando a quanto scritto da Mittermayer , nel romanzo troverebbero spazio le storie di un folto numero 11

di personaggi, fra i quali spiccano le figure di due fratelli, David e Karl, quella della signorina Bucklich, giovane aristocratica costretta ad abbandonare il castello avito, destinato a essere sostituito da un moderno impianto chimico, e soprattutto quella del professor Labil, il quale tenta inutilmente di scrivere un libro intitolato Der Hang zum

Tode. Soprattutto quest’ultimo, per quel poco che possiamo affermare in questa sede,

sembrerebbe anticipare quella versione del Geistesmensch che troverà ampio spazio nei lavori successivi, la figura dell’intellettuale a tutto tondo, un po’ erudito, un po’ scienziato, un po’ letterato, dello pseudo-filosofo che impegna tutte le sue forze nella stesura di un saggio, di uno studio, in generale di qualsiasi opera che si serva del

medium della scrittura, desiderando a tal punto l’adempimento del compito che si è

autoimposto da renderselo di fatto irraggiungibile.

Una parte dell’opera sarà poi pubblicata dallo scrittore poco prima della morte in un volume

9

intitolato In der Höhe. Rettungsversuch, Unsinn, l’ultimo uscito per sua esplicita volontà.

Non si tratta del resto della sola coincidenza fra il dattiloscritto e Frost. A parere di Matin Huber

10

Schwarzach St. Veit sarebbe infatti servito a Bernhard, almeno in parte, come materiale preparatorio

per il romanzo d’esordio, di poco successivo (Cfr. Janner 2003, p. 105). Cfr. Mittermayer 2006, p. 43.

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Si può dire che Bernhard, una volta che la fantasia gli avrà offerto questo tipo di personaggio, non lo abbandonerà mai più, come avremo ampiamente modo di vedere nel corso della tesi. Pressoché in tutti i romanzi, nonché nei racconti principali, troveremo figure simili a quella del professor Labil di Schwarzach St. Veit, individui ossessionati dal loro fallimento, nella scrittura così come nella vita, essendo il primo quasi sempre metafora del secondo. A questi intellettuali incapaci (con i quali, come nota Höller, si potrebbe fondare una piccola università ) sarà certo fornita la 12

possibilità di maturare: in una sorta di continuo trial and error, l’uno sarà in grado di imparare dagli errori dell’altro, dai “colleghi” che lo avevano preceduto e che avevano fallito, spesso, in maniera molto peggiore di lui, l’ultimo venuto, non soltanto nella scrittura, ma in ogni sfera dell’esistenza. Eppure, dal momento che quasi tutti condivideranno i postulati filosofici della Sprachskepsis, cioè di quello scetticismo linguistico che è uno dei tratti salienti del pensiero mitteleuropeo a cavallo dei due secoli e poi ancora nei primi decenni del Novecento, essendo di fatto questa la premessa alla base di tutti i romanzi, e dunque dei personaggi che li popolano, questi ultimi, e cioè i personaggi, saranno a ben vedere costretti a fallire e non potranno fare altro che fallire. Presi in trappola da una sorta di ossessiva coazione a ripetere, avranno ben poche vie di scampo per assicurarsi la salvezza. Quando infatti si ritiene, con Nietzsche, con il Lord Chandos di Hofmannsthal o con Wittgenstein (soltanto per limitarci ai nomi più noti), che il linguaggio sia uno strumento limitato, che “la parola umana [sia] come un paiolo fesso su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle” , e si sceglie nonostante tutto di percorrere 13

quella via, la via appunto della parola o meglio della scrittura, ecco che ci si condanna inevitabilmente al fallimento e a tutte le conseguenze che da esso hanno origine.

Non sarebbe tuttavia del tutto esatto affermare che Bernhard sia partito da una posizione ideologica e filosofica di questo tipo. Contemporaneamente alle sperimentazioni poetiche, contemporaneamente alla stesura del romanzo incompiuto, egli elaborava infatti la figura di un carcerato, un uomo mite e docile, saggio seppur limitato, che si apprestava a uscire di prigione dopo aver scontato la propria pena, ma

Höller 2002, p.20.

12

Gustave Flaubert, Madame Bovary, Mondadori, Milano 2011, p. 237.

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che nulla temeva più del riottenimento della libertà di cui era stato a lungo privato. La figura di un uomo, soprattutto, che di notte scriveva, nel buio pauroso della sua cella, quelli che lui stesso definiva dei pensieri di poco conto (KU 7), ma che al contempo affermava, con una risolutezza per lui inusuale: “es ist furchtbar, wenn ich nicht schreiben kann” (KU 24).

I.1 - Der Kulterer

Quest’uomo si chiama Kulterer e dà il nome al racconto che ci apprestiamo ad analizzare. La composizione di Der Kulterer, come oggi sappiamo, risale ai primi anni Sessanta, per la precisione al 1963, ma la versione definitiva del racconto fa capo a un periodo posteriore, anche se non di molto. Essa venne per la prima volta pubblicata nella raccolta An der Baumgrenze (1969), assieme al racconto omonimo e a Der

Italiener. Nel 1974 seguirà poi un’ulteriore rielaborazione, appositamente concepita

per l’adattamento cinematografico del racconto a opera di Vojtech Jasny.

Come detto, però, la breve storia di Kulterer venne concepita agli inizi degli anni Sessanta, anche se con un altro titolo e soprattutto con un finale differente. A quell’epoca Bernhard scrisse infatti un racconto intitolato Der Briefträger, che venne scelto per essere pubblicato nella silloge Neunzehn deutsche Erzählungen. La differenza più sostanziale fra le due versioni della novella riguarda senza dubbio la parte finale: in Der Briefträger il carcerato, una volta rilasciato, si suicida, il che non avviene in Der Kulterer, che presenta un finale egualmente cupo, ma di certo non tragico, e in un certo senso aperto. Del destino di Kulterer viene detto infatti soltanto che “er entfernte sich, so rasch er konnte, von der Strafanstalt in die Landschaft hinein, die, hügelig, braun und grau, vor Hoffnungslosigkeit dampfte” (KU 53). Si tratta di un finale che per certi versi rimanda alla conclusione di un romanzo di qualche decennio successivo, Beton (1982), qualora si interpreti, come pare del resto lecito, la disperazione della campagna come una proiezione dello stato d’animo di Kulterer sull’ambiente che lo circonda, una disperazione a tal punto panica da riversarsi sulla

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natura, ricoprendola, allo stesso modo di una nebbia. Beton presenta in tal senso un finale simile, con il protagonista che si risveglia in un hotel a Palma di Maiorca nella massima angoscia (“in höchster Angst” - BE 213). Anche di Rudolf non viene detto altro, ma considerando che il suo resoconto in prima persona è incorniciato dai due “schreibt Rudolf” che aprono e chiudono la narrazione, è probabile che egli, al pari di molti altri Geistesmenschen, sia già morto, e che un’altra persona, relitto invisibile del narratore di stampo tradizionale, si sia occupato della pubblicazione dei suoi scritti.

Ma veniamo al racconto. Il protagonista, Kulterer, è un carcerato che si appresta a uscire dal penitenziario in cui è stato detenuto per diverso tempo, “im Zuge eines Verbrechens, das er wie in radikaler selbstmörderischer Bewußtlosigkeit begangen hatte” (KU 19), in seguito a un delitto commesso in stato di radicale incoscienza suicida. Una volta entrato in carcere, Kulterer muta completamente carattere. Dal suo passato emerge soltanto quell’unico dato, l’omicidio, che comunque stride fortemente con il ritratto dell’uomo che ha ormai terminato di scontare la sua pena.

Kulterer infatti, una volta dentro, scopre il pensiero, un pensiero che durante la notte diventa concetto e che gli appare come il dono più prezioso, tanto che “die Welt war ihm da, von diesem entscheidenden Augenblick an, eine von Konzentration und genau abgegrenztem Bewußtsein einfach durchforschbare reinigende Unendlichkeit” (KU 19). Kulterer trascorre dunque il periodo della sua detenzione nel miglior modo (per lui) possibile, con serenità, tranquillità, lavorando nella stamperia del penitenziario, stringendo persino un rapporto di reciproco rispetto con il temutissimo e violento sorvegliante, soprannominato dagli altri detenuti “salame di gomma”, tanto che sarà lo stesso sorvegliante ad appoggiare tenacemente il suo rilascio. Nella prigione Kulterer trova se stesso, il vero se stesso, e soprattutto, è nella prigione che può finalmente sentirsi libero: “meine Entlassung aus der Anstalt bedeutet, daß ich meine Freiheit aufgeben muß”; o ancora, “jetzt bin ich frei! […] Niemals vorher habe ich Freiheit gehabt!” (KU 34), è ciò che pensa poco prima della scarcerazione.

All’interno del carcere Kulterer ha dovuto convivere con gli altri detenuti, con i tre compagni di stanza innanzitutto, poi con i compagni di lavoro e con tutti gli altri carcerati, i quali, da parte loro, lo hanno sempre osservato con un certo imbarazzo, quasi che fosse un corpo estraneo capitato per caso in mezzo a loro. Nessuno però si è

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mai lamentato di lui o è stato anche solamente maldisposto nei suoi confronti. Nonostante i detenuti non lo sappiano, nonostante Kulterer resti, ai loro occhi, un enigma, una persona insignificante ma non ridicola, discreta, non particolarmente brillante ma a suo modo saggia, egli esercita e ha sempre esercitato su di loro un certo ascendente, un’influenza, per così dire, pacificante. Come scrive infatti l’anonimo narratore: “so inmitten von Schmutz und versauertem Idealismus, inmitten von Schweinerei, Verleumdung und Habsucht, bildete er ein Gegengewicht” (KU 17), egli faceva da contrappeso.

La semplicità e la pacatezza del suo carattere, oltre a una certa disponibilità all’assoggettamento, sono ben rispecchiate da una frase che, come una sorta di refrain, gli sentiamo ripetere diverse volte. “Jaja, ich weiß”, sì sì, lo so, risponde sempre Kulterer alle parole degli altri , anche quando una tale risposta risulta del tutto fuori 14

luogo, quando per esempio gli viene detto che vi è una lettera per lui, qualcosa, cioè, che non può essere previsto, e dunque saputo (KU 13). L’effetto di questa risposta così ottusamente ripetuta è a tratti comico, come in questo caso, altre volte però non lo è né vuole esserlo, come quando Kulterer, nel buio della notte, tranquillizza i suoi compagni di cella in preda alla disperazione, sempre con le stesse parole: “jaja, ich weiß” (KU 9), sì sì, capisco.

Il tratto più caratteristico del personaggio non va però identificato nella sua docilità, né nella sua paradossale paura dello scarceramento, quanto piuttosto in ciò che egli definisce “mein Zeitvertreib” (KU 8), il mio passatempo, la scrittura. Kulterer annota i suoi pensieri di poco conto (“geringfügigen Gedanken” - KU 7) sotto forma di brevi storie e racconti inventati, che altrove sono anche definiti “Fabeln” (KU 20). All’inizio del racconto vengono snocciolati alcuni titoli che farebbero pensare proprio al genere della favola, non tanto magari a quella per bambini quanto piuttosto a una favola più matura, per adulti, sulla scorta di Kafka (del resto gli unici lettori di Kulterer sono dei carcerati). Queste brevi storie, apologhi e parabole recano titoli come Die Katze, Das

Caratteristica che lo fa somigliare a una sorta di Bartleby al contrario, laddove il personaggio del

14

racconto di Melville (Bartleby lo scrivano, 1853) risponde sempre con un ostinato “preferirei di no” che ne ha fatto un simbolo letterario dell’insubordinazione passiva.

(20)

Trockendock, Die Schwimmvögel, Die Hyäne, Die Verwalterin der Gutshofbesitzerin, Das Totenbett (KU 7), che ancora una volta sembrano alludere a Kafka . 15

Oggi sappiamo che Bernhard mutuò il nome del protagonista del racconto da un suo collega, Hubert Fabian Kulterer, che aveva conosciuto dai Lampersberg , ma si può 16

anche pensare a un qualche tipo di nome parlante. Kulterer infatti da una parte assona con Kultur, dove il suffisso finale -er, com’è noto, serve in tedesco per la composizione di nomina agentis; in questo senso il personaggio del racconto potrebbe essere inteso come “colui che produce cultura”, definizione che non dispiacerebbe a uno scrittore. Dall’altra inizia per K, ovvero con una lettera che, dopo Kafka, cessa di essere una lettera come tutte le altre e diventa la sua lettera, quella del cognome dello scrittore e naturalmente dei protagonisti delle sue opere maggiori. Non è dunque del tutto impensabile che Bernhard, che citerà Kafka anche altrove, soprattutto in

Auslöschung (1986), abbia voluto nascondere un omaggio allo scrittore praghese

nell’iniziale del nome del protagonista del suo racconto. Del resto Bernhard già in questa fase usava divertire gli amici di Maria Saal con i suoi scherzi linguistici, abitudine che non perderà mai, come si evince, oltre che dalle sue opere, anche leggendo le interviste rilasciate a Krista Fleischmann, raccolte in un volume che è stato tradotto anche in italiano . 17

In generale è però tutta l’atmosfera del racconto che fa pensare a Kafka: innanzitutto lo stile utilizzato da Bernhard, che è ancora lontano dall’assumere la forma che avrà nella fase matura della sua produzione narrativa. Poi altri temi che trovano spazio nelle poche pagine del racconto, non soltanto relativi alla scrittura, bensì da ascrivere più generalmente alla caratterizzazione del personaggio. Come abbiamo detto Kulterer è una figura remissiva, che accetta la propria colpevolezza così integralmente da esserne addirittura grato, perché nel mondo non c’è ingiustizia, (“es gibt überhaupt kein Unrecht” - KU 33), e perché in realtà il “libero” non è libero e il

A un certo punto del racconto si parla anche della triste storia di una scimmia ingannata che muore

15

cadendo da un albero (KU 21). In questo caso il pensiero va al Rotpeter di Ein Bericht für eine

Akademie (1917).

Cfr. Judex 2010, p. 62.

16

Del volume è presente una traduzione italiana uscita per i tipi di SE: Thomas Bernhard: un incontro.

17

(21)

“non libero” non è non libero (“er beruhte auf dem einfachen Gedankengang, daß der Freie nicht frei, daß der Unfreie nicht unfrei ist” - KU 34). Un personaggio che sembra insomma avere perfettamente introiettato la lezione di Der Prozeß, pronto com’è ad abbracciare con gioia la propria condanna, persino a morire trasfigurato su uno strumento di tortura (il Totenbett al quale dedica un racconto?) che incide sul suo corpo, per mezzo di affilatissimi aghi di vetro, disegni in forma di arabeschi, frasi scritte utilizzando un linguaggio incomprensibile, il cui significato tuttavia è sempre quello giusto, il cui significato, proprio in quanto incomprensibile, è esso stesso la verità, imperscrutabile, impenetrabile (In der Straftkolonie, 1919).

Kulterer ama dunque “die Zucht und die Unzucht der Zucht der Strafanstalt” (KU 25), e non sembra casuale a tal riguardo la citazione che Bernhard pone in epigrafe al racconto, tratta da Robert Walser. Tale libidine infatti non è soltanto il sentimento che i giudici kafkiani cercano di imporre agli imputati innocenti che di fatto perseguitano, rispecchia anche l’attitudine di un personaggio come Jacob von Gunten, senz’altro una delle figure più memorabili concepite dallo scrittore svizzero. In sostanza si può vedere in Kulterer l’ultimo discendente di quella famiglia di personaggi amanti del rigore fino al masochismo, presenti nell’opera di Kafka, nel Walser dello Jacob von

Gunten (anche lui non a caso “imprigionato” nell’istituto Benjamenta) e, in parte, nel Törleß di Robert Musil.

Ma torniamo al tema della scrittura. Un altro passo importante del racconto è quello in cui si dice che Kulterer riesce a concepire le sue storie soltanto di notte, al buio, perché soltanto al buio, nelle tenebre, diventano per lui chiari i contorni di tutti i concetti (“die Konturen aller Begriffe” - KU 25). Un tema, questo, che ci riporta ancora una volta a Kafka, alla sua abitudine di scrivere durante la notte, o meglio di

poter scrivere soltanto di notte, tema che però Bernhard con questo racconto ha già

fatto suo e che svilupperà in seguito per proprio conto, facendone un elemento cardine della propria poetica, come dimostra la nota frase presente in Drei Tage (1971): “in der Finsternis wird alles deutlich” (“nell’oscurità tutto diventa più chiaro” ). Spesso gli 18

capita che il processo di scrittura abbia origine da una parola a tutta prima Traduzione di Anna Calligaris tratta dal numero monotematico di “aut aut” dedicato a Bernhard

18

(Thomas Bernhard, Tre giorni, in Thomas Bernhard. Una commedia una tragedia, “aut aut”, 325, gennaio-marzo 2005, p. 19).

(22)

insignificante (“das Wort ‘Rübe’ zum Beispiel, das Wort ‘Altar’, das Wort ‘Huf’” - KU 25), che da queste parole nascano altrettante storie e che egli debba alzarsi dal letto, nel cuore della notte, per metterle su carta il più in fretta possibile, pena la loro scomparsa.

L’ovvio legame che viene così a formarsi fra scrittura, oscurità e sogno è esplicitato in un passo del racconto di cui ci siamo già serviti in precedenza, nel quale si legge che: “er nannte sein Schreiben ‘Mein Zeitvertreib’, und es kam him, wie andern die Träume kommen, und es war ihm auch so zerbrechlich wie Träume” (KU 8).

L’importanza, per la scrittura, dell’oscurità, viene insomma più volte rimarcata nel corso del racconto. Lo scrivere appare come un processo creativo di natura onirica, secondo un topos letterario che fiorisce nel romanticismo, per poi essere ripreso, con altri termini, da altre correnti artistiche, decadentismo in primis, ma anche, se non soprattutto, surrealismo ed espressionismo. Ancora una volta può essere chiamato in causa Franz Kafka. Come lui, Kulterer “schrieb nur traurige Geschichten”, scriveva solo storie tristi. “Manchmal fielen ihm äußerst lustige ein, über die er selbst lachen mußte, aber aufschreiben konnte er sie nicht. Nie war him auch nur eine einzige lustige Geschichte gelungen” (KU 23), non gli era mai riuscita una storia divertente . 19

Sotto questo aspetto è curioso notare come Bernhard si metta ironicamente anche nei panni del lettore di Kafka, nonché ovviamente del suo lettore, facendo proprio il punto di vista dei carcerati (vale a dire, in questo caso, dei lettori), i quali, ci viene detto, non sono in grado di comprendere le storie di Kulterer, che sovente li annoiano: “manchmal erhaschten sie aber jetzt schon ein Bild, und es gefiel ihnen, aber meistens zwangen sie sich, aufmerksam zu sein, sich nicht merken zu lassen, wie sehr er sie langweilte” (KU 23). Con simili parole l’omaggio a Kafka, o più semplicemente la riflessione sul proprio modo di scrivere, assume una venatura ironica, non eccessivamente critica né sarcastica, ma comunque divertita. Ad ogni modo, che si tratti di riferimenti eteroreferenziali oppure autoreferenziali, questo tipo di considerazioni sulla scrittura sono normali in uno scrittore alle prime armi, vale a dire in un artista da una parte alla ricerca di una posizione di conforto, attraverso

È nota la tendenza di Kafka a ridere forte dei propri scritti letti ad alta voce davanti agli amici, i

19

(23)

l’identificazione con i propri modelli, dall’altra alla ricerca della propria posizione, del proprio spazio operativo, necessità che può indurlo a rinnegare quegli stessi modelli che rischiano di opprimerlo, facendo di lui un epigono . 20

Tuttavia la scrittura di Kulterer non è semplicemente, banalmente visionaria. Nel racconto vi è infatti una compresenza dell’elemento onirico e di quello razionale, e anzi il secondo assume per Kulterer un’importanza, forse, ancora più determinante rispetto al primo. Il momento in cui Kulterer scopre il pensiero è descritto nei seguenti termini: “auf Vermutungen hinter Wahrnehmungen waren plötzlich Ansätze eigener Zielsetzung gefolgt; Wirkungen beruhten plötzlich tatsächlich auf Ursachen. Auf einmal hatte es das, was auch er ‘Hierarchie’ nannte, gegeben” (KU 19). È dunque dalla ragione, capace di ordinare analiticamente i dati del reale, che improvvisamente (“plötzlich” o “auf einmal”) nasce il pensiero; dal pensiero origina a sua volta la scrittura, la quale però risulta possibile soltanto di notte, ed è qualcosa di simile a un sogno. “Und er entdeckte auf den Stützpfeilern der Mathematik die Poesie, die Musik, die alles zusammenhält” (KU 19). Matematica e poesia, logica e intuizione, ragione e 21

sentimento, luce e tenebra: per Kulterer la scrittura si nutre di questo moto dialettico fra elementi di natura opposta, è essa stessa la sintesi di una tale dialettica, e necessita dunque di entrambi i termini, soltanto apparentemente contrastanti, per potersi esprimere.

D’altro canto non è questa l’unica opposizione presente nel testo. Bernhard anzi accentuerà col passare del tempo la tendenza a imbastire le sue trame secondo una struttura formale insistita, che si basa su una serie di concetti opposti messi più volte a confronto fra di loro, i quali vengono fatti interagire, dapprima mediante contrapposizione, poi attraverso un’inversione dei termini vera e propria, ovvero del valore che essi assumono per il personaggio che di volta in volta se ne serve, generando così quell’effetto di paradosso ampiamente sottolineato dalla critica

Secondo la tesi, riassunta qui in modo molto succinto, esposta da Harold Bloom in The Anxiety of

20

Influence (1973). Vedi anche Fusillo 2009, pp. 98-99 e, riguardo a Bernhard, Höller 2015, pp. 41-50,

Fuest 2000 pp. 326-335.

A un certo punto del racconto si parla anche di una storia scritta da Kulterer che ha per argomento la

21

(24)

(secondo una poetica dell’einerseits-andererseits, com’è stata definita ). Nel caso del 22

racconto in questione, oltre all’opposizione fra luce e tenebra, è soprattutto la coppia polare interno-esterno quella che informa maggiormente il testo. Interno-esterno che significa anche chiusura-apertura e dunque, come logica vorrebbe, prigionia-libertà. È proprio a questo punto, però, che l’autore interviene invertendo i termini: per Kulterer infatti l’interno, cioè l’ambiente chiuso del carcere e quello doppiamente chiuso della cella, corrisponde alla libertà, mentre l’esterno corrisponde alla prigionia, o meglio alla privazione della libertà offerta dal carcere. Come detto più volte, sta tutto qui il paradosso su cui si basa il racconto, la semplice intuizione da cui nasce la storia.

La critica, che non ha speso, a dir la verità, molte parole su questa Kunstlernovelle, ha individuato in Der Kulterer un primo tentativo, da parte di Bernhard, di definire la propria poetica . Ciò a nostro avviso può essere vero, ma soltanto se si tiene in 23

considerazione quanto detto in precedenza, principalmente a proposito di Kafka. Bernhard avrà sicuramente voluto esprimere le sue concezioni riguardo al ruolo che da questo momento in avanti intendeva ricoprire, quello cioè dello scrittore, ma lo ha fatto ricorrendo a degli stereotipi letterari ben precisi, che non riguardano esclusivamente la tradizione tedesca, ma che trovano la loro più perfetta incarnazione proprio nella figura di Franz Kafka. Il ritratto di sé che egli, sempre che sia stata questa la sua intenzione, ha voluto fornire al lettore attraverso la figura di Kulterer è in sostanza un ritratto molto stilizzato, ben lontano dall’immagine dello scrittore isolato, burbero, anticonformista e antiaccademico che il Bernhard maturo saprà abilmente costruire.

Anche lasciando da parte il piano tematico e concentrandosi su quello formale, il quadro che emerge è coerente con quanto detto finora. In Der Kulterer Bernhard si serve di un narratore in terza persona che è di fatto esterno al mondo d’invenzione che esso descrive. Si tratta, in termini genettiani, di un narratore extradiegetico. Se si escludono gli altri racconti coevi, per esempio An der Baumgrenze, ciò non avrà modo di ripetersi in nessun altro romanzo successivo. La narrazione potrà sì essere in prima

Per Gargani mediante questa clausola “si esercita un pensiero che resiste ai fatti scompaginandoli in

22

una varietà di possibilità che in tutte le opere di Bernhard è responsabile del carattere opulento della sua scrittura” (Cfr. Gargani 1990, p. 15).

Cfr. Judex 2010, pp. 65-66.

(25)

o in terza persona, ma il narratore sarà sempre interno al mondo d’invenzione, che dunque non sarà più suo, ma dello stesso Bernhard. In Der Kulterer non troviamo nemmeno il complesso sistema di citazioni e punti di vista che si accavallano l’uno su l’altro, disturbando il canale comunicativo fra narratore e lettore e dando origine a quel prospettivismo (e relativismo) che è soltanto l’altra faccia dello scetticismo linguistico che è proprio di Bernhard, prima che dei suoi Geistesmenschen.

In questa novella giovanile non vi è insomma traccia dell’armamentario retorico e stilistico che lo scrittore sarà in grado di dispiegare già a partire dalle pubblicazioni della fine degli anni Sessanta, non è ancora presente quella predilezione per la musicalità e per il ritmo, e cioè per la forma e per il significante, spesso a discapito del significato. Ciò che Eyckeler, in merito allo stile maturo dell’autore, ha definito

Sprachsog, “vortice linguistico” , lascia il posto in Der Kulterer a una scrittura 24

piuttosto pacata, dai toni a tratti favolistici, a tratti parabolici. Al discorso diretto viene spesso preferito il discorso indiretto libero, alla citazione di intere frasi la citazione di singole parole, similmente a quanto farà Handke, per fare l’esempio di uno scrittore vicino a Bernhard, in Wunschloses Unglück (1972), o a quanto farà lo stesso Bernhard in quello che viene considerato il suo esordio letterario vero e proprio, Frost . 25

Il racconto tuttavia presenta già, in embrione, alcuni temi che Bernhard riprenderà nelle opere successive. Kulterer possiede già, potenzialmente, quelli che saranno i tratti caratteristici del Geistesmensch, senza però vivere i conflitti interni che faranno dannare i suoi “fratelli maggiori”. Innanzitutto vi è il tema della scrittura. Per Kulterer essa è ancora possibile, anche se soltanto a determinate condizioni. Egli ha bisogno, per essere prolifico, dell’oscurità, dell’isolamento, soprattutto di un luogo che lo faccia sentire al sicuro da ogni influsso esterno. Per di più, il suo scrivere è simile a un sogno, onirico certo, ma anche fragile. Non si tratta insomma di un possesso definitivo, ma di qualcosa che deve essere continuamente confermato, riconquistato.

Cfr. Eyckeler 1995, pp. 72-113.

24

Dove però la citazione di singoli frammenti di frasi del pittore Strauch è alternata a citazioni più

25

ampie, e dove soprattutto essa ha una funzione ben precisa, quella di confondere il lettore riguardo al chi-dica-cosa, un effetto appositamente ricercato da Bernhard in quanto rispondente all’evoluzione del personaggio narrante, il giovane internista che, dapprima distaccato, si sente sempre più attirato dal pittore, suo oggetto di analisi, e al pittore avvinto.

(26)

Direttamente collegato al tema della scrittura, vi è poi quello della segregazione e del conseguente solipsismo. Come gli altri Geistesmenschen, Kulterer teme ogni contatto con il mondo al di fuori del carcere, che è per lui una vera e propria minaccia. Di gran lunga preferibile è semmai l’ambiente caldo e accogliente, per così dire uterino del penitenziario. Non è un caso se prima di uscire dalla prigione lo vediamo svestire i suoi abiti da carcerato per reindossare gli indumenti da civile, in una sorta di rito di passaggio che è anche specchio del trauma che è costretto a vivere. “Der hat eine weiße Haut wie ein Kind” (KU 51), ha la pelle bianca come un bambino, affermerà il più anziano compagno di cella al cospetto della sua nudità. L’uscita dal carcere viene così ad assomigliare a un parto, a un’espulsione dall’utero materno.

Anche molti altri personaggi dei romanzi successivi subiranno la fascinazione di un simile regressus ad uterum. Essi cercheranno in un primo momento di risolvere la questione relativa al cosiddetto complesso dell’origine (Herkunftskomplex) fuggendo i luoghi e le persone dell’infanzia, ma finiranno inevitabilmente col barricarsi in un carcere che non sarà più reale, come nel caso di questa novella, ma metaforico, un carcere che avrà architetture sempre diverse, ma che rimarrà sempre e comunque un

Denkkerker, un carcere del pensiero. La differenza principale fra queste figure e

Kulterer consiste in buona sostanza nel fatto che mentre il secondo riesce a trovare la pace interiore all’interno del carcere, reale, in cui è recluso, i vari Konrad, Roithamer, Rudolf, Wertheimer non saranno mai in grado di creare le condizioni ideali per la stesura delle loro opere e in generale per la tranquillità del loro continuo filosofare, né al di fuori, né all’interno del carcere, metaforico, in cui volontariamente si rinchiuderanno . 26

Ma l’inquietudine propria di questi personaggi non tocca Kulterer anche per il fatto che egli, al contrario di loro, non dubita mai, neanche per un momento della scrittura.

L’immagine del carcere sarà di qui in avanti onnipresente nell’opera di Bernhard. Anche la scrittura,

26

e quindi il linguaggio verranno paragonati a un carcere, all’interno del quale l’uomo è destinato suo malgrado a dimenarsi per tutta la vita, senza possibilità di liberarsene. Se dunque Wittgenstein nella famosa proposizione 5.6 del Tractatus logico-philosophicus (1921) osservava che “die Grenzen

meiner Sprache bedeuten die Grenzen meiner Welt”, che “i limiti del mio linguaggio significano i

limiti del mio mondo” (Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 2009, p. 88), tali limiti, o meglio confini assumono l’aspetto di vere e proprie sbarre nella desolante costatazione messa in bocca da Bernhard a un personaggio di Watten (1969), secondo il quale “die Phrase ist unser lebenslänglicher Kerker”, la frase è il nostro carcere a vita (WA 88).

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Della scrittura in quanto espressione del linguaggio e del linguaggio in quanto rappresentazione autentica, obiettiva e fedele di un Sachverhalt, per usare l’espressione di Wittgenstein, di uno stato di cose che chiede di essere descritto, pronunciato, dunque posseduto attraverso il linguaggio, ma che poi in realtà non si lascia mai descrivere, pronunciare e possedere, che sfugge sempre al tentativo di addomesticamento del linguaggio, e dunque dell’uomo.

Kulterer ha per così dire la fortuna di poter vivere la sua storia in una fase in cui Bernhard non ha ancora fatto proprie le posizioni ideologiche, filosofiche e letterarie della Sprachskepsis, il che, in un certo senso, lo salva, rendendogli possibile il raggiungimento di quell’equilibrio fra luce e tenebra, libertà e prigionia, matematica e poesia che per gli altri Geistesmenschen rimarrà soltanto un lontano miraggio, tanto più bramato quanto più impossibile da raggiungere.

Tuttavia, già a partire da un racconto di poco successivo a Der Kulterer, si assisterà alla fatale rottura di questo equilibrio e al conseguente emergere della nevrosi, della paranoia, della follia. Stavolta non si tratterà della paradossale storia di un prigioniero terrorizzato dall’imminente scarcerazione, bensì di quella di un giovane uomo la cui salute mentale appare fin dal principio compromessa. Un uomo che troverà per caso un berretto abbandonato sul ciglio della strada, e che commetterà, suo malgrado, l’errore più grande della sua vita: quello di raccoglierlo.

(28)

I.2 - Die Mütze

Während mein Bruder, dem eine ungeheure Karriere vorausgesagt ist, in den Vereinigten Staaten von Amerika an den wichtigsten Universitäten Vorträge über seine Entdeckungen auf dem Gebiete der Mutationsforschung hält, worüber vor allem die wissenschaftlichen Blätter auch in Europa mit einem geradezu beängstigenden Enthusiasmus berichten, habe ich, der zahllosen auf den kranken Menschenkopf spezialisierten Institute in Mitteleuropa müde, in seinem Hause Quartier nehmen dürfen, und ich rechne es ihm hoch an, daß er mir das ganze Gebäude völlig bedingungslos zur Verfügung gestellt hat. (MÜ 63)

Questo l’incipit di Die Mütze, racconto che venne pubblicato da Bernhard in una raccolta del 1967, Prosa, in seguito definito da Marcel Reich-Ranicki “Meisterstück der zeitgenössischen deutschen Prosa” , capolavoro della prosa tedesca 27

contemporanea. Ciò che colpisce a una prima, rapida lettura è senza dubbio la complessità sintattica di questo unico, lungo periodo, il quale, secondo una strategia narrativa cui Bernhard farà ricorso assai spesso anche nei romanzi a venire, ha il compito di introdurre i personaggi, caratterizzandoli spesso e volentieri in maniera definitiva, nonché i luoghi principali dell’azione. Nelle opere successive, ma non in questa, Bernhard arriverà persino a riassumere l’intero intreccio nelle poche righe di una pagina, quasi sempre la prima; quanto viene in seguito narrato non condurrà in tal modo a sviluppi sostanziali della trama, essendosi essa già svolta prima della narrazione, che dunque risulta essere, semmai, un interminabile commento alla storia, anziché una sua prosecuzione vera e propria.

Questa tendenza, di cui Bernhard stesso era ben consapevole, al punto di definirsi, con la solita inventiva linguistica, Geschichtenzerstörer , non è ancora del tutto 28

sviluppata in Die Mütze. Qui infatti, per mezzo della voce del narratore, a venire introdotti sono due fratelli, dei quali l’uno, il narratore stesso, sarà l’effettivo protagonista della vicenda narrata, mentre l’altro, uno scienziato al momento impegnato in una serie di conferenze negli Stati Uniti, pur venendo nominato in un

Cit. in Judex 2010, p. 62. Die Mütze fa anche parte del discusso canone proposto da Reich-Ranicki,

27

che lo ha inserito fra i migliori racconti della letteratura in lingua tedesca.

“D’altra parte non sono certo neanche uno scrittore allegro, non sono un narratore di storie, io odio

28

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altro paio di passi del racconto (in quanto destinatario delle lettere del fratello), non comparirà mai, anche se la sua presenza si farà sentire per tutto il corso del racconto, la presenza, per essere più precisi, costituita dalla sua assenza. Il fantasma del fratello è infatti un elemento fondamentale della narrazione, poiché concorre a delineare con maggiore efficacia la personalità del protagonista.

I due fratelli infatti, secondo un altro di quei temi che si affermeranno nelle opere successive , risultano essere l’uno l’opposto (quasi speculare) dell’altro: in questo 29

caso il fratello lontano è uno scienziato di successo, le cui scoperte gli hanno valso un’ampia reputazione, come testimoniano le conferenze che tiene attualmente nelle migliori università americane. Dei due, lui è l’individuo sano, vincente. L’io-narrante invece, da ciò che si apprende già a partire dall’incipit del racconto, gode sì, ironicamente, di pari notorietà, non però in merito alle sue ricerche (anche lui è infatti scienziato), bensì a causa dei disturbi mentali che lo affliggono, che lo hanno reso un visitatore abituale dei più rinomati istituti di igiene mentale della Mitteleuropa. A differenza del fratello, lui è dunque l’individuo malato, il perdente. Fra i due si viene così a instaurare una gerarchia, o meglio un rapporto di subordinazione reso evidente proprio dal fatto che il fratello malato occupa la casa del fratello sano, in modo per così dire parassitario, quando quest’ultimo è assente, quando, detto altrimenti, non ne ha alcun bisogno. Dipendenza che è confermata anche dalla deferente gratitudine del fratello malato nei confronti del fratello sano, per avergli messo a disposizione la propria imponente villa.

Il passo successivo del racconto si concentra proprio sulla villa. Come abbiamo già avuto modo di accennare in precedenza, i luoghi, e fra questi in particolare le abitazioni, assumono un ruolo fondamentale nei mondi di invenzione di Thomas Bernhard . “Scrivo solo di paesaggi interiori”, confesserà lo scrittore a Krista 30

Fleischmann in un’intervista del 1981, “e la maggior parte della gente non li vede: non

Sul rapporto fra fratelli nell’opera di Bernhard e su altri tipi di rapporti familiari vedi Jahraus 1991,

29

pp. 57-69.

Sull’argomento vedi Nienhaus 2010.

(30)

vede quasi nulla ‘dentro’. […] Credo di non avere ancora descritto un paesaggio in un libro. Questo proprio non c’è” . 31

In Die Mütze vengono nominate delle cittadine ben precise, prima fra tutte Unterach, dove è situata la villa del fratello, poi Burgau, Parschallen e Mondsee, tre località vicine il cui ruolo risulterà cruciale nello svolgimento della vicenda (soprattutto per quanto riguarda le prime due). Della casa viene inoltre detto che essa si trova “unmittelbar am Ufer des Attersees” (MÜ 63), ovvero in una posizione non propriamente agevole, anche se meno rischiosa rispetto, per esempio, alla casa sulla riva dell’Aurach che si costruirà l’imbalsamatore Höller in Korrektur (1975). Ma Unterach, Burgau, Parschallen, Mondsee, Attersee sono tutti, principalmente, “paesaggi interiori”, nomi geografici che potrebbero essere tranquillamente sostituiti da altri nomi geografici, come notava già Rubini nel suo saggio del 1984 , talmente 32

astratta è la descrizioni che se ne fa, talmente peculiare la valenza simbolica che essi assumono per i personaggi che li abitano. I luoghi sono insomma, qui come altrove, determinati in modo soggettivo dallo sguardo di chi li descrive, in sé e per sé non significano niente, ma assumono significato dal momento in cui il personaggio in questione vi proietta i propri stati d’animo, che sono, almeno per quanto riguarda Die

Mütze, dominati dall’angoscia, dalla paranoia, dalla follia.

La storia narrata in questo racconto tratta infatti di questo, del definitivo crollo nervoso del protagonista, della sua caduta nella follia a causa di un incidente a tutta prima banale, una di quelle piccolezze che nei romanzi di Bernhard assumono il valore di vere e proprie catastrofi. Tuttavia è interessante notare fin da ora come sia il narratore stesso ad avere la possibilità di raccontare la propria storia, un privilegio, come vedremo, che non sarà concesso a molti altri Geistesmenschen.

Ma veniamo appunto alla storia. Il narratore, uno scienziato di cui non viene specificato il nome, decide come detto di trasferirsi nella casa del fratello, stanco del continuo andirivieni fra un istituto di igiene mentale e l’altro. In un primo momento egli cerca inutilmente di portare avanti i suoi studi nel ramo delle scienze forestali e

(A cura di) Luigi Reitani, Thomas Bernhard: un incontro. Conversazioni con Krista Fleischmann,

31

SE, Milano 2003, p. 13.

Cfr. Rubini 1984, pp. 55-69 e ancora Nienhaus 2010, pp. 15-16.

(31)

boschive (“Wald- und Forstwissenschaft” - MÜ 64). Come nel caso di diversi altri

Geistesmenschen, non si tratta di un campo di ricerca comune, tanto più che il canone

di autori-modello da lui proposto, peraltro assai sbrigativamente, appare non tanto eterogeneo, quanto piuttosto aleatorio (Hilf, Doktor Mantel, Liebig, Kriszat, Heisenberg, Sir Isaac Newton) . Il metodo di studio seguito dal narratore rimanda 33

insomma a un concetto di opera di tipo enciclopedico, universale, di chiaro stampo romantico , concetto reso anacronistico dalla sempre più accentuata specializzazione 34

e settorializzazione del sapere che si è imposta nel Novecento. D’altra parte uno dei tratti caratteristici maggiormente comici dei Geistesmenschen bernhardiani è e sarà proprio da individuare nella loro inattualità, di cui non sapranno capacitarsi, nella lotta continua che ingaggeranno contro una modernità che avrà sempre, ovviamente, partita vinta; il ridicolo di questi personaggi è in sostanza lo stesso ridicolo del Don Chisciotte di Cervantes, o ancora quello, per restare in tempi recenti, del Peter Kien di Canetti (Die Blendung, 1935).

A causa del perenne stato di agitazione in cui versa, l’io-narrante non riesce dunque a proseguire i suoi studi, ma in un primo momento la nuova sistemazione gli reca comunque qualche sollievo. Ha l’impressione di tornare finalmente a respirare, di essere di nuovo libero dallo spettro della follia, da quella malattia che nessun medico è riuscito a spiegare, ma che tutti gli specialisti gli hanno immancabilmente diagnosticato.

La tregua, però, ha vita breve. Di nuovo in balìa del suo demone, il narratore scaccia di casa la servitù e chiude tutte le imposte della villa, escluse quelle del lato posteriore, le quali, dando su un bosco di alberi ad alto fusto, impediscono già di per sé il penetrare della luce nell’abitazione. Anche una persiana della camera da letto viene lasciata aperta, ma con il solo scopo di far circolare un po’ d’aria (MÜ 65). Come Kulterer prima di lui, il protagonista di Die Mütze sembra dunque cercare la pace nella solitudine e, soprattutto, nell’oscurità di un luogo protetto. Eppure, al contrario del carcerato, non vi è in realtà niente che egli tema di più dell’oscurità stessa: “was ich

Cfr. Kahrs 2000, pp. 54-55.

33

Si pensi, per citare un esempio che valga per tutti, alla Totalwissenschaft novalisiana. Cfr. Fuest

34

(32)

aber am meisten in Unterach fürchtete, war die Dämmerung und die kurz auf die Dämmerung folgende Finsternis” (MÜ 66).

Così, nonostante il narratore affermi più volte di non essere ancora impazzito, di

dover presto impazzire ma di non essere ancora uscito di senno, il suo comportamento

è in realtà già un comportamento da folle. Egli infatti non solo non riesce a dominare le proprie angosce, ma fa di tutto per accrescerle. Tentando di sfuggire loro, inconsapevolmente le agevola, secondo quel meccanismo tipico del pensiero ossessivo-compulsivo, per cui si desidera inconsciamente ciò che si teme, si tenta di scongiurare l’avverarsi delle proprie paure (l’oscurità) concorrendo in realtà all’avverarsi delle stesse (le imposte chiuse accrescono l’oscurità).

A questo punto al protagonista non resta che una soluzione: la fuga. Al sopraggiungere del crepuscolo, egli si fionda letteralmente fuori di casa, evadendo da quel carcere che aveva fabbricato con le sue stesse mani. Tre sono le opzioni che ha a disposizione: può imboccare la strada verso Burgau, quella verso Parschallen o quella verso Mondsee. Delle tre la terza, la più temuta, viene esclusa a prescindere. Potendo scegliere fra Burgau e Parschallen, il narratore decide di correre sempre in direzione di Burgau, che ritiene più salutare, nonostante Parschallen sia in tutto e per tutto migliore di Burgau, come afferma egli stesso: “Burgau ist häßlich, Parschallen nicht. So sind auch die Menschen in Burgau häßlich, in Parschallen nicht. Burgau hat einen fürchterlichen Geruch, Parschallen nicht. Aber für meine Zustände ist Burgau besser” (MÜ 73). Anche in merito all’alternativa Burgau-Parschallen vale dunque ciò che si è detto prima riguardo all’apertura e alla chiusura delle imposte della villa.

Soltanto in un’occasione l’io-narrante si concede un’infrazione delle proprie ferree abitudini. Un giorno, uscito di casa in anticipo, ubbidendo a un improvviso suggerimento della sua testa (“einem plötzlichen Wink aus meinem Kopfe gehörchend” - MÜ 67), decide di andare verso Parschallen, anziché verso Burgau. Ma per il malato di mente, per l’individuo ossessivo, compulsivo e paranoide non vi è disgrazia maggiore di quella costituita dall’imprevisto, dall’elemento inaspettato ed estraneo che irrompe all’improvviso, scompaginandola, in una quotidianità estremamente regolata, fatta di gesti e azioni che si devono ripetere ogni giorno alla stessa ora, ovviamento nello stesso modo. Nel caso di Die Mütze tale elemento

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